La teoria generazionale della quarta svolta, i nomi delle generazioni e la loro definizione
Stagliate su un irregolare sfondo grigio antracite, tre figure femminili fissano con estatica contemplazione un punto indefinito nello spazio, illuminate dalla sola luce proveniente da un Macbook che si schiude in primo piano. Si tratta dell’immagine dipinta dall’artista contemporaneo Jim Shaw nella sua opera The Great Whatsit, e che nel 2018 è stata scelta dal musicista Oneohtrix Point Never per la copertina del suo decimo album, Age Of.
Mentre il quadro di Shaw simboleggia la progressiva perdita d’interesse da parte dell’uomo nella realtà fisica, a favore di quella virtuale, le 14 tracce sperimentali di Daniel Lopatin traggono ispirazione dalle atmosfere del celebre capolavoro di Kubrick, 2001: Odissea nello spazio, e dalla reazione dell’artista ai contenuti di The Fourth Turning, un libro scritto negli anni Novanta da William Strauss e Neil Howe e che Lopatin non ha esitato a definire terribile e insidioso: «like the voice of a computer insisting on the truth about history without any sensitivity given to how complex and non-linear systems might be».
La “verità sulla storia” a cui si riferisce, è quella professata nella teoria generazionale della quarta svolta elaborata dai due autori del volume, secondo cui la storia americana sarebbe caratterizzata da un ciclico susseguirsi di quattro archetipi generazionali, ognuno dei quali affronta, nel corso della propria esistenza, quattro fasi (o svolte) diverse in grado di formarne l’identità e definire il suo rapporto con le altre generazioni.
Secondo Strauss e Howe, le generazioni, classificate nelle categorie del Profeta, del Nomade, dell’Eroe e dell’Artista, sarebbero quindi caratterizzate dal modo in cui le diverse svolte (Alta, Risveglio, Svelamento e Crisi) si presentano all’interno del proprio ciclo vitale, condizionandone la crescita e lo sviluppo.
Per fare un esempio, i Millennials appartengono all’archetipo dell’Eroe, la cui identità è influenzata dal venire al mondo durante un periodo di Svelamento (tipicamente caratterizzato da una fase di individualismo) e dall’approdo all’adolescenza durante una Crisi, che li porterebbe a crescere come giovani adulti alienati durante una svolta Alta (che, ironia della sorte, sarebbe quella che stiamo vivendo oggi) e trasformarsi in anziani politicamente potenti in un Risveglio, caratterizzato da una forte sfiducia nei confronti delle istituzioni. Insomma, mai una gioia.
Nonostante quella di Strauss e Howe sembri più un’inquietante distorsione dell’enneagramma esoterico delle personalità che una vera e propria teoria sociologica, il saggio dei due autori resta uno dei più celebri tentativi di definizione del concetto di generazione sociale che abbiamo a disposizione oggi. Sebbene sia stato spesso, e giustamente, criticato per la mancanza di prove empiriche in grado di sostenerne la validità, lo spirito deterministico che caratterizza il libro ha avuto una grande influenza sull’impiego delle categorie generazionali nell’ambito del marketing e della consulenza. Più in generale, oggi la sua eredità è particolarmente evidente anche nel modo in cui consideriamo le generazioni alla stregua di segni zodiacali, come gruppi uniformi i cui membri corrispondono tutti alle stesse caratteristiche.
Un esempio di come la tassonomia generazionale sia entrata irrimediabilmente a far parte del nostro linguaggio quotidiano ce lo fornisce Treccani, con l’inserimento dell’espressione memetica «Ok, boomer» all’interno della più ampia voce dedicata alla coorte dei figli del boom economico, meglio nota come dei Baby Boomer. Come riporta Il Post «“Ok, boomer” è in pratica un’espressione usata da adolescenti e giovani per zittire o prendere in giro cose percepite come lamentele paternalistiche della generazione dei cinquanta-sessanta-settantenni, e ritenuta – con una generalizzazione spesso criticata – responsabile dei principali disastri contemporanei, dalla crisi finanziaria a quella climatica». Se ve lo stesse chiedendo, secondo la teoria di Strauss-Howe i Baby Boomer appartengono all’archetipo del Profeta, contraddistinto da una nascita negli agi di una fase Alta e dal trasformarsi in egocentrici anziani pronti a scatenare una nuova Crisi.
Una vicenda simile, anche se meno interessante dal punto di vista del linguaggio, si è verificata durante i primi mesi del 2020, quando un articolo su Vice ha portato a galla un thread di TikTok in cui alcuni membri della Generazione Z prendevano in giro i Millennials, distruggendo l’illusione dei fratelli maggiori fighi con battute impetuose sulla loro ossessione per Harry Potter, l’esagerata nostalgia degli anni Novanta e una sostanziale ipocrisia di fondo sui temi politici e ambientali.
Quella di utilizzare le generazioni come segmenti socio-demografici misurabili è un’idea del marketing e, in quanto tale, rischia di diventare fuorviante se applicata fuori dal contesto commerciale.
Il mito della divisione generazionale: i millennials non esistono?
Volendo gli esempi potrebbero continuare. Oggi, infatti, parliamo di generazioni tutti i giorni, soprattutto in termini di appartenenza a gruppi opposti tra loro.
Volendo gli esempi potrebbero continuare. Oggi, infatti, parliamo di generazioni tutti i giorni, soprattutto in termini di appartenenza a gruppi opposti tra loro.
La nozione di generazione è la nuova unità di misura attraverso cui cerchiamo di dare un senso al nostro rapporto con gli altri e di discutere i fenomeni che caratterizzano la società, ma non sempre si rivela utile per generare un confronto costruttivo o per osservare con sguardo critico la realtà. In poche parole, se è indiscutibilmente importante capire i processi di trasformazione socio-culturale che hanno portato la nostra vita a essere sensibilmente differente da quella dei nostri nonni, farlo attraverso una lettura delle generazioni come categorie fisse e separate tra loro, potrebbe rivelarsi un’operazione azzardata.
Avendo fondato loro stessi una società di consulenza nell’ambito del marketing generazionale sotto il nome di LifeCourse Associates, nel 2007 Strauss e Howe pubblicano la Generation diagonal, una tabella in cui vengono tracciate le principali caratteristiche delle diverse generazioni nel corso di poco meno di un secolo. Il vero scopo della diagonale è presto spiegato dai due autori: «By understanding these generations, what creates them, and how they come together to create the national mood, you can begin to see their powerful relationship with history—and to look ahead and envision what will come next».
Quella di utilizzare le generazioni come segmenti socio-demografici attraverso cui analizzare e prevedere il DNA degli individui presenti e futuri è quindi un’idea del marketing e, in quanto tale, rappresenta un’approssimazione fuorviante, soprattutto quando applicata fuori dalla promozione di prodotti e servizi. Negli ultimi anni, analisi e ricerche di mercato ci hanno parlato di Millennials narcisisti, Baby Boomers egoisti e di una Generazione Z che mette al centro la sostenibilità, la conoscenza tecnologica e l’attivismo nelle sue scelte (di consumo, ovviamente). Il risultato è una società frammentata in personas generazionali che rappresentano una sola porzione della realtà e un solo punto di vista sulle dinamiche che la animano.
La generazione sociale non esiste: si tratta di un costrutto socio-culturale utilizzato per analizzare alcuni fenomeni che influenzano lo sviluppo della società.
Prendendo di nuovo come esempio i Millennials, il problema della rappresentazione va ben oltre la questione dell’attitudine comportamentale. In un TedTalk del 2019, la giornalista Reniqua Allen, mette in luce la parzialità della narrazione dei media americani quando si parla di Generazione Y. Come spiega, nonostante il 44% dei Millennials americani sia composto da persone di origini ispaniche, afroamericane e asiatiche, la rappresentazione culturale e sociale di questa generazione continua raccontare solo una parte della storia, quella dei giovani adulti bianchi, evitando di interrogarsi sulle notevoli differenze di opportunità tra i diversi gruppi etnici. Se pensiamo che il 50% dei Millennials in tutto il mondo proviene, oltre che dagli Stati Uniti, da paesi come l’India, l’Asia, l’Indonesia e il Brasile, è evidente come quella occidentale non possa più essere l’unica prospettiva attraverso cui parlare delle nuove generazioni.
Un altro dei motivi per cui fornire un’adeguata rappresentazione delle generazioni risulta un’operazione particolarmente complessa, è che queste, sostanzialmente, non esistono. Quello di generazione sociale, infatti, non è altro che un costrutto socio-culturale che, prima di passare in mano ai guru del marketing, nasce per indagare la nascita di nuovi gruppi sociali fuori dal nucleo familiare e per spiegare lo sviluppo di una cultura e di una conoscenza trasversalmente condivise nella storia, ma non si tratta di una scienza esatta.
Ben lontano dall’idea dell’esistenza di archetipi generazionali, nel 1929 il sociologo Karl Mannheim parlava di generazione come di un gruppo di persone accomunato non solo dalla condivisione dello stesso periodo di nascita, ma anche dalla geografia, dall’esperienza delle medesime influenze politiche e culturali (soprattutto nella fase tardo adolescenziale) e dall’effettiva partecipazione alle correnti del proprio tempo. Per Mannheim, solo questo comporterebbe la nascita di «una tendenza a determinati modi di comportarsi, di sentire e di pensare» e, soprattutto, una stratificazione di questa tendenza all’interno di una generazione.
Ancora più importante, non è solo l’identità generazionale a dipendere dalla combinazione di più variabili, ma anche la possibilità che questa riesca a produrre cambiamento sociale: se è vero che la nascita di nuovi individui comporta sempre un nuovo accesso al patrimonio culturale accumulato dalle generazioni precedenti, e quindi un nuovo confronto con esso, non è detto che si presentino sempre le effettive condizioni per produrre un cambiamento. Non è quindi possibile prevedere né la natura né il comportamento delle generazioni presenti e future. L’analisi, al massimo, avviene solo a posteriori.
In un’intervista sul Washington Post, Kim Parker, direttrice delle ricerche sui trend sociali di Pew Research, ha spiegato che il concetto di generazione oggi rappresenta principalmente un utile strumento di storytelling «taking a lot of data and trying to put it into an interesting prism that speaks to people». Inoltre, secondo Tom DiPrete, professore di sociologia alla Columbia University, l’attuale definizione delle diverse generazioni si è spostata da un piano sociologico a un piano mediatico: laddove nella ricerca ci sono dubbi e resistenze a fornire informazioni precise sull’esistenza di una generazione e sulle sue caratteristiche, nei media si eserciterebbe, invece, una costante demarcazione di queste identità arbitrarie.
Alla fine, né Mannheim, né altri sociologici e teorici dopo di lui sono riusciti a fornire una dimostrazione empirica del susseguirsi di determinate generazioni nella storia. Questo non vuol dire che non esistano differenze tra i diversi gruppi di età o che il concetto di generazione sociale non rappresenti un valido indicatore per orientare l’analisi sui fenomeni che caratterizzano la nostra società nel lungo periodo. Nel dibattito quotidiano, però, quando parliamo di politica, ambiente, ma anche di moda e di TikTok,forse dovremmo davvero iniziare a considerare le generazioni come un oroscopo, o magari proprio come un meme, e imparare di nuovo ad abbracciare quella che Daniel Lopatin descrive come la «natura complessa e non lineare» della collettività di cui facciamo parte.