A che punto è la notte editoriale? Il grande successo del Salone del Libro di Torino, che ha fatto registrare 150.000 visitatori superando i numeri pre-pandemia, rimanda l’immagine chiara di un settore innegabilmente in crescita: cresce il numero di lettori e lettrici, crescono le vendite del cartaceo e dell’online, aumenta la produzione di audiolibri. La pandemia, un po’ a sorpresa, sembra aver riavvicinato le persone alla lettura e in generale avvicinato il mondo del libro alle persone.
Dopo tutto, nei primi mesi di lockdown e coprifuoco, le librerie hanno riscoperto la loro vocazione territoriale, riuscendo a creare delle reti di solidarietà e di mutuo appoggio che hanno funzionato egregiamente. In particolare, le librerie indipendenti hanno dimostrato di avere ancora un peso importante all’ interno dell’ecosistema editoriale, nonostante i grandi numeri prodotti dalle vendite online e l’avanzata sempre più decisa degli ebook: lo scenario è uno dei migliori possibili, nell’aria c’è voglia di leggere, incontrarsi e parlare di libri con annesse ripartenze. Eppure, se si guarda più attentamente ai dati, le cose sembrano stare diversamente.
Oggi l’editoria in Italia rappresenta il terzo business culturale del paese, dietro a pay-tv e cinema; un settore che complessivamente vale 1,7 miliardi di euro, ma che nonostante questo è in crisi da almeno vent’anni.
Le ragioni sono diverse, ma la radice unica: il comparto editoriale sopravvive all’interno di uno scollamento profondo dal tessuto sociale del quale fa parte.
Ad evidenziare questo dato sono i numeri: oggi la percentuale di italiani che leggono (e per leggono si intende persone dai 15 ai 75 anni che leggono almeno un libro l’anno) è del 56%, in calo costante rispetto agli ultimi anni (65% nel 2019); in Italia si pubblicano una media di 70.000 libri l’anno, ad un ritmo di 190 libri al giorno, 8 libri ogni ora. Ogni titolo vende una media di 160 copie, mentre il 97% dei titoli non supera le 500 copie. Ciò vuol dire che il mercato è letteralmente inondato giornalmente di libri destinati al macero. Non c’è una fetta di pubblico sufficiente ad assorbire la produzione, gli editori lo sanno ma non possono fare altrimenti: per un piccolo o medio editore scendere sotto le 12 copie annue equivale a tagliarsi fuori dal mercato, nel quale la stessa sovraproduzione è utilizzata come arma per ridurre la visibilità dei competitor, il tutto all’interno di uno spazio estremamente limitato. Inoltre, dagli ultimi dati emerge come l’atto di leggere (per piacere personale) sia sempre più connotato a livello di classe: il divario fra Nord e Sud del Paese è del 22%: al nord leggono il 56% delle persone, al Sud solamente il 35%; è stato dimostrato come le fasce più deboli della popolazione siano quelle più interessate da questo fenomeno. Le persone con basso titolo di studio, basso livello di alfabetismo tecnologico e provenienti da determinate aree geografiche leggono sempre meno, meno 14% in due anni, soprattutto nella fascia d’età che va dai 15 ai 17 anni. Allo stesso tempo, i fantomatici “lettori forti” (almeno 12 letti ogni anno) leggono più di prima, totalizzando una media di 17 titoli all’anno; da qui l’illusione della crescita di cui si sente spesso parlare. Oggi più che mai, a leggere è chi ha più soldi e più tempo libero a disposizione. Un particolare tipo di dissociazione cognitiva sembra affliggere il comparto libresco: mentre vengono stampate su carta (una carta sempre più costosa) miliardi di parole destinate a non essere lette, le condizioni di lavoro del settore arrivano a rasentare lo schiavismo: i fatti di cronaca relativi alla vicenda Grafica Veneta, la più grande azienda del settore per quanto riguarda la stampa dei libri, con clienti del calibro del Gruppo Mondadori, Gems e Feltrinelli, in cui gli operai venivano costretti a turni di dodici ore, sette su sette, senza ferie, riposo né malattia, spesso torturati e sequestrati, ne è l’esempio più eclatante.
Tuttavia, il problema è endemico e in ogni punto della filiera si riscontrano problemi analoghi: dal lavoro redazionale, ormai quasi totalmente esternalizzato e soggetto a condizioni di lavoro estremamente precarie e mal pagate, arrivando alla logistica, i cui lavoratori e lavoratrici sono costretti ciclicamente a ricorrere allo sciopero per porre l’attenzione su una dinamica lavorativa degradante e incentrata sullo sfruttamento.
Il paradosso di pubblicare sempre più libri in un paese dove sempre meno persone leggono è presto spiegato: il vero business che ruota intorno ai libri non ha nulla a che fare con le vendite.
È infatti la distribuzione il motore immobile intorno al quale ruota tutto il resto: il vero guadagno economico proviene dalla movimentazione e dallo stoccaggio dei libri, in Italia gestito da due aziende che hanno ormai il monopolio dell’intero mercato, Ali (di cui il gruppo Mondadori ha recentemente acquisito il 50%) e Messaggerie.
In Italia il prezzo medio di copertina è di 14 euro, di cui più del 60% finiscono nelle tasche del distributore. Una volta pagate tutte le spese, all’editore restano intorno ai 2 euro a copia. Senza scendere nel labirinto degli orrori della distribuzione, che comprende logiche perverse come quelle del reso fisiologico o del ricircolo a pagamento dei resi, basti pensare ad una piramide di Ponzi: il gioco va avanti finché ai piani bassi della piramide c’è qualcuno disposto a giocare, a investire il proprio tempo e denaro, che in questo caso vuol dire lavorare in perdita con la perenne speranza di un miglioramento futuro in realtà impossibile proprio a causa dei presupposti sui cui si regge l’intera filiera.
In Italia si pubblicano una media di 70.000 libri l’anno, un ritmo di 190 libri al giorno, 8 ogni ora. Ogni titolo vende una media di 160 copie, mentre il 97% dei titoli non supera le 500 copie.
Tuttavia, sarebbe sbagliato trovare nella distribuzione l’unico responsabile di un mercato drogato, poiché anch’essa si adegua a delle tendenze globali che a loro volta si modificano in base al modo in cui le persone consumano determinati prodotti, in questo caso in base al modo in cui leggono. Il complesso apparato di distribuzione rispecchia le esigenze di un pubblico che ormai non è più disposto a dilatare i tempi d’attesa fra la formulazione e la soddisfazione del proprio desiderio: il libro, come ogni altra merce, deve essere disponibile nel più breve tempo possibile, eliminando qualsiasi scarto.
Questa tendenza è già evidente in mercati enormi come quello asiatico, in particolare quello cinese, nel quale a partire da questi presupposti si è andato a formare un intero genere letterario di enorme successo: lo shuangwen (爽文), ovvero romanzi composti da brevi capitoli pubblicati ogni due, tre giorni su piattaforme online come Qidian. Come spiega Pietro Minto su Domani «piattaforme come Qidian, pubblicano “romanzi-web” firmati da autori costretti dal mercato a ritmi di scrittura forsennati. Ogni romanzo di Qidian è composto da capitoli che escono a distanza di pochi giorni, dal costo di meno di un euro ciascuno. Le conseguenze sono, ancora una volta, stilistiche, perché il sistema spinge alla pubblicazione di capitoli veloci, pensati per soddisfare gli appetiti del pubblico con una semplice notifica.»
Questo tipo di fruizione è pensata, al pari di un like o di una reaction, per fornire brevi apporti di dopamina: al suo interno viene meno qualsiasi questione legata allo stile, alla ricercatezza o alla cura del testo, ovvero tutte quelle caratteristiche apprezzate e ricercate dai cosiddetti lettori forti, i quali appaiono sempre più una specie in via d’estinzione, abituata a vivere all’interno di una riserva naturale distaccata dal mondo reale. Questo scenario complesso si regge a sua volta su un elemento che sta modificando pesantemente sia il presente che il futuro del comparto editoriale: ovvero la tendenza ormai diffusa a ricorrere all’autopubblicazione, altrimenti detta editoria a pagamento.Sempre più persone, infatti, soprattutto nei mercati non occidentali, optano ormai per il servizio di self-publishing offerto da Amazon con il Kindle Direct Publishing che permette agli autori e alle autrici di bypassare in un colpo solo sia le case editrici che le aziende di distribuzione. Kdp offre infatti la possibilità di pubblicare i propri contenuti direttamente sullo store del Kindle, rendendoli immediatamente disponibili per milioni di utenti in tutto il mondo, ad un prezzo chiaramente incomparabile con quello richiesto dall’editoria tradizionale. L’assenza di mediazione fra autori e case editrici va a modificare profondamente la struttura stessa dei testi: essendo pagati in base alle pagine lette, gli autori tendono a prediligere una narrazione seriale, che procede per picchi narrativi e cliffhanger e che sappiano catturare l’attenzione di chi legge già dalle primissime pagine. Sul web non è difficile trovare intere sezioni commenti all’interno delle quali gli autori e le autrici che si autopubblicano decantano le meraviglie dell’autopubblicazione, soprattutto in termini monetari. D’altro canto, quanto meno in Italia, l’autopubblicazione viene ancora vista come uno stigma simbolo di scarsa qualità letteraria (cosa che a onor del vero, il più delle volte, corrisponde a verità), senza suscitare però nessuna domanda sul perché un numero sempre più grande di persone decida di farvi ricorso.
Nonostante gli eventi epocali degli ultimi anni, nei libri mainstream entrano spesso sempre le stesse tematiche intimiste e piccolo borghesi, che ruotano intorno all’ego di chi scrive e non mirano a creare nuove narrazioni o ad aprire nuove frontiere letterarie.
Riassumendo: da un lato il mercato editoriale italiano sembra vivere in una bolla simile a quella che caratterizzava i mutui subprime del 2008, dall’altro le tendenze più importanti a livello globale dimostrano che a venire progressivamente meno sono proprio i capisaldi che reggono l’idea di editoria tradizionale: autorialità, peso dell’editore, intermediazione delle librerie e funzionamento del sistema logistico. Mentre il mondo accelera verso scenari a complessità esponenziale, l’editoria sembra bloccata, incapace di tenere il passo.
A ciò si aggiunge una certa miopia del settore che raggiunge spesso anche i contenuti: nonostante gli eventi epocali degli ultimi anni, nel mainstream libresco entrano spesso sempre le stesse tematiche intimiste e piccolo borghesi, che ruotano intorno all’ego di chi scrive e che falliscono nel trovare un terreno fertile sul quale sviluppare nuove narrazioni che sappiano raccontare il mondo presente preservandone le complesse e numerose sfumature.
Se è pur vero che ciò che vende non è deciso a tavolino dalle case editrici è vero anche che la scelta di indirizzare il mercato verso determinati temi rispetto ad altri è una precisa strategia di mercato focalizzata sul profitto immediato e sulla reiterazione dell’identico. Molti testi negli anni hanno affrontato questa strana forma di dissociazione che sembra colpire con particolare forza il settore culturale, dall’ormai classico Amitav Gosh, al più recente lavoro del duo Medusa, passando per le ottime riflessioni di Carla Benedetti e quelle di Matteo Meschiari; eppure, la tendenza rimane quella di continuare a stampare noncuranti di tutto, anche se a venire meno è la stessa materia prima necessaria.
Il quadro generale restituisce dunque una complessità ben diversa dai proclami entusiastici di ripresa, che impone una riflessione a tutte le persone che ruotano (o che vorrebbero ruotare) intorno al mondo libresco, che sia per passione o lavoro. I libri, la letteratura, non devono salvare il mondo. Come scrive Francesco Pacifico in un recente articolo uscito su Il Tascabile, è necessario diffidare di una letteratura che conceda la grazia e l’autoassoluzione: «Se il nostro modo di vivere va condannato, siamo da condannare anche noi. Inutile cercare razionalizzazioni. Scrivere romanzi in cui si commenta poeticamente il cul de sac in cui ci troviamo è ridicolo, nel senso che diventa apertamente un modo per districarsi da quel giudizio: la colpa di questo mondo è di chi ha il SUV, non di chi legge poesie e ascolta i Wilco».
Allo stesso tempo però, forse può essere importante provare a capire se bisogna rassegnarsi passivamente a questo tipo di condanna, o se invece, c’è ancora speranza di veder sorgere un nuovo giorno.