Si stima che nel 2023 il 65% della popolazione mondiale sia iscritta a dei social network. Si tratta di quasi 5 miliardi di persone. Ciascuno di questi utenti ogni giorno condivide la propria vita su diverse piattaforme, da Instagram a Facebook, passando per Twitter, TikTok e Threads. Solo su Meta vengono condivisi 5 miliardi di dati al giorno, tra foto, video e messaggi. Una vita intera passata sui social, dove abbiamo catalogato tutti nostri i momenti più significativi.
Secondo uno studio pubblicato sulla rivista accademica Cyberpsychology, Behavior, and Social Networking questa abitudine ci ha permesso di ricordare meglio le esperienze condivise online, rispetto a quelle che teniamo per noi. Un risultato in netto contrasto con il cosiddetto Google Effect, secondo cui tendiamo a non ricordare ciò che leggiamo online perché consideriamo internet come un immenso disco di backup dove andare a cercare le informazioni al bisogno.
Tuttavia, abbiamo veramente bisogno di ricordare tutto ?
La memoria interessata delle piattaforme
Postare i propri ricordi sui social richiede una certa pianificazione e impegnarsi così tanto per curare la propria immagine online è un processo molto legato alla percezione di noi stessi e di come vogliamo mostrarci agli altri. Ogni volta che postiamo una storia su Instagram aggiungiamo un tassello della nostra immagine per come vorremmo la percepissero i nostri follower. In questo modo, postare sui social diventa fondamentale per costruire la nostra identità, creando un mix tra un diario online e un’echo chamber. Così continuiamo a condividere nuove esperienze online, dalle più allegre alle più devastanti per alimentare la narrativa della nostra vita che abbiamo deciso di portare avanti.
Il giornale online The Conversation ha provato a studiare la reazione che abbiamo alla condivisione dei nostri ricordi online. Molti degli intervistati, temendo il giudizio altrui, hanno preferito non condividere i momenti a cui erano più legati. Hanno scelto di pubblicare momenti più superficiali e più condivisibili. Altri invece hanno postato proprio quei momenti che a un primo sguardo sembrano più intimi. Anche qualcosa di privato come un ricordo è diventato una parte di routine dell’uso dei social media. Nel frattempo, le piattaforme stanno iniziando a modificare il modo in cui viviamo il nostro passato. In futuro, questa parte di routine della nostra vita potrebbe continuare a plasmare il modo in cui ricordiamo sia a livello individuale che collettivo.
“Hai un nuovo ricordo”. Se ci clicchiamo il nostro telefono ci mostrerà dei collage di foto con persone con cui, spesso, non abbiamo più a che fare da tre secoli e che vorremmo cancellare dalla nostra memoria come in Se mi lasci ti cancello.
Spesso sui nostri smartphone compare la notifica: “Hai un nuovo ricordo”. Se ci clicchiamo il nostro telefono ci mostrerà dei collage di foto con persone con cui, spesso, non abbiamo più a che fare da tre secoli e che vorremmo cancellare dalla nostra memoria come in Se mi lasci ti cancello. Eppure i ricordi sono lì, pronti e disponibili, ordinati da un’AI che sfrutta il riconoscimento facciale e la cronologia degli eventi. L’aspetto sorprendente è che questo tipo di produzione automatica di memoria, come la definiscono gli studiosi della London School of Economics David Beer e Ben Jacobsen, è ormai perfettamente integrata nella nostra routine. Questi messaggi potrebbero sembrare poco importanti nel flusso costante dei feed dei social media, eppure i ricordi filtrati dall’algoritmo hanno un profondo impatto su ciò che ricordiamo e come lo ricordiamo. I ricordi automatizzati plasmano la nostra idea di passato, che inevitabilmente plasmeranno gli aspetti dell’identità, dell’appartenenza e delle relazioni sociali in futuro.
I social media non si limitano a interazioni momentanee, ma archiviano anche quei momenti e fanno ricircolare il nostro passato affinché lo consumiamo. Le tracce biografiche lasciate da anni di utilizzo dei social media sono diventate fonti ricche da cui attingere e estrarre contenuti “memorabili”. Potremmo pensare che la memoria sia molto individuale e personale, eppure i ricordi sono stati a lungo mediati dalle tecnologie: la carta stampata, le fotografie, l’archiviazione digitale su dispositivi vari e in cloud sono solo gli ultimi sviluppi. È il fulcro di un percorso di cambiamento profondo, culminato con gli algoritmi che intervengono nelle forme e nei ritmi di creazione della memoria. Stiamo vivendo in un mondo online, e non solo, in cui i ricordi sono apparentemente fatti per noi, ma noi non ne abbiamo più il controllo. La conseguenza è un racconto attivo e automatizzato del nostro passato individuale e collettivo. I social media possono attingere a questo vasto archivio di contenuti passati per fornirci ricordi preconfezionati. Naturalmente, questi contenuti sono anche una risorsa utile per mantenere le persone impegnate all’interno delle piattaforme.
Le piattaforme suddividono i ricordi in diverse categorie, basate sul tipo di condivisione e di interazione, in modo da individuare la tipologia migliore da mostrare agli utenti.
La creazione di questi ricordi non è per niente neutrale. Nel libro Social Media and the Automatic Production of Memory, Beer e Jacobsen spiegano che le piattaforme suddividono i ricordi in diverse categorie, basate sul tipo di condivisione e di interazione, in modo da individuare la tipologia migliore da mostrare agli utenti. In questi processi vediamo come qualcosa di così intimo e personale come un ricordo non possa sfuggire alla logica più ampia delle classifiche. Anche la nozione di valore è strettamente allineata alla logica dei social media: la questione di ciò che può mantenere le persone impegnate e pronte a interagire sulla piattaforma è fondamentale. Tutto questo crea delle domande su cosa sia effettivamente un ricordo. Il fatto che un contenuto sia etichettato come “ricordo” sui social media non significa che chi lo vede sulla propria area personale lo consideri tale. Le tensioni sorgono quando i processi automatici di classificazione della memoria non si allineano con la comprensione del passato degli utenti. Oltre a trovare alcuni di questi processi di creazione di ricordi scomodi o inquietanti, o che c’era qualcosa che non quadrava con la confezione elegante e lineare di questi momenti, altri hanno notato come spesso riaffiorano ricordi che consideravano insignificanti. I valori dei social media possono scontrarsi con i valori dei loro utenti.
Riconsiderare il nostro rapporto con la memoria, e con l’oblio
Il filosofo Walter Benjamin una volta si è chiesto se ciò che conferisce autenticità e significato ai ricordi sia il modo in cui li dissotterriamo e ne delimitiamo la posizione. La domanda che la memoria algoritmica dei social media pone è da dove possano derivare l’autenticità e il significato dei ricordi quando vengono dissotterrati e classificati al nostro posto. Cosa significherà tutto questo per il modo in cui ricordiamo collettivamente e individualmente? Ancora più importante è il fatto che, esaminando questi processi automatizzati, siamo spinti a riflettere ulteriormente sul modo in cui anche algoritmi apparentemente benigni plasmano la nostra vita quotidiana, una questione che sta diventando sempre più attuale per quasi tutti i campi della ricerca sociale.
Grazie all’avvento dei social anche la memoria storica e istituzionale è cambiata. Abbiamo una nuova dimensione pubblica da cui attingere che ci permette di raccontare la storia per poi condividerla. Uno strumento molto importante per scoprire eventi del passato, anche recente, che non abbiamo mai approfondito, fondamentale per rendere più forte la memoria collettiva e per creare dibattito. Ma può anche rivelarsi un’arma a doppio taglio quando vengono diffuse post-verità senza controllo. Pensiamo banalmente a come determinate frange politiche strumentalizzano determinati momenti storici parlandone in astratto, completamente avulsi da ogni contesto di riferimento.
Siamo pieni di sollecitazioni dal passato, stratificato meticolosamente dagli algoritmi di campionamento delle piattaforme a cui siamo iscritti, ma siamo sicuri di avere bisogno di ricordare sempre? In un mondo in cui i social network ci permettono di tenere traccia di tutto, dal primo fidanzatino al primo lutto, forse è giunto il momento di ripensare il nostro rapporto con la memoria e il ricordo. E anche con l’oblio. Siamo abituati a pensare che perdere il ricordo sia l’evento peggiore che ci possa accadere. La perdita di un hard-disk su cui avevamo archiviato delle foto è una catastrofe. Idem la cancellazione di un social su cui avevamo archiviato più o meno consapevolmente la nostra esistenza online.
Forse è giunto il momento di ripensare il nostro rapporto con la memoria e il ricordo. E anche con l’oblio.
Eppure, secondo Florian Farke, PhD presso Sec-Human, l’oblio digitale non è il dramma apocalittico che potremmo pensare. L’oblio ci aiuta a eliminare informazioni non necessarie, a fare spazio. Oltre al fatto che internet cancella informazioni di continuo, basta un server che non funziona per perdere anni e anni di dati. Un po’ come è accaduto a MySpace, quando ha perso 12 anni di dati caricati tra il 2003 e il 2015. È molto facile copiare e divulgare dati su internet, ma mantenerli online non è così scontato come crediamo. Per gli utenti infatti il concetto di internet e oblio è molto lontano, basti pensare al fatto che molti continuano a caricare le proprie foto su Facebook come se fosse un cloud. Troppo spesso non consideriamo la necessità fisiologica di lasciare andare alcune parti di noi perché potrebbe effettivamente farci bene. Non dobbiamo per forza tenere con noi tutti i nostri ricordi. Ci sono foto e video del passato che sappiamo avere un potere emotivo fortemente negativo su di noi. In questo caso dobbiamo per forza conservarli o dovremmo imparare a riconciliarci con l’idea che ciò che non vogliamo ricordare può essere lasciato andare?
Dobbiamo per forza conservarli o dovremmo imparare a riconciliarci con l’idea che ciò che non vogliamo ricordare può essere lasciato andare?
È un concetto difficile da assimilare, perché nella nostra cultura l’oblio è un concetto profondamente negativo. Perdere la memoria è quasi come una negazione dell’identità: se non ricordiamo qualcosa è come se non fosse mai esistita. Ma in un mondo online che ci costringe a ricordare, la scelta di lasciare andare e dunque di dimenticare, può diventare un atto liberatorio. Dimenticare ci permette di acquisire una nuova prospettiva, lasciando indietro zavorre che ci tengono ancorati a un passato che ci limita, senza possibilità di guardare avanti.