Uno dei vantaggi della scrittura è che puoi ascoltare la voce di qualcuno nel futuro, ben oltre il momento in cui si è pietrificata in lettere. Posso leggere Orwell nel mondo che immaginava per noi, mettere alla prova gli oracoli Pasolini, o, come in questo caso, prendere un articolo del 1999 di David Foster Wallace e vedere cosa è successo in questi ventiquattro anni. È un gioco interessante, perché assieme a concetti ben più affilati di quelli che si sente in giro troveremo delle crepe sottili, che dal passato si slabbrano via via fino al presente – si tratta di errori, il miglior dono che ci possa fare chi ci ha preceduto.
Il saggio di cui parlo è Autorità e uso della lingua, raccolto in Considera l’aragosta e parla del ruolo politico del linguaggio, di guerre culturali e di politicamente corretto. Temi così attuali che se manca lo schwa è più che per incompatibilità geografica che storica. Con la scusa di una recensione A Dictionary of Modern American Usage di Bryan A. Garner, Wallace entra nella guerra tra i prescrittivisti, che sostengono la necessità di regole fisse per l’uso della lingua, e i descrittivisti, che preferiscono spiegare come la lingua viene utilizzata senza imporre regole. La sua posizione è in equilibrio tra le due istanze, perché da una parte critica ai prescrittivisti di non dare sufficiente importanza alla plasticità del linguaggio – “non sono solo le convenzioni dell’uso, ma è l’inglese stesso a cambiare; se così non fosse, saremmo ancora tutti qui a parlare come Chaucer”- e al suo valore politico – “La verità vera, naturalmente, è che l’Iss (Inglese scritto standard) è il dialetto dell’élite americana. Che è stato inventato, codificato e promulgato da Maschi privilegiati Wasp e perpetuato come «Standard» dagli stessi. Che è la chiave di accesso all’Establishment, e che è uno strumento di potere politico e divisione delle classi e discriminazione razziale e ogni sorta di ingiustizia sociale”.
Dall’altra i descrittivisti mancano nel trovare un criterio di stabilità nel mutamento linguistico – “La lingua cambia costantemente; […] D’accordo, ma quanto e quanto in fretta?”, e non possono decidere a quale dei tanti usi riferirsi, “Benissimo, ma l’uso di chi? […] Gli ispanici delle città? I brahmini di Boston? I campagnoli del Midwest? I neogaelici degli Appalachi?”.
“La verità vera, naturalmente, è che l’Iss (Inglese scritto standard) è il dialetto dell’élite americana. Che è stato inventato, codificato e promulgato da Maschi privilegiati Wasp e perpetuato come «Standard» dagli stessi […]”
Contro i descrittivisti, Wallace ribadisce l’idea che sebbene le regole siano arbitrarie e spesso legate a precise volontà politiche, questo non significa che siano inutili. Per dimostrarne l’utilità si butta in uno dei suoi divertentissimi esperimenti mentali, in questo caso a base di gonne e pantaloni, che porta però in sé un errore di cui parlerò tra poco. La conclusione dell’autore riassunta da se stesso è la seguente: “Le persone si giudicano davvero sulla base di come usano la lingua. In continuazione. Certo, le persone si giudicano in continuazione sulla base di moltissime cose – altezza, peso, odore, fisionomia, accento, occupazione, tipo di veicolo – e, ripeto, senza dubbio è tutto molto più complesso di così e ci sono schiere e schiere di sociolinguisti che se ne occupano a tempo pieno. […] In altri termini qualsiasi comunicazione ha un proposito in gran parte retorico dipendente da quello che certi studiosi chiamano «Pubblico» o «Comunità linguistica”.
Gente bianca potente.
Per essere ancora più sintetici di Wallace – compito non difficilissimo – le regole sono importanti perché delimitano la comunità linguistica di appartenenza e di riferimento. Questo ci porta a quella che forse è la parte più interessante e controversa del saggio, che voglio riportare per intero e senza troppe introduzioni, in modo che te ne possa fare un’idea autonoma. L’autore riporta la sintesi di un discorso che ha tenuto in una classe di letteratura, rivolto a studenti e studentesse neri che “erano a) brillanti e curiosi da morire e b) carenti in quello che secondo il sistema universitario statunitense costituisce la capacità di scrivere in inglese”. Un’ultima nota: gli acronimi ISS e INS nel testo stanno rispettivamente per Inglese Scritto Standard e Inglese Nero Standard. Ecco il discorso:
“Non so se te l’hanno detto, ma quando ti trovi in una classe di Inglese al college in pratica stai studiando un dialetto straniero. Questo dialetto si chiama Inglese scritto standard. Parlando con te e leggendo un paio delle tue tesine, sono giunto alla conclusione che il tuo dialetto primario è [una delle tre varianti di Ins comuni nella nostra zona]. Adesso, lascia che ti dica chiaramente una cosa nella mia veste ufficiale di insegnante: l’Ins che parli correntemente presenta una serie di differenze fondamentali rispetto all’Iss. Alcune di queste differenze sono grammaticali: per esempio, le doppie negazioni vanno bene nell’Ins ma non nell’Iss, e l’Ins e l’Iss coniugano certi verbi in un modo completamente diverso. Altre differenze hanno più a che vedere con lo stile: per esempio, l’inglese scritto standard ha la tendenza a utilizzare molte più subordinate verso l’inizio della frase, e mette in evidenza la maggior parte di queste subordinate con virgole, e secondo le regole dell’Iss, la scrittura che non si comporta così di solito appare «incoerente». Ci sono migliaia di differenze del genere. Quanto di tutto questo sapevi già? [risposta STANDARD = qualche variazione su «Dai voti e dai commenti ai miei temi so che i prof di Inglese pensano che non sono bravo a scrivere»]. Be’, ho una notizia buona e una cattiva. Ci sono professori d’inglese altrimenti in gamba che non sanno che esistono altri dialetti inglesi validi a parte l’Iss, perciò quando ti correggono i temi probabilmente ti scrivono cose del tipo: «Coniugazione scorretta» o «Qui ci vuole una virgola» piuttosto che «In Iss questo verbo si coniuga diversamente» oppure «In Iss qui ci va una virgola». Questa è la notizia buona: non è che tu non sia bravo a scrivere, è solo che non hai imparato le regole specifiche del dialetto in cui vogliono che tu scriva. Forse non è una notizia poi così buona, che ti abbiano abbassato il voto per degli errori in una lingua straniera che non sapevi nemmeno fosse una lingua straniera. Che non ti lascino scrivere in Ins. Forse ti sembrerà ingiusto. Se così è, probabilmente non ti piacerà nemmeno quest’altra notizia: neppure io ti lascerò scrivere in Ins. In classe da me devi imparare a scrivere in Iss. Se ti va di studiare il tuo dialetto primario e le sue regole e la sua storia e in che modo si differenzia dall’Iss, benissimo – ci sono dei libri fantastici scritti da studiosi di Inglese nero, e ti aiuterò a trovarne qualcuno e ne parleremo insieme se ti va. Ma lo faremo fuori dalla classe. In classe – nella mia classe di Inglese – tu dovrai scrivere e padroneggiare l’inglese scritto standard, che potremmo chiamare tranquillamente «Inglese bianco standard» perché è stato elaborato da persone bianche e viene usato da persone bianche, specie quelle istruite, da gente bianca potente. [Le reazioni a questo punto sono troppo varie per poterle standardizzare]. Ti rispetto abbastanza da dirti quella che secondo me è la dura verità. In questo Paese, l’Iss è percepito come il dialetto dell’istruzione, dell’intelligenza, del potere e del prestigio, e chiunque, di qualunque razza, etnia, religione o genere, voglia avere successo nella cultura americana deve essere in grado di usare l’Iss. Così Stanno le Cose. Saperlo può renderti felice o triste o profondamente incazzato. Puoi pensare che sia razzista e ingiusto e decidere qui su due piedi di passare ogni minuto della tua vita da adulto a batterti, e forse dovresti, ma voglio dirti una cosa: se vuoi che le tue argomentazioni siano ascoltate e prese sul serio, devi comunicarle in Iss, perché l’Iss è il dialetto che la nostra nazione usa per parlare a se stessa. Gli afro-americani che hanno avuto successo e sono diventati importanti nella cultura statunitense lo sanno; è per questo che i discorsi di King e X e Jackson sono in Iss, è per questo che i libri di Morrison e Angelou e Baldwin e Wideman e Gates e West sono scritti in un Iss assolutamente da paura, è per questo che i giudici e i politici e i giornalisti e i medici e gli insegnanti neri comunicano in ambito professionale in Iss. Alcune di queste persone sono cresciute in case e comunità in cui l’Iss era il dialetto nativo, e queste persone se la sono passata molto meglio a scuola, ma quelli che non sono cresciuti con l’Iss a un certo punto si sono resi conto che dovevano impararlo e acquisire la capacità di scriverlo correntemente, e così hanno fatto. E [nome dello studente], imparerai a usarlo anche tu, perché ti ci costringerò.”
Dovrei precisare a questo punto che un paio degli studenti cui ho detto queste cose si sono offesi – una ha sporto un Reclamo ufficiale – e che più di un collega ha dichiarato di trovare il mio discorso «razzialmente insensibile». Forse anche voi lo pensate. La modesta opinione del recensore è che sono certe realtà culturali e politiche della vita americana a essere razzialmente insensibili ed elitarie e offensive e ingiuste, e che girarci attorno cercando di non compromettersi con discorsi fumosi ed eufemistici non solo è ipocrita ma è addirittura tossico al fine di cambiarle davvero.
L’insistenza di Wallace sull’uso dell’Iss era in realtà un tentativo di mantenere le strutture di potere esistenti che privilegiavano la cultura bianca. Wallace riconosceva l’esistenza di questi apparati, ma, secondo l’articolo di Dilawar, non era incline a sfidarla.
Non so qual è la tua opinione in merito a questo discorso letto (o riletto) più di vent’anni dopo la sua stesura, quanto a me lo trovo brillante e problematico. Problematico perché, come evidenzia Arvind Dilawar su The Smart Set, ci sono autori come James Baldwin, noto scrittore afroamericano, che hanno previsto e criticato questa riflessione ancor prima che DFW la facesse. Baldwin sosteneva che l’inglese nero fosse essenziale per la sopravvivenza degli afroamericani e che venisse soppresso da persone come Wallace per motivi simili a quelli per cui il gaelico è soppresso in Irlanda. L’autore “praticamente predice e confuta l’affermazione di Foster Wallace secondo cui l’Iss è la lingua con cui gli Stati Uniti parlano a se stessi, citando esempi come l’Era del Jazz e la Generazione Beat quali tendenze culturali bianche che non solo attingevano la loro sostanza dall’arte nera, ma anche la loro stessa terminologia — jazz me, baby e beat to his socks, ad esempio”.
L’articolo in breve suggerisce che l’insistenza di Wallace sull’uso dell’Iss era in realtà un tentativo di mantenere le strutture di potere esistenti che privilegiavano la cultura bianca. Wallace riconosceva l’esistenza di questi apparati, ma, secondo l’articolo di Dilawar, non era incline a sfidarla. Come scrive Baldwin:
“C’è stato un momento, nel tempo e in questo luogo, in cui mio fratello, o mia madre, o mio padre, o mia sorella, dovevano comunicarmi il pericolo in cui mi trovavo a causa dell’uomo bianco che stava alle mie spalle. E dovevano farlo con una rapidità e in una lingua che l’uomo bianco non avrebbe potuto capire, e che infatti non può capire ancora oggi. Non può permettersi di capirla, perché tale comprensione gli rivelerebbe troppo su se stesso e infrangerebbe quello specchio davanti al quale è rimasto paralizzato per così tanto tempo”.
Ha ragione lui o DFW? Probabilmente entrambi. Il primo fa bene a proteggere il valore della propria lingua, il secondo a suggerire l’importanza strategica dell’Iss (come fece in Italia Don Milani molti anni prima). Se mettiamo tra parentesi le regole universitarie e immaginiamo una versione aggiornata del discorso di DFW, forse l’autore avrebbe dovuto dire ai suoi studenti che avrebbe accettato la loro lingua, ma che non la conosceva e non sapeva valutarla, dunque il suo ruolo di insegnante era inutile allo scopo. Se volevano seguire con qualche utilità la classe, poteva solo insegnargli l’Iss. Non doveva dire “imparerai a usarlo anche tu, perché ti ci costringerò”, ma “imparerai a usarlo anche tu, se ti va”.
Virtue signalling
Questo ci porta all’aspetto più problematico e interessante del saggio, l’opinione di DFW sul politicamente corretto, che, in estrema sintesi, è che sia un modo ipocrita e ridicolo di segnalare la propria virtù morale (virtue signalling, oggi un’espressione usata prevalentemente a destra) senza risolvere i problemi, combattendo lotte che non causano alcun giovamento alle persone cui sono destinate. Due esempi su tutti: “Nella pratica, dubito fortemente che un uomo con quattro figli piccoli e uno stipendio di dodicimila dollari l’anno si senta più forte o meno bistrattato da una società che ha la premura di chiamarlo «economicamente svantaggiato» invece che «povero». Anzi, se fossi in lui, probabilmente mi sentirei offeso dal termine Ipc – non solo perché è paternalista (cosa che comunque è) ma perché è ipocrita e teso al vantaggio di chi lo pronuncia in un modo che di solito la gente trattata con paternalismo capta al volo” e ancora “l’Ipc ha la funzione primaria di segnalare e congratulare certe virtù nel parlante – scrupoloso egualitarismo, preoccupazione per la dignità di tutti, sofisticatezza riguardo alle implicazioni politiche della lingua – e di conseguenza serve gli interessi egoistici del Pc molto più di quanto serva qualsiasi persona o gruppo da esso ribattezzato”.
L’opinione di DFW sul politicamente corretto, in estrema sintesi, è che sia un modo ipocrita e ridicolo di segnalare la propria virtù morale (virtue signalling, oggi un’espressione usata prevalentemente a destra) senza risolvere i problemi, combattendo lotte che non causano alcun giovamento alle persone cui sono destinate.
Due passaggi che faranno la gioia di molti degli attuali detrattori del politicamente corretto, che potranno rivendicare al loro fianco un autore come DFW – sbagliando. Come dicevo infatti l’articolo è del 1999 e gli esempi che fa l’autore sono espressioni come «economicamente svantaggiato» e «diversamente abile», che, in effetti, non sono più considerate politicamente corrette. Il motivo è semplice e risiede nell’unico vero errore dell’autore lungo tutto questo articolo: non lasciare la parola alle comunità tirate in causa. Perché come diceva DFW poveri, grassi e disabili non vogliono essere parafrasati, ma rivendicare la loro condizione, dignità e visibilità. Non esistono economicamente svantaggiati ma poveri, perché è bene che si sappia che esistono e che non è una colpa o uno status che ne sminuisce la dignità.
Il motivo è semplice e risiede nell’unico vero errore dell’autore lungo tutto questo articolo: non lasciare la parola alle comunità tirate in causa. Perché come diceva DFW poveri, grassi e disabili non vogliono essere parafrasati, ma rivendicare la loro condizione, dignità e visibilità.
Questo cambiamento in parte è accaduto per i motivi che indicava l’autore nel 1999, ovvero l’idea che si trattasse di eufemismi che danno l’impressione che ci sia qualcosa di intrinsecamente negativo nell’essere disabili, poveri, grassi o altro. A questa istanza però se ne sono aggiunte altre, legate alle politiche identitarie, come la possibilità di rivendicare alcuni termini da parte delle comunità interessate per motivi politici. Soprattutto, abbiamo cominciato ad ascoltare le persone interessate, che sembra l’idea più banale, eppure è arrivata colpevolmente in ritardo – forse perché queste comunità erano davvero invisibili. Ci sono diretti interessati che si sono espressi chiaramente su altre parole, che non a caso DFW non cita né utilizza, come ne*ro, fr**o, zing**o. Questi termini sono stati considerati da chi li subiva offensivi per via del loro uso e della loro storia e se una comunità trova un epiteto offensivo, chi rifiuta questa scelta e lo utilizza sbaglia anche se non lo intende tale. Il motivo lo spiega DFW in una lunga nota su Wittgenstein e il linguaggio privato che ti risparmio, anche se è molto bella e interessante. Diciamo in breve che il linguaggio si fa (minimo) in due e se una persona nera non vuole essere appellata con un certo termine e io lo utilizzo la offendo, quale che sia la mia intenzione. In quella classe infatti DFW non ha usato un noto termine dispregiativo per rivolgersi ai suoi studenti e studentesse nere, nonostante la critica al politicamente corretto. Nei ventiquattro anni che ci separano da questo bel saggio la lingua si è evoluta e il politicamente corretto che derideva DFW non esiste più. Si è però alzato il volume di alcune voci oltre la lingua standard, che gridano nelle orecchie di chi impone la propria lingua senza voler apprendere quella altrui. Perché, come dice l’autore, “Se i significati di parole ed espressioni dipendono da regole transpersonali e queste regole dal consenso della comunità, allora il linguaggio non solo non è privato ma è anche irriducibilmente pubblico, politico e ideologico.”