24.09.2024

Il brand della mummia Ötzi

Ritrovata in Alto Adige, Ötzi è una delle mummie più antiche d’Europa. Ma è anche un’icona infinitamente riproducibile sulle tazze e sulle magliette. Dopo cinquemila anni Ötzi ci osserva da una cella frigorifera a 6 gradi sotto zero: chi siamo diventati?

Il «Thermos Ötzi», come viene presentato su un ripiano del negozio del Museo Archeologico dell’Alto Adige, è un thermos metallico azzurro che costa 35 euro. Subito fuori dal museo c’è il centro di Bolzano con i turisti, le acque del Talvera costeggiate dai prati, le temperature di fine estate.

Il nome di Ötzi proviene dalle alpi dell’Ötztal, ovvero le alpi Venoste, dove nel 1991 venne ritrovato casualmente il corpo mummificato di un uomo dell’Età del Rame. Una delle mummie più antiche d’Europa. Ötzi, appunto, o la «mummia tardo-neolitica del ghiacciaio del Tisenjoch, Comune di Senales, Provincia Autonoma di Bolzano-Alto Adige, Italia» secondo la denominazione scientifica ufficiale. Quindi Ötzi non sta a indicare un uomo, ma i suoi resti per come sono stati conservati dalla rigidità del clima del Giogo di Tisa, a un’altitudine di oltre tremila metri

Il nome «Ötzi» è un marchio protetto, depositato da un’agenzia bavarese nel 1997 – sei anni dopo il ritrovamento, pochi mesi prima dell’istituzione del museo. E il nome compare ovunque nel negozio del museo. Una t-shirt bianca con la scritta «Ötzi» sul petto costa 36,50 euro nella taglia da adulti (29,50 euro per i bambini). L’etichetta appesa dice: «Wear It Corageously.»

Il merchandising vende un elemento per venderne un altro

Ötzi aveva all’incirca 45 anni e girava in alta montagna con l’arco e la faretra piena di frecce, il giorno in cui morì, ucciso, tra il 3350 e il 3120 avanti Cristo. Il corpo rimase senza sepoltura e venne ricoperto subito dalla neve e dal ghiaccio. Nessuno lo trovò, in quel punto della val Senales, per oltre cinque millenni. Sono nati, da allora, l’aratro e l’Odissea, la democrazia e il cemento, la stampa e la polvere da sparo e le grandi religioni monoteistiche. Finché un pomeriggio di settembre, sul finire del Ventesimo secolo dopo Cristo, durante una passeggiata, una coppia di turisti di Norimberga, Erika e Helmut Simon, sono usciti dal sentiero tracciato e si sono accorti di qualcosa a terra. Il corpo, gli indumenti e l’equipaggiamento dell’uomo poi ribattezzato Ötzi. 

Intorno a questo materiale ricco, entusiasmante per lo stato di conservazione e il senso di unicità che trasmette anche al profano, è costruita la bella esposizione permanente del Museo Archeologico dell’Alto Adige. Sarebbe andata diversamente se il ritrovamento fosse avvenuto solo qualche passo più in là, perché il confine con l’Austria dista appena 92 metri dal punto in cui i coniugi Simon fecero la scoperta. Ma Ötzi è una mummia italiana, ed è a Bolzano che circa 300.000 visitatori ogni anno pagano il biglietto per conoscere al meglio la sua storia.

Vende anche spille, timbri a forma di Ötzi, custodie del telefono con la figura di Ötzi da vivo così com’è stata ricostruita.

Sono entrato prima di tutto nel negozio (la versione italiana del sito lo chiama «The Shop»), sul lato opposto della biglietteria e dell’inizio del percorso museale. L’accesso al negozio prescinde dalla visita: è possibile non mettere piede nelle sale espositive, non prendere alcun contatto con la storia di Ötzi, e comunque comprare i gadget di Ötzi. Lo spazio è piccolo, si è molto visibili, ma ho deciso di non spiegare il motivo della mia presenza, degli appunti che prendevo. Il negozio vende libri a tema: saggi, volumi di fotografia, romanzi (Omicidio sul ghiacciaio). Vende poster, cartoline (lupi, orsi, cervi). Vende matite a forma di rami scortecciati, penne con la scritta «Ötzi – The Iceman» (3,90 euro), tazze per la colazione («ÖTZICUP»). Vende anche spille, timbri a forma di Ötzi, custodie del telefono con la figura di Ötzi da vivo così com’è stata ricostruita. Vende cuscini imbottiti di trucioli di pino cembro. Vende grembiuli da cucina, bianchi, su cui sono stampate le forme di corde e punte di corno trovate nell’equipaggiamento della mummia.

Il merchandising vende un elemento per venderne un altro.
Nel 1953 il solenne funerale nativo americano di Jim Thorpe, campione dello sport e figura chiave per conoscere gli Stati Uniti, venne interrotto dalla vedova, che si presentò con la polizia in una capanna cerimoniale in Oklahoma e portò via la salma per venderla alla migliore offerente tra le istituzioni. A partire da questa storia ho scritto un libro, quindi riconosco che la mia prospettiva sullo sfruttamento economico di Ötzi è condizionata da un interesse personale che accende determinate luci, e non altre, sul negozio del Museo Archeologico dell’Alto Adige.

Carry with Style

«La cosa che giaceva lì, insomma, non era il nonno, era un involucro» osserva Hans Castorp, da bambino, nella Montagna magica di Thomas Mann.
La prima impressione dell’escursionista Helmut Simon, quando vide i resti di Ötzi, fu che si trattasse di spazzatura, o di un oggetto, una bambola. Lo riporta uno dei pannelli informativi del museo, nella prima sala a cui accedo dopo aver pagato il biglietto.
L’allestimento si sviluppa su più piani. Al primo c’è la mummia, e anche una coda di visitatori in attesa del proprio turno per vederla, affacciandosi a una piccola finestra. Proseguo, e in relativa solitudine osservo il berretto di pelliccia d’orso che Ötzi indossava da vivo e che il suo corpo morto ha indossato fino alla scoperta dei coniugi Simon. E osservo la mantella per ripararsi, i gambali, le scarpe. Perlopiù sono brani di un tutto, ma questo non ne riduce la forza. E ancora, osservo le armi che Ötzi aveva con sé: l’arco, le frecce, l’ascia con la lama di rame, il pugnale in selce.
Più avanti, un contenitore fatto di legno di betulla, leggero, pratico da trasportare. Due chicchi di piccolo farro, rinvenuti negli indumenti che aveva indosso. Quel che rimane di una gerla. Un fungo con funzioni medicinali, infilato in una striscia di cuoio.
Prima di tornare indietro e finalmente affrontare la mummia, visito la sala che espone il cosiddetto «Nuovo Ötzi»: una ricostruzione paleontologica a grandezza naturale, basata sugli studi anatomici sulla mummia. Una figura d’uomo a torso nudo, l’arco in mano, i capelli lunghi e la barba. È l’icona, la rappresentazione di Ötzi che il museo propone fuori dall’edificio per attirare l’attenzione di chi passa, e sulle brochure, e su molti prodotti del merchandising ufficiale. Vicino a me, una bambina brontola nervosamente, la madre la rimprovera, lei sbotta indicando il corpo sulla pedana: «Papà dice che è vero, ma non è vero.»
Poi, la mummia. Al di là del vetro, in una cella frigorifera che riproduce le condizioni del ghiacciaio in cui Ötzi è rimasto per oltre cinquemila anni (6 gradi sotto lo zero, quasi il 100% di umidità, una regolare aspersione di acqua sterilizzata). La mummia è un complesso di ossa, pesa 13 chili in tutto, ha una posizione supina con un braccio in diagonale. Sto a guardarla chiedendomi quale sia il tempo congruo per guardarla – quanto sia poco, quanto troppo – prima di cedere il posto ai visitatori successivi.
So che da anni si discute sull’eticità di esporre resti umani, ciò che tecnicamente si definisce «materiale bio-antropologico». Un motivo di dibattito è se ci sia una profanazione nel gesto di mostrare resti scheletrici o corpi mummificati a un pubblico. Il codice etico dell’International Council of Museums stabilisce che quel tipo di reperti debba essere esposto «con il massimo riguardo e nel rispetto dei sentimenti di dignità umana.»

Non è diverso dai tatuaggi temporanei di Ötzi, che pure sono in vendita: si tratta sempre di integrare una dimensione guerresca, una «primitività».

Alla fine della visita torno nel negozio. Faccio caso a un contenitore di legno di betulla (costa 34 euro) come quello che Ötzi portava con sé. Riconosco le armi del suo equipaggiamento, proposte in una riproduzione inoffensiva: l’ascia, il pugnale, ciondolano appesi a collane come gioielli. O più probabilmente come elementi che, acquistati, fanno acquistare un potere a chi lo indossa. Non è diverso dai tatuaggi temporanei di Ötzi, che pure sono in vendita: si tratta sempre di integrare una dimensione guerresca, una «primitività». Un’altra bambina – non la stessa che protestava davanti al Nuovo Ötzi – indica qualcosa su un ripiano, non faccio in tempo a vedere cosa, e domanda al padre:
«Sono finti o sono veri?» 

Senza sentire la risposta, ricomincio a maneggiare un oggetto che mi era sembrato incomprensibile durante il mio primo giro al negozio. La confezione dice: «Carry with Style» e «Carry Art, Support Artists.» Lo giro di piatto, di taglio, impiego del tempo, ma alla fine capisco che è un portafoglio con l’immagine del Nuovo Ötzi stampata sopra.

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