Dai papiri di Ossirinco alle scritte sui muri, ai meme e ai filtri sui social. Palinsesti del presente, nelle politiche della scrittura e della memoria.
Il tratto di una bomboletta spray scivola rapido sul muro, lasciandosi dietro un sibilo secco e nervoso. Un gesto contrassegnato dall’urgenza di trovare spazio dove qualcosa, forse, è già stato scritto. Di tutt’altro ritmo, il movimento di un pennino immerso nell’inchiostro che incide la pergamena nel silenzio, con la lentezza rituale della scrittura antica. Due gesti lontani nel tempo, accomunati dalla stessa tensione: lasciare un segno che modifichi ciò che esiste.
Scritte sui muri, papiri riutilizzati, testi cancellati e riscritti: ciò che li unisce è l’atto della sovrascrizione. Una pratica antica, originata dalla scarsità dei materiali, che si rivela chiave per comprendere trasformazioni culturali e politiche più recenti. Ogni strato aggiunto è un’interferenza nel tempo: riscrive, altera, cancella.
DALLO “STOMACHION” A “PEPE THE FROG”
Nell’antichità si parlava di palinsesto per indicare una pergamena riutilizzata, dopo aver raschiato via il testo precedente. Pratica diffusa, che spesso non riusciva a eliminare del tutto il contenuto originario: le tracce riemergevano col tempo, rendendo quei supporti testimoni involontari della loro stessa riscrittura. Il palinsesto diventa così, una metafora efficace della cultura contemporanea, che accosta, stratifica, ricompone: crossing, remix, mashup.Un esempio emblematico è il “Codice C”, contenente lo “Stomachion” di Archimede. Un testo scientifico risalente al III a.C. e cancellato nel Medioevo, intorno al 1229, per far posto a preghiere nuziali e benedizioni pasquali. La cancellazione avvenne con l’acido, ma l’inchiostro sbiadito riaffiorò secoli dopo e, grazie ai raggi X, si poté recuperare parte dell’originale. Certamente, non un caso isolato, considerato che la gran parte dei manoscritti antichi pervenuti a noi, sono in forma di palinsesti.

Trovano un corrispettivo nel palinsesto collettivo rappresentato dalle scritte sui muri delle città e delle metropoli contemporanee.
Una sorte simile toccò anche ad un cospicuo gruppo di papiri. Tra il 1896 e il 1907, a Ossirinco, in Egitto, Bernard Grenfell e Arthur Hunt riportarono alla luce migliaia di papiri greco-romani. Lettere, capolavori perduti della letteratura greca, insieme con frammenti di vangeli apocrifi, editti, atti di compravendita e testi letterari componevano un archivio involontario, di una parte di storia del mondo antico. Anche in questo caso, la sovrascrittura si manifesta come parte della storia stessa del documento e delle sue tangibili mutazioni nel tempo. Esempi di stratificazioni storico culturali, che trovano un corrispettivo nel palinsesto collettivo rappresentato dalle scritte sui muri delle città e delle metropoli contemporanee: sovrapposte, cancellate, frasi brevi che si rispondono a distanza di anni, per mano di anonimi. Frammenti e stratificazioni che compongono una narrazione, il cui messaggio è sempre parziale, esposto al rischio della cancellazione e al potere della riemersione.

E, in certi casi, diventano atto politico, come dopo il colpo di Stato del 1° febbraio 2021 a Yangon, in Myanmar, quando l’esercito destituì il governo eletto democraticamente. In risposta alla repressione, le scritte contro la giunta militare si moltiplicarono, nonostante la sorveglianza armata. O, come in Iran, durante le proteste per la morte di Mahsa Amini, graffiti e poster clandestini divennero strumenti di dissenso. Le scritte venivano cancellate e riscritte in un ciclo continuo, azione che si è poi estesa anche alle piattaforme digitali, conservando la stessa logica: comparire, sparire, tornare. Schema analogo si replica negli ambienti digitali, dove i contenuti emergono, scompaiono e riappaiono alterati. Il caso di “Pepe the Frog”, personaggio dei fumetti di Matt Furie, ne è un esempio. Nato come innocuo character, dal 2015 fu associato ai movimenti dell’alt-right statunitense e usato per veicolare contenuti razzisti, dai membri di 4chan e 8chan. Usato in modo distorto, per diffondere hate speech e contenuti razzisti, l’Anti-Defamation League arrivò a classificarlo come simbolo d’odio. Una trasformazione resa possibile dal riuso, dalla circolazione libera, dalla perdita di controllo sul significato originario.
CANCELLARE DAL BASSO
«L’immagine si trasforma nel tassello di una conversazione, generando a sua volta altri contenuti e altri messaggi, in un processo potenzialmente infinito e dagli esiti imprevedibili.» osserva Valentina Tanni, in Memestetica. Il settembre eterno dell’arte (Nero Editions, 2020) a proposito di fenomeni di appropriazione e riscrittura che coinvolgono il mondo delle immagini. L’originalità si dissolve in una pratica continua di riconfigurazione, ogni contenuto può essere rieditato, ricondiviso, deformato.
Lo stesso accade con la viralità dei filtri su TikTok, come quello recentemente ispirato allo stile dello Studio Ghibli. Così ampiamente condiviso, che ha visto il suo impiego non solo su piattaforme social generaliste, ma anche sui profili ufficiali del governo e di alcuni parlamentari italiani, che li hanno utilizzati per veicolare messaggi istituzionali in modo più accessibile e visivamente accattivante. Anche la Casa Bianca ha scelto di farne uso per comunicare operazioni di polizia con toni rassicuranti, creando una narrazione estetizzata che distorce e rielabora contenuti controversi in forme accettabili, normalizzate. Si tratta del post pubblicato a marzo 2025 sull’account ufficiale X della Casa Bianca. L’immagine mostrava Virginia Basora-Gonzalez, una donna dominicana precedentemente deportata per traffico di fentanyl, arrestata nuovamente dall’ICE per tentativo di rientro illegale negli Stati Uniti. Episodi che evidenziano come le dinamiche di viralità digitale, assimilate nei codici visivi del potere, siano determinanti anche per la comunicazione politica ufficiale, che ne adotta le forme per riconfigurare la propria narrazione pubblica.
La dinamica contemporanea della rimozione si manifesta nella cosiddetta “cancel culture”.
Un’altra dinamica si attiva quando, invece, sovrascrivere coincide con il cancellare: non più il semplice riuso di uno spazio, ma un’azione intenzionale volta a oscurare o rimuovere una memoria. Le forme storiche di questa pratica sono molteplici: dall’ostracismo greco, che allontanava per dieci anni i cittadini ritenuti pericolosi per la polis, alla damnatio memoriae romana, come nel caso dell’imperatore Domiziano, cancellato dalle epigrafi pubbliche, fino alla redazione degli “Index librorum prohibitorum” da parte della Chiesa cattolica nel XVI secolo. In continuità con queste pratiche, la dinamica contemporanea della rimozione si manifesta nella cosiddetta “cancel culture”, che si esprime tanto attraverso interventi collettivi dal basso, come l’abbattimento di monumenti o simboli del colonialismo, riconosciuti come espressione materiale di una violenza storica e sistemica, quanto attraverso azioni dall’alto, di natura istituzionale o algoritmica, attraverso l’oscuramento dei contenuti online.
Il caso della statua dedicata a Indro Montanelli a Milano è tra i più discussi e rappresentativi: più volte ricoperta di vernice rosa, è diventata un punto focale del dibattito sulla necessità di dismettere pubblicamente i segni di una memoria coloniale, ancora troppo spesso normalizzata. Al centro delle proteste, la relazione di Montanelli con una sposa bambina durante la guerra d’Etiopia, da lui stesso rivendicata come pratica consueta e inevitabile, che evidenzia quanto certi riferimenti storici, troppo a lungo celebrati, risultino oggi eticamente e politicamente insostenibili.
Il dibattito sui monumenti, come quello sui contenuti online, non riguarda solo la memoria, ma la loro gestione pubblica e politica. In questo senso, la necessità di decolonizzare la memoria, di divellere o ripensare i monumenti può essere un atto di giustizia simbolica, un tentativo di correggere le asimmetrie storiche e dare rilievo a memorie alternative, spesso marginalizzate.
LA CENSURA DELL’ALGORITMO
Non tutte le cancellazioni, però, rispondono a questa logica emancipativa. In altri casi, la rimozione, più subdola perché operata tramite algoritmi, mira a oscurare informazioni che metterebbero in discussione l’ordine dominante del discorso pubblico. E’ quanto avviene, in particolare, dopo il 7 ottobre 2023, quando Meta ha iniziato a oscurare numerosi contenuti legati alla Palestina. Un’inchiesta di Human Rights Watch (2024) ha documentato casi di shadow banning e deindicizzazione che ostacolano la libera circolazione di informazioni. Utenti palestinesi, giornalisti e attivisti hanno subito rimozioni arbitrarie, restrizioni sugli account.
Tra gli episodi documentati: la rimozione di post relativi ai bombardamenti su Gaza, la censura di contenuti critici verso Israele, la sospensione di account che diffondevano testimonianze dirette. Le piattaforme giustificano spesso questi interventi richiamando le violazioni delle linee guida, ma cresce il numero di osservatori che denunciano una tendenza sistemica a deformare la rappresentazione di una realtà ridotta a “conflitto”, etichetta che nasconde l’asimmetria profonda della situazione. La censura algoritmica, quindi, alimenta una narrazione distorta, che parla di guerra in luogo di occupazione, apartheid e genocidio. Una disparità strutturale, nascosta e normalizzata anche nello spazio digitale.
@adammadanat Stop Pal3st1ne censorship #muslimtok #news #fyp #muslim #middleeastern ♬ original sound – Adam
A queste forme di censura dettata da diverse forme di potere, si affiancano forme di censura che si rivelano strategiche. Di emblematica rilevanza il caso del 2021 in cui, durante una manifestazione davanti al tribunale della contea di Alameda, il sergente David Shelby del County Sheriff’s Office ha riprodotto la canzone “Blank Space” di Taylor Swift, dal suo telefono mentre veniva filmato da attivisti del gruppo Anti Police-Terror Project. L’intento era quello di sfruttare le leggi sul copyright per impedire la diffusione del video online, poiché la presenza di musica protetta da diritti d’autore può attivare i sistemi di rimozione automatica, su piattaforme come YouTube. Un uso tattico e strumentale, per evitare trasparenza e responsabilità pubblica.
Ogni riscrittura è una presa di parola, ogni cancellazione una forma di controllo sul racconto del passato e sulla sua ricaduta nel presente.
Sovrascrivere, allora, non è solo un gesto tecnico, ma un atto eminentemente politico. Interviene sulla trasmissione della memoria, agendo selettivamente su ciò che viene conservato, trasformato o cancellato. Ogni riscrittura è una presa di parola, ogni cancellazione una forma di controllo sul racconto del passato e sulla sua ricaduta nel presente. Sovrascrivere significa decidere cosa può essere visibile, legittimo, tramandabile. È un gesto che sfida l’autorevolezza della storia, delle sue fonti e pervade le dinamiche di potere che determinano cosa è degno di essere ricordato e cosa, invece, deve scomparire. In questo senso, diventa il luogo in cui si misurano conflitti simbolici, culturali e istituzionali. Dal palinsesto antico alle scritte murali, dai meme ai filtri digitali, si riproduce una tensione costante tra conservazione e trasformazione. Gli spazi della scrittura, antichi o digitali, diventano campi di conflitto, in cui si negoziano continuamente rappresentazioni, memorie, identità. Le cancellazioni algoritmiche, le rimozioni selettive, i riusi strategici del linguaggio sono strumenti di governance, tanto quanto lo sono gli interventi di dissenso, le scritture dal basso, i gesti che sottraggono i segni alla narrazione dominante.
Riconoscere questa dimensione significa comprendere che la posta in gioco non è solo la forma dei contenuti, ma il potere di definirne il significato. Ogni atto di sovrascrittura è così un’azione sul senso e sulla sua possibilità di circolare. Lo aveva intuito, profeticamente, Kenneth Goldsmith, in “Uncreative Writing: Managing Language in the Digital Age”, formulando, forse, una provocazione divenuta ormai diagnosi: oggi scrivere significa sempre più confrontarsi con ciò che è già stato detto, risemantizzarlo, deviarlo, riscriverlo. Ma è proprio nella gestione di questo linguaggio, nel modo in cui viene usato, deformato, oscurato o rilanciato, che si gioca oggi una delle forme più pervasive di conflitto culturale e politico.