C’è stato un momento in cui i manga sono entrati di prepotenza nelle librerie italiane: in parte come conseguenza della chiusura delle edicole, sempre meno presenti sul territorio, ma non solo. Sembra che qualcosa sia successo durante il periodo del Covid, un momento storico che ha provocato piccoli terremoti socio-culturali (ve le ricordate le Grandi dimissioni?). Durante il periodo pandemico, sotto lockdown, la Gen Z si è appassionata di cose giapponesi. Ha imparato a guardare anime, leggere manga, collezionare carte Pokémon. Su Twitch si è iscritta in massa ai canali di content creator e divulgatori come Dario Moccia o Cavernadiplatone, si è lasciata affascinare dalla cultura del kawaii e dagli immaginari che avevano già influenzato i fratelli e le sorelle più grandi di loro.
Tuttavia sarebbe sciocco pensare che il soft power nipponico sia roba recente, anzi, in Italia è una storia vecchia.
L’ascesa del manga
Questo non vuole essere un articolo fatto di numeri e date ma, giusto per chiarire, il mercato del fumetto in Italia dal 2000 al 2021 ha visto aumentare le vendite del 976%, di cui il 58% erano manga – una percentuale notevole, se pensiamo che c’è di mezzo tutto il fumetto, sia per adulti che bambini.
Ma possiamo andare ancora più indietro: in Italia, prima ancora che da altre parti del mondo, ci fu una vera e propria invasione di quelli che chiamavamo “cartoni animati giapponesi”. Potremmo citare le saghe robotiche come Mazinga o Jeeg Robot, Heidi, L’uomo tigre, Lamù. Seppur ritoccate pesantemente da censure e traduzioni a volte bislacche, i ragazzi degli anni ‘80 quotidianamente guardavano in televisione le opere di quelli che poi avremmo conosciuto meglio come artisti eccellenti, che si chiamavano Go Nagai, Isao Takahata, Rumiko Takahashi. Gli anni ‘90 sono quelli di Akira Toriyama – il primo vero mangaka pop in Italia – e quello delle casa editrici come Kappa Edizioni e i suoi Kappa Boys, eccellenti pionieri che hanno cresciuto una generazione di appassionati. Per chi volesse addentrarsi nelle storie di quegli anni sono consigliate le letture dello studioso Marco Pellitteri (Mazinga Nostalgia). Ma torniamo ad oggi.
Ma la domanda che ci dovremmo porre è “Come mai il manga piace così tanto?”
Come fa notare Vanni Santoni se c’è una cosa che ci fa capire come il fumetto giapponese si sia inscritto nel DNA di quello italiano è nello stile di nomi importanti, come Sio, Fumettibrutti e Zerocalcare e nel loro formato espressivo che, spesso, omaggia il manga o la cultura anime. Queste e questi fumettisti fanno parlare i propri personaggi con uno stile emotivo che ricorda quello dei manga per ragazzi e ragazze (rispettivamente lo shonen e lo shoujo), noti per essere immediatamente comprensibili, empatici nei confronti del lettore. Oppure c’è chi omaggia ripetutamente, come fa Michele Rech (Zerocalcare) la cultura pop nipponica. Basta pensare ai primi minuti di Strappare Lungo i Bordi, quando l’autore racconta di essere andato a comprare il DVD di Evangelion mentre tutti festeggiavano lo scudetto della Roma.
Tra kawaii e crossmedialità: un linguaggio universale
Qualche mese fa ho avuto la possibilità di intervistare Igort, fumettista italiano che in Giappone ha lavorato per tanti anni e ha conosciuto/collaborato con i più grandi dell’arte giapponese. Alla mia domanda sul successo mondiale del manga ha risposto che va probabilmente cercata nel valore universale delle loro storie, che lo rendono una sorta di esperanto della narrazione; oltre alla sapienza di mescolare generi ma soprattutto archetipi che superano le barriere generazionali e geografiche.
Rispetto gli anni novanta il successo contemporaneo dei manga è dato da un’offerta più ampia e variegata, che ha permesso di creare più fenomeni di successo, come Demon Slayer, in grado di rimanere nella Top 10 settimanale dei libri più venduti per quasi due mesi; Attack on Titan con la sua fantapolitica dalle tinte orrorifiche è stato letto dai ragazzini delle medie nelle ore della ricreazione (o almeno è quello che mi hanno riferito amici insegnanti); One Piece è una saga che in venticinque anni ha continuato ad appassionare e si è consolidata sempre più nei numeri, come dimostra l’apertura in Italia del primo store dedicato (a Milano, con migliaia di persone a fare la fila il primo giorno). Con più di 500 milioni di copie vendute in tutto il globo One Piece è il manga più venduto di tutti i tempi.
Se dovessimo entrare in termini un po’ più “filosofici” direi che ci sono due elementi che rendono manga e anime adatti alla contemporaneità. Uno è la transmedialità che li caratterizza. Prendiamo ad esempio un’opera come Dragonball che si espande orizzontalmente tra nuove reincarnazioni, come Dragon Ball Super, prima serie animata per poi tornare fumetto, diventa cinema (Dragon Ball Super Hero), si fa videogioco (Dragon Ball FighterZ, per dirne uno); per poi tornare un anime, la nuova serie in arrivo Daima, che esplicitamente cerca di ricollegarsi alle origini della saga. La transmedialità è documentata in Giappone fin dagli anni ‘60, presente nel mangaesque, che invade tutto quello che tocca, dai portachiavi, alle magliette, passando per le cover dei cellulari. Il mangaesque stringe nuovi rapporti tra produttori e consumatori di “J-Culture”. Se in passato il mercato parlava solo ed espressamente ad alcune frange di consumatori, nel tempo ha abbracciato decine di sottoculture otaku, ma anche fruitori più casuali. Basta pensare al successo delle fiere del fumetto (dei vari comicon all’italiana), eventi che ormai non sono più frequentati da soli appassionati (314 mila sono i biglietti venduti all’edizione 2023 del Lucca Comics & Games). Perché il mangaesque faccia colpo è facilmente intuibile dalla sua grammatica da fumetto, identificazioni emotive immediate, una ibridità estetica con quello che viene dall’emisfero occidentale o dal resto dell’Asia – pensiamo a My Hero Academia e l’ispirazione nei confronti dei supereroi statunitensi; il cyberpunk di Akira; i temi universali e i miti globali ai quali si rifà One Piece, gli occhioni espressamente disneyani che il papà dei manga, Osamu Tezuka, definì come canone con il suo Astro Boy.
Da diversi anni in Giappone sembra essersi realizzata la concezione filosofica del postmoderno di Frederic Jameson.
Nel mio viaggio a Tokyo ho visto più volte boutique di lusso, come empori che vendono borse Gucci, a pochi metri da un Pokémon Store o negozi di abbigliamento intimo a tema Final Fantasy. Passeggiando nelle librerie si ha la sensazione che un libro di Jun’ichiro Tanizaki abbia lo stesso valore culturale di uno shōjo manga che parla di ragazze vestite da marinarette che combattono contro le forze del male. Nei konbini (i convenience store) l’ultimo numero di One Piece non manca mai e nei sottopassaggi delle fermate della metro si possono trovare stand che vendono fazzoletti di cotone a tema Doraemon, che vengono acquistati dai salaryman, quarantenni in giacca e cravatta in carriera. Da diversi anni in Giappone sembra essersi realizzata la concezione filosofica del postmoderno di Frederic Jameson, dove alto e basso si combinano, regno del pastiche, della mescolanza di tecniche e stili di opere che si citano tra loro nella loro serialità.
Quando in Giappone, dagli anni ‘90 in poi, a seguito della depressione socio-economica (un periodo conosciuto come il decennio perduto) le persone cominciarono a soffrire di solitudine e di un’ansia relazionale che sarebbe stata una delle cause della crisi demografica, prese piede il concetto del kawaii; il carino (inquietante, ne ha scritto Simon May un saggio) che ha ricostruito l’estetica dei consumi nipponici, influenzando anche il fumetto. Nel resto del mondo il kawaii ha attecchito, affascinato, disturbato, e ho l’impressione che in qualche modo abbia fatto proseliti durante il periodo Covid. Non è un caso che uno dei videogiochi più giocati del 2021 sia stato Animal Crossing: New Horizons, che è un simulatore di vita di un villaggio abitato da animali molto carini, amichevoli, un mondo fatto di villaggi rilassanti da visitare (in multiplayer) in cui tutto è kawaii.
La narrativa giapponese
Sorge spontaneo chiedersi: cosa sta succedendo al romanzo giapponese in Italia?
Come fa sapere Gianluca Coci (traduttore e professore di Letteratura Giapponese all’Università di Torino), intervistato da Ludovica Lugli e Giulia Pilotti in una puntata del podcast de Il Post Comodino, nel 2022 sono stati tradotti in italia sessantasei romanzi giapponesi. Uno dei motivi del successo di quella letteratura, sempre secondo il professor Coci, è la combinazione tra elementi della tradizione e la cultura contemporanea (e di approccio alle tematiche sociali con sensibilità e profondità).
È sicuramente vero che la storia del romanzo nipponico in Italia è per anni stata caratterizzata da un certo esotismo, ben confezionato all’interno delle dinamiche di consumo. Il Giappone sa vendersi come luogo dove vigerebbe una sorta di iper-tradizione che si oppone alla modernizzazione galoppante (della quale si è fatto in parte fautore). Sa vendersi il Giappone, dentro e fuori, perché da una parte c’è questa costante riaffermazione, di un inconfondibile, limpido, spirito giapponese che sa dialogare con l’esterno, senza mai perdere la propria purezza: wakon yōsai significa “spirito giapponese, scienza occidentale” ed era uno dei motti centrali della restaurazione Meiji.
Questa suggestione si vende facilmente all’estero, soprattutto quando rimanda a certi immaginari popolari del Giappone, che inizialmente erano l’armonia malinconica degli ukiyo-e, il cinema di Ozu; a questi si sono aggiunti gli elementi derivanti dall’erotismo giapponese e poi dal folklore degli spiriti (yūrei) e dei mostri (yokai).
C’è poi tutto un modo di vendere il romanzo giapponese contemporaneo che rimanda ad una forma di esotismo che è quello delle “piccole cose della vita”
I primi ad arrivare nelle librerie italiane furono Jun’ichiro Tanizaki, Yasunari Kawabata e Yukio Mishima, al quale poi si aggiunsero tre pesi massimi degli anni novanta e duemila, Banana Yoshimoto, Haruki Murakami e Ryu Murakami. Osservando come vengono esposti i romanzi e saggi giapponesi in una qualsiasi libreria di città ho tratto opinioni che sono tutto fuorché basate su dati statistici, ma mi azzardo comunque a esporre: la quantità di libri sui mostri giapponesi, in diverse edizioni di opere come Ombre Giapponesi di Lafcadio Hearn o dei bestiari mostruosi di Shigeru Mizuki non mancano mai, sintomo di una fascinazione nei confronti del folklore che in Giappone è da sempre una forma di soft power, chiaramente crossmediale (una delle creature descritte da Lafcadio Hearn potrebbe apparire, per esempio, in una puntata dell’anime di Jujutsu Kaisen).
C’è poi tutto un modo di vendere il romanzo giapponese contemporaneo che rimanda ad una forma di esotismo che è quello delle “piccole cose della vita”
Per prenderne coscienza basta dare uno sguardo alle copertine dei libri: due gatti bianchi sono placidamente poggiati sul davanzale di una finestra, il buio della sera è tagliato dalle luci della città sulla copertina di un romanzo che si chiama Lei e il suo gatto; tre figure, un ragazzo, una ragazza e una signora anziana al centro, di spalle, fiori di ciliegio cadono nella loro labile armonia sulla copertina de Le ricette della signora Tokue; due gatti ci osservano e una ragazza guarda le strade di quartiere in I gatti di Shinjuku; una ragazza osserva il cielo, così fa anche il suo gatto, dal primo piano di un edificio di una piccola e colorata libreria in I miei giorni alla libreria Morisaki; un gatto bianco scodinzola, passeggia quieto verso il monte Fuji, innevato in un tramonto d’inverno in Cronache di un gatto viaggiatore. Gatti ovunque. Pare proprio che i felini abbiano sostituito l’erotismo decadente di Tanizaki e Ryu Murakami. Quello che oggi si cerca di vendere è un tipo di letteratura intima, i cosiddetti “cozy books” o “uplifting literature”. L’apoteosi di questa corrente è rappresentata in Italia da Finché il caffè è caldo di Toshikazu Kawaguchi (nel 2020 un milione di copie vendute). Cosa si vede sulla copertina del libro? Chiaramente un gatto – bianco – e due caffè fumanti su un tavolino.
Questo stile di vendita e presentazione mira a catturare l’attenzione di lettori e lettrici che cercano storie che offrono conforto e riflessione sulle piccole gioie quotidiane, creando un forte senso di connessione emotiva e di nostalgia. Spoiler: sembra funzionare molto bene.
Ma un libro non si giudica dalla copertina. Capita infatti che dietro di essa si nascondano opere più complesse di quelle che sembrano, storie che attraversano temi maturi: basta pensare a Le ricette della signora Tokue (il titolo originale è An, che sarebbe la pasta di fagioli dolce) che è una storia su chi vive ai confini della società giapponesi, gli esclusi. Ci si sorprende quando si prova a leggere inconsapevolmente La ragazza del convenience store o peggio ancora I Terrestri di Sayaka Murata, autrice di romanzi che mettono in scena la schizofrenia dietro l’ordine ultra-costituito della società giapponese. Cito Murata Sayaka perché è oggi una delle scrittrici più amate in Italia, non solo giapponesi, ne è un sintomo la sua presenza all’ultima edizione del Salone del Libro di Torino.
Giappone virale e Giappone immaginato
La nuova moda giapponese va ben oltre i manga o i romanzi. E non è, ovviamente, un fenomeno solo italiano. Ce lo dicono ad esempio i numeri sul turismo, con un aumento, nel 2023, del 79% rispetto ai dati pre-Covid. Un turismo influenzato dall’instagrammabilità, dai social, reel e video di Tik Tok. Come nel caso dei video (tipo questo) del convenience store nella località di Fujikawaguchiko, che alle sue spalle dà sul monte Fuji e che ha attirato migliaia di turisti ogni giorno. Nello specifico, c’è stato un momento in cui alcuni luoghi del Giappone sono diventati soggetti di reels o stories virali. Posti come la città di Kamakura, il quartiere di Dotonbori ad Osaka o l’incrocio pedonale di Shibuya. Se a diventare virale e attirare turismo di massa è un luogo già usualmente visitato ogni giorno da migliaia di persone, come appunto lo è Shibuya, le cose cambiano poco. Il problema è quando a diventarlo è un posto visitato da soli locali. Come è stato per il minimarket di Fujikawaguchiko.
Presi in contropiede da una folla inaspettata di stranieri le autorità locali hanno vietato di scattare foto, costruendo un muro affinché si impedisse la possibilità di osservare il monte. Una scelta tutto sommato goffa ma che dimostra una certa incapacità, da parte delle istituzioni, nell’affrontare questa nuova forma di turismo causato dalla viralità dei social.
Ho personalmente assistito ad uno di questi luoghi preso d’assalto da masse di turisti. Ero su treno che da Kamakura porta ad Enoshima e nello specifico volevo raggiungere la fermata di Kamakurakokomae per farmi una passeggiata in spiaggia. Lì c’è uno scorcio bellissimo, una strada residenziale con un passaggio a livello che dà sull’oceano. Un posto di culto per i fan di Slam Dunk perché compare nella sigla d’apertura dell’anime. Ad un passo dai binari c’era un centinaio di turisti ammassati per scattarsi una foto a fianco al passaggio a livello – quasi tutti cinesi. Una folla di persone entusiasta nei pressi di un binario molto trafficato è un rischio e la municipalità è dovuta intervenire assicurando una presenza costante di un poliziotto che letteralmente si occupa di gestire la fila per le foto
Scriveva Oscar Wilde: “La totalità del Giappone è una pura invenzione. Non esiste un paese simile (si riferiva alle rappresentazioni degli ukiyo-e, nda), non esiste gente del genere. Di recente uno dei nostri pittori più incantevoli è andato nella Terra dei crisantemi nella sciocca speranza di vedere i giapponesi. Tutto quello che ha visto, tutto quello che ha avuto la possibilità di dipingere, sono state alcune lanterne e qualche ventaglio.” La ricerca del Giappone inventato non solo non è mai passata di moda, ma è diventata uno dei business principali del Cool Japan, un’iniziativa del governo giapponese lanciata nell’ormai lontano 2010 per promuovere la cultura popolare giapponese all’estero. L’obiettivo principale del progetto è valorizzare e diffondere vari aspetti della cultura giapponese, inclusi anime, manga, videogiochi, moda, cibo, design e turismo, per rafforzare l’immagine del Giappone a livello globale e stimolare l’economia attraverso l’industria culturale.
Ed è soprattutto per questo che gli italiani (e non solo) vanno in cerca di un Giappone immaginato in cui tutto sembra ammantato da un’aura indecifrabile, di futuro e passato che si scontrano creando cumuli di una cultura malinconica come una puntata di un vecchio anime degli anni ‘90.