07.03.2025

Scrivere in tempo di crisi editoriale

La saturazione del mercato editoriale vista dagli occhi di un’autrice: una riflessione sulle conseguenze pratiche ed emotive che la crisi sistemica dell'editoria ha su tutti gli attori della filiera. E una proposta.

Sono un’autrice italiana. Una delle molte autrici minori, non (o non ancora) affermate. Ho pubblicato alcuni racconti su rivista e due romanzi − di quelli paradossalmente definiti oggi “romanzi letterari” − presso due piccole e prestigiose case editrici indipendenti, con risultati di vendite e visibilità credo in linea con la situazione in cui versano le piccole case editrici indipendenti. Avevo deciso di non firmare questo articolo, ma poi mi sono detta che non farlo sarebbe stato sciocco e pavido. Spero di non pentirmi del mio ripensamento.


Vorrei dare il mio contributo al dibattito sulla crisi dell’editoria, ravvivato recentemente da un articolo di Loredana Lipperini su Lucy sulla cultura e da altre riflessioni, come quella di Mario Baudino su Tuttolibri: una crisi sistemica, multifattoriale, di cui si parla sempre più spesso, e non solo in Italia. E vorrei farlo provando a illuminare l’altra (o un’altra) faccia della medaglia, cioè le conseguenze pratiche, emotive ed economiche che questa congiuntura può avere su autori e autrici non (o non ancora) affermatɜ.

Tsunami di manoscritti

I termini della crisi sono noti. Si legge sempre meno, per diversi motivi (non ultimo il moltiplicarsi delle occasioni di intrattenimento, dai reel “additivi” sui social, all’infotainment, alle piattaforme di streaming) e alcuni grandi editori cercano di far fronte al problema sovrapproducendo e rincorrendo fantasie di “quel che vuole la gente”. In alcuni casi (disclaimer: sto consapevolmente generalizzando) finiscono per offrire prodotti basati su un’idea avvilente di pubblico, scommettono sul peggio degli esseri umani invece che sul meglio, spremono fino alla nausea il già visto e il già venduto (Se ti è piaciuto questo, ti piacerà anche quest’altro) o comunque puntano su un ritorno economico immediato, invece di osare un po’ di più provando a costruire, sul lungo periodo, un gusto e una sensibilità. Disclaimer: mi riferisco a letteratura presuntamente colta e pop indiscriminatamente; trovo la distinzione tra alta letteratura e generi, quando se ne fa una questione di valore, un’assurdità.

Scrivere è un’attività creativa più a portata di mano di tante altre e un’attività che soddisfa una serie di pulsioni egocentriche

È altrettanto evidente come oggi, per diversi attori del settore, il business sia sempre meno la lettura e sempre più la scrittura. Non si legge più, ma moltissime persone, per diverse ragioni che non sempre hanno a che fare con la passione per la letteratura, scrivono. Scrivere è un’attività creativa più a portata di mano di tante altre (più che suonare il violino o dipingere, per dire); è un’attività che soddisfa una serie di pulsioni egocentriche (la mia preziosa, imperdibile storia), in un società narcisistica che spinge ognunə di noi a credere di essere unicə e insostituibile; è un’attività che per qualche motivo oggi viene associata a un certo prestigio sociale.

(Quasi) nessunə legge, moltɜ scrivono, dunque, al punto che la scrittura si sta trasformando in qualcosa di indirettamente redditizio o quanto meno in un modo per reagire alla crisi del libro e tirare a campare. Ne consegue un’impennata nella diffusione di scuole di scrittura, editor autonomɜ, couch, studi editoriali ecc., a volte serissimɜ e d’eccellenza, altre meno. “Ti aiuto a scrivere il tuo libro” is the new “Leggi questo libro, non te ne pentirai”. Questa, almeno, è la mia impressione non supportata da dati.


La conseguenza più nota di questo stato di cose è il vero e proprio tsunami di manoscritti, più o meno meritevoli, inviati quotidianamente alle caselle di posta generiche delle case editrici, che a volte hanno persone stipendiate per fare fronte all’onda d’urto, altre volte, specie se piccole o medie, semplicemente vengono travolte. Anch’io, come moltɜ, ho fatto e faccio parte del popolo dell’info@, ovvero di quell’esercito di persone che, in mancanza di contatti personali (e come te li fai, i contatti personali, se non hai contatti personali?), si sono viste costrette a inviare manoscritti alle caselle di posta generiche. Mi ha colpita, recentemente, un’intervista alla magnifica Valeria Parrella in cui lei, rispondendo alla domanda dell’intervistatore “Ci pensi mai che sei una delle scrittrici che ha fatto la scrittrice inviando un manoscritto?”, commenta ridendo: “Ma perché son cambiati i tempi! Adesso come fai? Chi invierebbe un manoscritto, oggi? Nessuno, forse manco io lo farei” (Fanpage, aprile 2024).

E in effetti i canali principali sono altri. Sono gli/le editor, internɜ o esternɜ, sono le scuole di scrittura con incontro finale con agenti ed editori, sono gli studi editoriali, sono le agenzie (a loro volta travolte dalla mole di proposte, a loro volta impossibilitate a rispondere a tuttɜ). È comprensibile che, nell’intaso generale, le case editrici prediligano i canali preferenziali. Lo fanno anche nel paese in cui vivo, la Spagna, che ha un mercato editoriale più vasto di quello italiano: qui le maggiori case editrici scrivono sui loro siti che “Non si accettano invii spontanei”, salvo poi prenderli in considerazione se gli arrivano tramite mail personali e risvegliano il loro interesse.

Variegate reazioni psicologiche

Una delle conseguenze di tutto ciò è che, per chi ha scarsi contatti personali e non può permettersi economicamente di investire su uno dei servizi a disposizione (o si rifiuta di usare questi ultimi in modo “strumentale”), insomma per chi, semplicemente, scrive, con serietà e impegno, ha già pubblicato e vorrebbe pubblicare ancora, la strada potrebbe essere molto in salita. Ci sono le eccezioni, naturalmente. Ci sono i casi editoriali, ci sono i premi. Per moltɜ, tuttavia, continuare a scrivere significa in qualche modo “continuare a esordire” tutto il tempo - come mi è capitato di leggere recentemente in un post di Michele Vaccari - in uno sforzo che può avere serie conseguenze pratiche ed emotive. Disclaimer: intendiamoci, i problemi veri sono altri. C’è gente che muore sotto le bombe tutti i giorni; c’è gente deportata dal suo paese. Qui però si sta parlando di editoria.

Le rare risposte, quando ci sono, mi fanno sobbalzare sulla sedia dall’entusiasmo

Personalmente, con due romanzi pubblicati e una traiettoria alle spalle di scrittura professionale (editoria scolastica, un altro settore con contraddizioni non da poco), so che, quando invio un’email con una proposta editoriale a una casa editrice di narrativa, a una grande agenzia o a un’editor che non conosco, tendenzialmente non riceverò risposta. Parlo di decine e decine di email, negli ultimi anni, ad altrettanti editori, per manoscritti inediti o proposte di traduzione. Le rare risposte, quando ci sono, mi fanno sobbalzare sulla sedia dall’entusiasmo. Anche i rifiuti, naturalmente, di gran lunga preferibili al silenzio. Il silenzio può significare qualunque cosa: un’email cestinata perché la scheda non risveglia interesse; un’email smarrita nel marasma delle mail quotidiane; un invio del manoscritto a lettore o lettrice esterna che nel giro di qualche mese produrrà una scheda di valutazione. Non c’è modo di saperlo, in mancanza di feedback. Ed è chiaro che le case editrici non sono tenute a fornire feedback: in fondo non chiedono loro di essere contattate!


La mancanza di feedback provoca in chi attende (e attende, e attende, e attende…) le reazioni psicologiche più disparate, ma credo riconducibili a due grandi tipologie: 1) il pensiero “Quello che ho scritto non vale abbastanza”, sana autocritica che però in casi estremi può diventare autoaccecamento; 2) il pensiero “Il romanzo vale ma non è abbastanza commerciale / Non l’hanno letto” ecc., sana consapevolezza di come vanno le cose che però in casi estremi può diventare alibi narcisistico, o piagnisteo, o schietta mitomania (Sono un genio incompreso! I salotti! ecc.). Non è infrequente passare da un estremo all’altro, anche nell’arco della stessa giornata. Non è infrequente − e forse in parte inevitabile seppure certamente deleterio − scivolare nel rancore, nel risentimento, verso l’intero ingranaggio, verso singole persone o verso la massa indistinta deglɜ scriventi in esubero.
Ultimo disclaimer: naturalmente esiste la possibilità, come sottolinea Loredana Lipperini nel suo articolo, che il romanzo proposto sia semplicemente brutto. Diciamo così: il silenzio non aiuta autori/trici poco inclini all’autocritica a prendere coscienza dei loro limiti.

Insomma l’intaso generale non fa bene a nessunə: non fa bene alle grandi case editrici, che in alcuni casi sembrano aver smarrito qualunque aspirazione a essere anche progetti culturali, completando la loro trasformazione in aziende come tutte le altre, e forse stanno pagando anche economicamente il prezzo della loro mancanza di coraggio; non fa bene ai piccoli editori eroici, per motivi evidenti; non fa bene alle librerie resistenti, soverchiate dalle novità e sempre più in affanno per mancanza di clientela; non fa bene ai lettori e alle lettrici che amano la letteratura di qualità (sia essa pop o “letteraria”); e non fa bene neanche a chi scrive, con serietà e impegno, e si trova alle prese con questo enorme tappo e con le attese logoranti che ne derivano.


Che fare, quindi (a parte smontare il capitalismo pezzo per pezzo e ripensare tutto daccapo, l’editoria come qualunque altro aspetto della vita, opzione che non è mai sembrata tanto distante)?

Qualcuno risponderà?

Persone più accreditate di me hanno riflettuto a fondo su questi temi, facendo diagnosi e proponendo o tracciando con il loro lavoro strade percorribili. Io non mi sento una lavoratrice del settore (è lavoro, scrivere romanzi?), ne ricavo un profitto quasi nullo e non ho sufficienti competenze per pronunciarmi sugli aspetti strettamente economici della questione. Continuo a pensare che nel campo culturale sia l’offerta a creare la domanda e non viceversa, e che scelte editoriali più varie e meno conservative potrebbero far riavvicinare alcune persone alla lettura. Ma è proprio ciò che fanno, da anni, case editrici indipendenti e piccole librerie, e sono in sofferenza quasi tutte.


Il problema è sistemico, multifattoriale, va ben oltre l’editoria e non ha singolɜ “colpevoli”. Le responsabilità sono molteplici e frammentate. Editori, distributori, libraiɜ, scrittori/trici, aspiranti tali, lettori/trici e tutte le figure intermedie del settore giocano un ruolo in questo grande inghippo. Giorno per giorno, scelta per scelta, titolo per titolo. Come lettrice e come autrice, non vedo soluzioni che non siano un insieme variegato di buone pratiche, ognunə nel segmento della filiera che lə riguarda.
Ben vengano i progetti dignitosi e coerenti, allora, che non cercano la sostenibilità / il profitto a qualunque prezzo. Ce ne sono molti, e vanno supportati. Ben vengano le lotte, come quelle di autori/trici e traduttori/trici contro la IA. Ben vengano le alleanze e la solidarietà. Ben vengano il dibattito e l’autocritica, in un settore che è costretto, oggi più che mai, a interrogarsi sul proprio futuro. Ben venga, soprattutto, la decrescita.

Less is more, più che mai in quest’epoca di eccesso e di saturazione, e questo vale per le case editrici ma anche per la massa di scriventi. Certo, ognunə è liberə di scrivere, creare, proporre. La creatività non è appannaggio di nessunə e il fatto che si sia democratizzata è certamente positivo. Ma per come la vedo io la libertà senza coscienza e senza responsabilità non è più libertà, è capriccio.
L’esortazione, che estendo anche a me stessa, è quindi a chiedersi con tutta serietà (possibilmente interpellando anche persone amiche schiette e competenti): Questa storia l’ho scritta per me o può avere un valore anche per altrɜ? Perché voglio che sia pubblica? È davvero riuscito e interessante, questo romanzo? Vale la pena che io lo invii? E anche questo articolo sull’editoria che ho scritto oggi, credendo di avere anch’io qualcosa da dire… Che faccio? Lo butto? Lo mando? Qualcuno mi risponderà?

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