18.06.2025

Bianco, nero e tutto ciò che si perde nel mezzo

Un linguaggio segreto di 256 grigi separa luce e buio. Ogni ombra racconta un corpo, ogni bianco troppo bianco è una perdita. Chi regola i cursori della post-produzione decide quanto lasciare visibile del mondo. E ogni fotografia, forse, custodisce già il germe della propria fine.

L’altro giorno avevo di fronte un’immagine da lavorare su Photoshop: il famoso momento della post produzione. Dopo aver trasformato il file in bianco e nero, ho aperto la finestra da cui poter regolare i bianchi, i neri e i mezzitoni dell’immagine. Intervenendo su questi elementi, si può definire più nel dettaglio quanto chiuse e dense debbano essere le parti in ombra, quanto alte o contenute quelle in luce, e l’intensità di tutto ciò che sta nel mezzo. Tirando tutto da una parte il cursore dei neri, si vede l’immagine pian piano venire inghiottita fino a scomparire in un’unica superficie scura.

L’alfabeto dei grigi

L’immagine in bianco e nero ha infatti un alfabeto basato sulla densità dei grigi che la compongono. Il trucco, se possiamo definirlo così, sta nel trovare la combinazione perfetta per tradurre in grigio ciò che dobbiamo dire attraverso la fotografia. 

Guardando l’immagine diventata nera ho capito che dentro questa finestra di controllo da sempre si trovano i nodi di tutta la realtà concettuale della fotografia. A partire dai nomi: luci, bianchi, ombre, neri. Ci viene detto da subito che la luce è diversa dal bianco, a cui invece è facile che venga associata, così come il nero dall’ombra.

Esistono tantissimi grigi molto vicini al nero che restano soltanto grigi.

Ricordo che una volta, guardando le immagini di un libro di Josef Koudelka, chi mi insegnò il mestiere soffermandosi su una fotografia mi chiese: “Qui, secondo te, è o non è nero?” “Assolutamente nero.” risposi. Lì scoprii che esistono tantissimi grigi molto vicini al nero che restano soltanto grigi: quello delle fotografie di Koudelka era, naturalmente, un grigio vicinissimo al nero, senza aver ceduto alla tentazione di trasformarsi in oscurità completa, senza aver inghiottito quella parte di dettagli, lasciando ancora qualcosa di visibile. Non è un dettaglio da trascurare: tutta l’efficacia di una fotografia risiede in una scelta spesso molto precisa su quanto vicini o quanto lontani i grigi debbano essere dal bianco e dal nero verso cui tendono. Possiamo capire così che il bianco e il nero non sono altro che i due poli opposti della massima potenza del grigio: in una scala apparentemente inifinita, si arriva a un certo punto in cui, compiuto l’ultimo passo, si arriva a un assoluto.

Sempre guardando la finestra di regolazione, notiamo l’uso del plurale: la luce non è mai una, così come non lo è l’ombra, né il bianco, o il nero. Possono manifestarsi in intensità diverse e dunque cambiare aspetto: si tenga conto che, nel mondo digitale, dal bianco puro al nero pieno esistono 256 livelli, questa lunga scalinata in cui le luci e le ombre diventano svariati grigi diversi, la tessitura alfabetica della fotografia. L’ombra e la luce sono possibilità interne all’immagine: muovendo il cursore dei bianchi e dei neri procura un certo disagio notare quante fotografie diverse sono contenute nello stesso scatto, quante manifestazioni diverse possa assumere qualcosa che ci è apparso così com’era.

Bruciare per raccontare

Questo aspetto fa capire come la scelta autoriale sia un discrimine fondamentale. Se pensiamo che il problema esista soltanto da quando esistono la fotografia digitale e i software di post produzione, ci sbagliamo: coi bagni chimici, con le carte e le pellicole prodotte fino a un certo momento storico (circa gli anni Ottanta: già Luigi Ghirri nelle “Dieci lezioni” del 1989 denunciava una netta scarsità di argento nelle pellicole, che determina la qualità e profondità dell’immagine), con tutte le tecniche per intervenire sull’immagine, le possibilità analogiche in termini di toni e scala di grigi forse erano addirittura molte di più.

Si intende per “esposizione corretta” di una fotografia un gioco di contenimento di forze, in modo tale che né le ombre, né le luci divorino parti dell’immagine.

Facendo la prova opposta a quella iniziale, tirando cioè il cursore della nostra solita finestra tutto verso le luci, si vedrà di nuovo l’immagine pian piano scomparire in un’unica luminosità, e diventare tutta bianca. Quando lasciate senza controllo, l’ombra e la luce invadono lo spazio dell’immagine, diventano le forze capaci di fagocitarla per intero. 

Quella che solitamente si intende per “esposizione corretta” di una fotografia è tendenzialmente un gioco di contenimento di queste forze, in modo tale che né le ombre, né le luci divorino parti dell’immagine compromettendone la leggibilità. Un gioco di equilibrio per fare in modo che nulla scompaia: ovvero far rimanere i grigi entro i due assoluti verso cui sono spinti, il bianco e il nero totali.

Quando si verificano questi estremi, infatti, i dettagli si perdono completamente. Si dice anche che quella parte di immagine è rimasta “bruciata”, spazzata via. Le informazioni contenute in quelle porzioni in cui troppa luce o troppa ombra sono diventate bianco o nero vengono del tutto cancellate. Può anche essere, e spesso lo è, un effetto ricercato, voluto coscientemente: Mario Giacomelli e Antonio Biasiucci, per fare un paio di esempi, sbilanciano l’esposizione in modo assolutamente sapiente, e con chiari significati espressivi. La cancellazione totale di alcuni dettagli ha in sé un suo legittimo potere comunicativo: ci dice che non è vero che ciò che viene eliminato non sia importante, perché semplicemente non sarebbe stato inquadrato; ci dice semmai che certe cose si possono spiegare solo al massimo della loro intensità, finendo paradossalmente per perderle. Giacomelli “brucia” la neve su cui danzano i pretini; Biasiucci rende completamente nero l’ambiente che circonda molti suoi soggetti (i Pani, i Crani, Codex) rendendo più presente ciò che rimane.

Estetica della sparizione

Un’altra espressione presa dal gergo fotografico è questa: “non c’è materia”. Una frase che mi è sempre piaciuta molto con cui si indica la perdita totale di dettagli causati dal nero o dal bianco. “Non c’è materia” è la diagnosi dell’irrecuperabilità delle informazioni di quella parte di immagine, perse definitivamente nella macchia che le ha inglobate in sé, trasformandole in un “buco” sulla pellicola (o sul sensore). 

Mettiamo il caso che ci accada: decidiamo di ritrarre un amico sotto un sole a picco, e per tenere la pelle esposta correttamente, le ombre dure del muretto a cui è appoggiato si trasformino in macchie nere. Quella parte sarà bruciata, nessun dettaglio sarà recuperabile; se provaste ad alzare al massimo le luci, le macchie rimarranno lì, non ci sarà niente di leggibile. 

Il nero e il bianco sono l’esperienza più vicina al nulla che si possa fare attraverso la visione: qualcosa che oltrepassa il concetto di ombra per trasformarsi in vuoto, in assenza totale di contenuto. Allo stesso tempo possiamo dire che, allora, l’ombra esiste soltanto dove esiste un corpo, dove si può intravedere qualcosa: appartiene ancora al mondo della materia. Oltre l’ombra, e oltre la luce, c’è il nulla: un’oscurità o una lucentezza che cancella ogni traccia della realtà sensibile. Le superfici si rivelano evitando gli assoluti; rimanendo dentro i confini della loro leggibilità visiva.

Ombra e luce hanno un potere quantitativamente identico: entrambe minano l’esistenza del dettaglio, entrambe tendono al nulla, all’eliminazione dell’immagine quando portate al loro massimo compimento.

La fotografia possiede al proprio interno l’arma con la quale poter essere distrutta, un’arma generata dalle stesse parti di cui è composta.

Ci racconta qualcosa il fatto che sia la luce, sia l’ombra, custodiscono in sé questa tensione interna che le porta a essere le distruttrici potenziali della fotografia, come se dentro a ogni immagine ci fosse, allo stato latente, l’origine di una rivoluzione, una ribellione che non conosce freni, capace di azzerare tutto ciò che prima era ancora possibile vedere. Quasi l’immagine nascondesse il desiderio di scomparire. In questo senso la fotografia possiede al proprio interno l’arma con la quale poter essere distrutta, un’arma generata dalle stesse parti di cui è composta. 

La fotografia è un fazzoletto di terra; un piccolo Stato al cui interno possono prendere corpo fazioni sempre più potenti di rivolta contro il senso imposto del visibile. 

Si potrebbe pensare che l’unico vero artefice della sommossa possa essere solo chi manovra quel cursore: allo stato pratico è così. Ma proprio per il fatto che permanga sotterranea la possibilità effettiva di questa rivolta, scatenabile in qualsiasi momento con un solo gesto, rende la verità dell’immagine ancora più complessa e stratificata. Come se la fotografia convivesse con l’idea della sua stessa fine, anche lei perseguitata dalla consapevolezza della propria mortalità. (In questo la fotografia ci somiglia).

La morte dell’immagine fotografica non sarà dunque soltanto una direzione a cui potrebbe andare incontro nel futuro (deterioramento delle informazioni digitali, guasti informatici, danneggiamento del negativo o della stampa) ma sarà un’altra sua possibilità interna; il compimento estremo della sua densità latente.

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