Quanti articoli vengono scritti quotidianamente? Quante notizie nuove vengono raccontate? Non si sa un numero preciso ma si può stimare che a livello globale solo il numero di articoli pubblicati in rete sia dell’ordine dei milioni. E ci sono sempre nuovi articoli che si sommano a quelli vecchi, che li sostituiscono per poi essere a loro volta sostituiti. Ben pochi sono gli articoli che restano rilevanti a lungo, i più vengono dimenticati. In un certo senso gli articoli sono assimilabili a prodotti di consumo, usa e getta. Rolf Dobelli ha paragonato le notizie a forme di consumo compulsivo di cibo scrivendo che “le notizie sono per la mente quel che lo zucchero è per il corpo”. Cionondimeno, raccontare gli eventi che accadono nel mondo è importante per poter tenere traccia della realtà e permettere alle persone di relazionarsi condividendo dei punti fissi. Sapere cosa succede, essere informati sullo stato delle cose serve ad agire in maniera consapevole in una società organizzata. E più una società è articolata e strutturata, più è necessario che l’informazione circoli. Ciò è quanto si dice per giustificare l’attenzione che si dà alle notizie. Ma serve davvero solo a questo una notizia nel panorama mediatico?
Un ciclo infinito di novità
Se si guarda il sistema nel suo complesso le notizie servono in minima parte a informarsi. Non è un aspetto che distingua il presente dal passato ma i processi legati alla produzione e al consumo di notizie sono accelerati e spesso si discute dell’overload informativo che questo genera. Con la digitalizzazione e la diffusione dei dispositivi portatili oggi la parte industrializzata del mondo è interconnessa in maniera capillare: avendo accesso alla rete ci portiamo l’informazione in tasca. Ciò ha conseguenze strutturali sul panorama informativo, su come le notizie si diffondono e su come vengono fruite dalle persone. Un aspetto che salta subito all’occhio è la ridondanza delle notizie, soprattutto di quelle legate all’attualità e di potenziale interesse per tutta la popolazione (esempi possono essere i risultati delle elezioni, un attacco militare, una nuova scoperta scientifica, un’alluvione). Ora, tipicamente una tale notizia viene riportata da testate giornalistiche, telegiornali, opinionisti, esperti, info-encer, con una conseguente ridondanza cacofonica. Questa ridondanza ha però una sua temporalità. È facile riconoscere all’opera un processo che si ripete ciclicamente. Dal momento in cui una notizia rilevante cattura l’attenzione mediatica questa continua a essere discussa per un certo periodo fino a che una nuova notizia con una allora maggiore rilevanza non ne prende il posto e così via al passare del tempo e delle notizie. La struttura si ripete ogni volta pur con variazioni e adattamenti ad hoc. Il progetto The Lifespan of News Stories, realizzato da Google Trends e Schema Design, visualizza l’interesse per una notizia osservando l’andamento delle ricerche in rete fatte sul tema in questione.
Il contesto dovuto alla digitalizzazione pone tutti nella condizione di doversi esprimere su ogni notizia rilevante, non ci sono scuse per non parlare di un evento.
Si possono riconoscere diversi andamenti, legati a quanto velocemente cresce l’interesse, raggiunge il picco e poi cala. Ma in ogni caso il ciclo di vita è piuttosto breve. Tipicamente all’inizio c’è una grande proliferazione di articoli sintetici che riportano l’evento legato alla notizia, quindi seguono articoli e servizi dedicati che possono proseguire per alcuni giorni anche in accordo a eventuali sviluppi legati alla notizia. Questa dinamica è alimentata da due fattori. In primo luogo chi informa deve catturare e mantenere l’attenzione del suo pubblico per il proprio sostentamento economico: al fine di essere rilevanti e avere un seguito bisogna pubblicare più articoli possibile così da attirare pubblicità e inserzionisti. Allo stesso tempo, il contesto dovuto alla digitalizzazione pone tutti nella condizione di doversi esprimere su ogni notizia rilevante, non ci sono scuse per non parlare di un evento. In un articolo del New York Times Elizabeth Spiers ha ragionato su come non esprimere un’opinione su un tema sia a suo modo interpretabile come un’opinione e ci sia una pressione sui personaggi pubblici da parte dei propri follower a prendere apertamente una posizione in particolare in relazione a questioni politiche. Già Luciano Floridi in La quarta rivoluzione argomentava come nel contesto informativo permesso dalla digitalizzazione venga meno il diritto di ignorare: le persone non sono scusate dal non sapere una cosa rilevante. Ribaltando l’osservazione anche chi si occupa di informare non è scusabile se non riporta una notizia e la commenta.
Il sovraccarico informativo
Le vicende, le notizie, gli articoli e i servizi sono però così tanti che nel tempo si scalzano e al passare delle settimane l’attenzione si sposterà. A ben pensarci le notizie si rivelano intercambiabili, caduche, effimere di per sé. Hanno una vita paragonabile a quella di un fenomeno virale che – sia esso un meme, un video, la moda di rifare uno stesso gesto – è continuamente rimpiazzabile. Una buona valutazione di ciò si può avere sfruttando Google Trends, una pagina sulla quale si può vedere come varino le ricerche fatte su Google su un dato tema al passare del tempo. Per fare un esempio, alcuni mesi fa in relazione alla tragicità del conflitto in atto nella striscia di Gaza, c’è stata una campagna comunicativa spontanea che al grido di ‘ALL EYES ON RAFAH’ per mezzo di condivisioni sui social network, da Instagram a Tik Tok, ha cercato di riportare l’attenzione sul tema in un momento in cui la ciclicità delle notizie aveva spostato l’attenzione su altre questioni delle agende politiche. Ma questa stessa campagna ha vissuto la ciclicità della notizia. Nell’arco di poco tempo ne sono seguiti articoli, post e servizi per poi lasciare spazio a nuove notizie.
Nonostante la caducità delle singole notizie, permane comunque il loro flusso, continuo e senza tregua, che ha dei tratti ricorrenti. Le notizie cambiano mentre i modi in cui vengono raccontate e, anzi, narrate non lo fanno se non molto lentamente. Se si presta attenzione è facile individuare scelte stilistiche nella realizzazione di articoli e servizi informativi che sfruttano tecniche narrative tipiche della letteratura o della produzione audiovisiva. Ciò viene fatto in primo luogo per catturare e mantenere l’attenzione ma a conti fatti è anche funzionale a veicolare dei messaggi e a imporre delle interpretazioni dei fatti e quindi del mondo a prescindere dalla notizia di turno. Tutto ciò si apprezza più significativamente se invece di concentrarsi sulle notizie di maggiore rilevanza di cui si è parlato prima si presta attenzione a come vengono raccontati eventi più puntuali tipo casi di cronaca nera, gossip sulla vita privata di una persona famosa, uscite discutibili di un personaggio pubblico. È allora più facile notare come le notizie siano strumentalizzate o anche costruite solo per ribadire la propria posizione sui temi di turno. Gli aspetti formali con cui le notizie vengono narrate suggeriscono a chi ne fruisce il modo in cui interpretarle. Non si pensi a notizie manipolate o caratterizzate da omissioni come nel caso della censura. Quantomeno nei Paesi occidentali la censura è limitata a casi rari. C’è piuttosto una competizione per l’attenzione e alla fine l’opinione è guidata dalle narrazioni. In una scena emblematica del film del 1972 Sbatti il mostro in prima pagina di Marco Bellocchio, Gian Maria Volontè fornisce una lezione di giornalismo spiegando come modificare il titolo di un articolo per evitare che generi reazioni scomode. In un contesto in cui le notizie bene o male circolano, ciò che ha rilevanza non è più tanto di cosa si parli ma di come se ne parli.
Una massima provocatoria recita che regola fondamentale del giornalismo sia che non importa di come si parli di una notizia purché se ne parli. Il sottotesto di tale massima era che fosse importante che una notizia catturasse attenzione, una logica sposata da chi ha a cuore una precisa notizia e ritiene che quella notizia debba essere discussa, logica tipica dell’attivismo che si concretizza in azioni di protesta con manifestazioni e atti provocatori. Ma oggi, in un contesto di sovrapproduzione di informazioni mantenere l’attenzione su una precisa notizia è un’impresa improba, quasi una causa persa. Ciò che serve è mantenere l’attenzione su di sé, su chi riporta la notizia, si tratti di una testata o di un influencer, e per farlo si ricorre sempre più a tecniche di racconto proprie dell’intrattenimento. Già negli anni ‘80 per spiegare questo fenomeno si parlava di info-tainment. Il confine tra notizia e finzione si è sempre più assottigliato, a partire dal contesto in cui si fruisce informazione. Già la televisione che è un mezzo principalmente di evasione quando riporta servizi giornalistici rende in qualche misura l’informazione una sorta di spettacolo. Nell’usare tecniche proprie del cinema – a partire da un uso a volte improprio del montaggio – il giornalismo televisivo ha deformato significativamente negli anni la percezione che si può avere delle notizie. Molti di questi aspetti erano già stati ben osservati da Neil Postman che in Divertirsi da morire, ragionando sulla televisione diceva:
“Il divertimento è il modello per rappresentare ogni esperienza e l’intrattenimento la «superideologia di ogni discorso in televisione».”
Similmente la rete come spazio virtuale interconnesso cui accediamo con dispositivi sul cui schermo facciamo le operazioni più varie, dallo scambiare messaggi, all’ascoltare canzoni, al fare fotografie, al cercare appunto informazioni, ha ridefinito significativamente la percezione che ne possiamo avere. Sempre di più è evidente come gli articoli, i servizi e quindi anche le informazioni siano al limite degli oggetti di consumo. Oggetti confezionati con tecniche proprie della narrazione tipica dell’intrattenimento. Esempi di queste tecniche sono: titoli tendenziosi che pongono una domanda cui cercare risposta con la lettura dell’articolo, servizi con persone che guardano in macchina rivolgendosi direttamente a chi guarda, grafiche accattivanti, citazioni, combinazione di immagini e scritte in maniera ridondante o dissonante (come nel caso dei meme), narrazioni ad hoc con personaggi di fantasia, racconti in prima persona, eccetera. Tutti espedienti retorici che hanno la capacità di catturare l’attenzione e guidarla generando reazioni emotive che sono preferite al ragionamento e alla contestualizzazione. L’uso massiccio di questi strumenti retorici ha fatto saltare il confine fra notizie e finzione rendendoli sempre più due “regni” indistinguibili. Come osserva Peppino Ortoleva in Miti a bassa intensità la loro intercambiabilità:
“diventa sempre piú difficile da contenere, soprattutto in quelle svariate forme di comunicazione nelle quali oralità e scrittura, immagine e parola sembrano esse stesse sovrapporsi: inclusi, ma non solo, quei social network che hanno attratto grande (forse eccessiva) attenzione per un quindicennio.”
Verso un giornalismo più lento e riflessivo
In La crisi della narrazione Byung-chul Han osserva che lo tsunami dell’informazione ci fa “precipitare in un vortice di attualità”, un’attualità in cui viene meno lo spazio per la costruzione di un discorso che cerchi di dare un senso, un ordine alle cose per mezzo del ragionamento. Invece di collegare gli eventi in un discorso, ogni evento diventa occasione per ribadire le proprie visioni preesistenti. E questo tsunami con le sue logiche sembra facilmente proiettabile anche nel futuro prossimo.
Si immagini che una manifestazione pacifica sfoci in un conflitto con oppositori e veda poi il coinvolgimento delle forze dell’ordine. Dapprima si parlerà puntualmente della situazione, riportandone dati sul numero di persone coinvolte ed eventualmente feriti oltre che sui danni agli spazi della manifestazione. Seguiranno prese di posizione da soggetti politici e istituzionali. Si riporteranno testimonianze delle persone coinvolte. Si faranno valere le ragioni di tutte le fazioni. Si faranno articoli di approfondimento sulle ragioni della manifestazione. Ci saranno statistiche su scontri passati e fatti analoghi. Ci saranno critiche, commenti, opinioni sui giornali, sui social e nei salotti televisivi. Dire ciò sembra scontato e in parte lo è, proprio perché sono schemi che tutti siamo abituati a osservare ogni volta che accadono eventi simili. Ma questo esempio fa emergere un aspetto meno ovvio: se ciò che accadrà in futuro rimane incerto, possiamo invece immaginare senza difficoltà come una notizia sarà raccontata.Quindi, se le notizie non sono capaci di costruire senso, dovremmo smettere di consumarle come suggerisce Dobelli? Una posizione tanto radicale non è risolutiva. Certo non si può pensare di cambiare radicalmente un sistema comunicativo così stabile e ben rodato. Un primo passo è quello di cambiare atteggiamento verso di esso cercando di non subire passivamente il ciclo.
Allo stesso tempo, i pubblici non devono essere ricettori passivi da persuadere ma portatori di cambiamento.
Questo vale per tutta la filiera: sia per chi produce le notizie che per chi le consuma. Da più di un decennio è nato un movimento che invita i giornalisti – quelli interessati e motivati a realizzare un’informazione di qualità – a praticare il cosiddetto slow journalism. Questo movimento paragona le notizie a cibo spazzatura che crea dipendenza. L’idea è di cambiare la dieta mediatica proponendo prodotti non schiacciati sui ritmi dell’attualità che non sfruttino le tecniche dell’infotainment. Un giornalismo che quindi dedica tempo e attenzione ai fatti per pubblicare unicamente articoli ragionati, documentati e ben argomentati. Allo stesso tempo, i pubblici non devono essere ricettori passivi da persuadere ma portatori di cambiamento. Perciò non è sufficiente fornire loro strumenti perché distinguano le cosiddette “fake news”, ma serve che conoscano i meccanismi che producono le notizie, incluse le tecniche narrative e audio-visive. Così facendo i pubblici potrebbero apprezzare come la fabbricazione di notizie non dia valore alle informazioni in sé, ma le strumentalizzi per veicolare e imporre narrazioni.