SM: Stefano, la tua carriera ti ha visto al timone di progetti grafici significativi per diverse testate, tra cui “Il Manifesto” e “La Repubblica”, oltre al tuo attuale ruolo di direttore artistico de “L’Espresso”. Come vedi l’evoluzione del design grafico nell’editoria italiana oggi?
SC: È necessario fare una distinzione tra editoria generalista ed editoria indipendente. La prima è in profonda crisi: i giornali generalisti sono sovradimensionati con costi eccessivi per giornalisti, carta, stampa e distribuzione a fronte di un bacino di lettori che è sempre più esiguo e di età matura. Le edicole – quasi unici punti di distribuzione di queste pubblicazioni – stanno sparendo, rendendo sempre più difficile anche l’acquisto.
Di contro i giornali indie hanno redazioni “fluide” e non fisse. Quindi il direttore fa altri lavori (io per esempio come sai sono art director de L’Espresso e al contempo mi dedico a Grafica Magazine), i giornalisti sono collaboratori che scrivono per molti giornali e la grafica è fatta fare a studi esterni che hanno anche altri clienti.
Queste differenti situazioni per forza di cose si riflettono sul design dei due tipi di prodotti. Il giornale generalista, per accontentare un pubblico maturo e quindi conservatore, si basa su progetti grafici tranquillizzanti, classici nel migliore dei casi. L’editoria indipendente, invece, si rivolge a un pubblico di nicchia molto motivato all’acquisto del magazine che gli interessa. Si tratta di un pubblico fidelizzato e mediamente giovane e questo – in termini di design – si concretizza in progetti grafici contemporanei, sperimentali e spesso – permettimi la banalità del termine – belli.
SM: In quali parti del mondo pensi che stiano emergendo le tendenze più rilevanti e innovative?
SC: L’Asia è sicuramente l’area geografica che mi affascina maggiormente se parliamo di design dei giornali. Tre nomi su tutti: “Popeye”, il decano dei magazine di moda giapponesi, nato a Tokyo addirittura negli anni Settanta. Poi “Brand”, che invece tratta di design e comunicazione visiva ed è pubblicata a Hong Kong. Infine “Meantime”, a metà tra magazine e diario personale, è un progetto di un giovane giornalista di Singapore; la grafica cambia in ogni numero ed è sempre sorprendente.
Nel campo della comunicazione visiva italiana esistono eccellenze sparse in tutto il Paese ma che non riescono a dialogare e confrontarsi tra di loro.
SM: Vorremmo parlare del progetto “Grafica Magazine”. In Italia mancava qualcosa che fosse in grado di parlare in modo completo e approfondito di graphic design. Quali esigenze vi hanno spinto a creare una rivista dedicata proprio al graphic design?
SC: La prima esigenza – quella che mi ha spinto, insieme al mio socio Federico Falciani – è stata proprio quella che tu hai individuato: un vuoto editoriale. “Progetto Grafico”, la gloriosa e a tratti splendida rivista dell’Aiap, Associazione italiana design della comunicazione visiva, da tempo non ha una periodicità fissa e negli ultimi anni ha ospitato contenuti più accademici che giornalistici.
A mio avviso in Italia mancava una pubblicazione assimilabile al magazine britannico “Eye”, trimestrale di design autorevole e contemporaneo allo stesso tempo. Ecco, se GM riuscisse anche solo ad avvicinarsi a questo modello, sarebbe già un buon risultato.
La seconda esigenza – importante tanto quanto la prima – è ridare alla grafica una centralità culturale e sociale che fa parte della tradizione italiana e che negli ultimi anni sembra essersi un po’ dispersa. Nel campo della comunicazione visiva italiana esistono eccellenze sparse in tutto il Paese ma che non riescono a dialogare e confrontarsi tra di loro. GM ha l’ambizione di raccontarle e – così facendo – di metterle in relazione. Non solo attraverso il giornale, ma anche con una serie di talk in collaborazione con Studio Mistaker che farà incontrare anche fisicamente i protagonisti del design italiano con la comunità che li segue.
SM: Puoi darci qualche anticipazione su cosa possiamo aspettarci dal primo numero di questo nuovo progetto? In che modo “Grafica Magazine” analizza e racconterà il design?
SC: Il primo numero vuole far capire subito che GM ha lo scopo di creare un’unica grande comunità italiana della comunicazione visiva, senza divisioni geografiche, accademiche o professionali. La copertina e la conseguente cover story sono firmate dal maestro Mauro Bubbico che – generosamente – ha contribuito a illustrarle con due immagini originali create apposta per l’occasione.
Poi, tra gli altri contributors: Riccardo Falcinelli, Francesco Franchi, Angelo Rinaldi, Pietro Corraini, Paolo Casicci, Daria Scolamacchia, Leda Croci, Michele Galluzzo, Marta Sironi, Ivan Canu, Mistaker, Emiliano Ponzi, Giulia Zoavo.
Partendo dalla grafica sono contemplate tutte le discipline che le ruotano intorno (illustrazione, fotografia, fumetto, design, branding, tipografia) e che saranno raccontate attraverso articoli, approfondimenti e interviste.
SM: Il design di una rivista è cruciale per definire la sua identità visiva e comunicativa. Nel progettare la rivista “Grafica”, quali sono stati i principali criteri e approcci che avete adottato per definire la struttura e lo stile visivo della pubblicazione?
SC: Lavorando da sempre nel mondo dei giornali, sono sia art director che giornalista professionista. Questa doppia anima mi porta da sempre a far sì che la grafica sia al servizio dei contenuti, rendendoli il più possibile chiari e leggibili. Tale filosofia è ovviamente abbracciata anche da Elisa Abbadessa e Davide Luccini, che con me si occupano del design dell’intero progetto.
Tutto quindi – a cominciare dalla scelta del formato tabloid extra, simile a quello dei quotidiani – è stato studiato per trasmettere accessibilità ai contenuti. Un contributo fondamentale viene poi da Zetafonts, fonderia digitale di Firenze con cui collaboro da anni (hanno creato anche i font de L’Espresso) che ci ha supportato nella progettazione grafica: Aquawax Pro e Arsenica, i loro caratteri tipografici scelti per Grafica Magazine sono leggibili e contemporanei, e rafforzano così il tono del giornale.
Infine, anche la struttura del timone (ovvero la sequenza delle pagine) scandisce in modo netto e razionale le tre sezioni che compongono GM. Si parte con “Magazine”, la parte del giornale vero e proprio con notizie, approfondimenti, interviste e reportage; “Workshop”, dedicata alla formazione, con presentazione di Accademie e Università e con la pubblicazione di tesi degli studenti; “Archivio”, curata dalla storica Marta Sironi, per riscoprire e far conoscere alle nuove generazioni di progettisti personaggi e movimenti che, per diversi motivi, non sono conosciuti come meritano.
Per riscoprire e far conoscere alle nuove generazioni di progettisti personaggi e movimenti che, per diversi motivi, non sono conosciuti come meritano.
SM: L’impatto ambientale della stampa di riviste è una questione sempre più importante. Ricerche dell’Università di Oxford mostrano che la produzione di carta e la stampa sono tra i maggiori contributori all’impronta di carbonio delle case editrici. Come affrontare queste sfide ambientali? Ci sono iniziative specifiche che avete adottato per rendere la produzione della rivista più sostenibile?
SC: La scelta di realizzare una rivista cartacea è stata necessaria per perseguire la mission che ci siamo dati e che ti ho esposto precedentemente. Ciononostante ci siamo ovviamente posti il problema dell’impatto ambientale e per questo abbiamo scelto come partner la cartiera Favini, molto attenta alla sostenibilità ambientale, sociale ed economica. GM è stampato su carta “Alga White”, ecologica riciclata e biodegradabile, prodotta con energia da fonti rinnovabili compensando le emissioni non evitabili. Inoltre in redazione evitiamo il più possibile la stampa delle bozze, annotando le correzioni direttamente sui pdf di lavorazione.
GM è stampato su carta “Alga White”, ecologica riciclata e biodegradabile, prodotta con energia da fonti rinnovabili compensando le emissioni non evitabili.
SM: Dorothea Lange ha detto: “The camera is an instrument that teaches people how to see without a camera.” Come pensi che questa idea possa essere applicata al graphic design? In che modo i designer possono educare il pubblico a vedere e comprendere il mondo attraverso i loro lavori?
SC: Questa affermazione è alla base del design stesso, che deve essere di uso comune all’interno della società, sia che si tratti di un prodotto, sia che si tratti di un giornale cartaceo o di un sito web. Nel momento in cui il fruitore utilizza il progetto, il designer ha raggiunto l’obiettivo della sua professione. I designer hanno il dovere civile e politico – ma questo lo teorizzava già Albe Steiner negli anni Cinquanta dello scorso secolo – di educare la società al bello, che non deve essere mai effimero. Per fare ciò è necessario lavorare sempre in maniera intellettualmente onesta e chiedersi continuamente che apporto può dare il proprio progetto alla comunità.