Quando avevo dodici anni pensavo che Pamela Anderson fosse la donna più bella del mondo. La vedevo ogni pomeriggio correre su una spiaggia assolata della California, i capelli biondi legati in una coda alta, oppure bagnati, che le davano un effetto sirena quando usciva dall’acqua al rallentatore nel suo costume rosso. Aveva un volto dolcissimo, degli occhi che così blu non li avevo mai visti, e un corpo che avrei voluto avere anch’io prima o poi, dopo la pubertà. Pamela Anderson era la donna più bella del mondo, ne ero sicura, ma ogni volta che tiravo fuori l’argomento c’era qualcuno che faceva strane smorfie, o che rideva sotto i baffi alludendo a qualcosa di cui io chiaramente non ero a conoscenza. All’altezza del 1999, in effetti, il nome dell’attrice di Baywatch suggeriva tutt’altro tipo di riferimenti, soprattutto per i miei amici adolescenti maschi. Il-filmino-porno-di-Pamela-Anderson per molti ragazzi di quel periodo aveva segnato un passaggio importante, un’iniziazione. Per altri invece restava una gag popolare, qualcosa da nominare pur senza conoscerla, un tema caldo di cui sembrare esperti, nonostante la prima barba non fosse ancora spuntata del tutto.
mitologia
Ci si filmava. Negli anni Novanta ci si filmava un sacco. Pensate a una pellicola come Giovani, carini e disoccupati: riprendersi su piccole VHS era la nuova forma dell’autonarrazione nonché un tentativo goffo di soddisfare il desiderio di quei quindici minuti di celebrità che sapevamo spettarci di diritto. Si filmava, nonostante tutto, anche chi famoso lo era già, col risultato di finire ad accumulare enormi archivi personali di vita quotidiana. Eccoci arrivati, dunque, all’informazione che mancava alla me dodicenne: solo poco tempo prima, nel 1996, qualcuno aveva fatto irruzione nella villa di Los Angeles dove Pamela Anderson viveva con suo marito Tommy Lee, batterista dei Mötley Crüe. Alla coppia erano stati rubati una serie di oggetti di valore e un mucchio di videocassette amatoriali, tra cui una in cui la coppia faceva sesso su una barca. Nel giro di poche settimane dal suo furto, quel video è diventato uno dei porno più conosciuti e più richiesti della prima era di internet.
Nel giro di poche settimane dal suo furto, quel video è diventato uno dei porno più conosciuti e più richiesti della prima era di Internet.
Anche prima del video rubato, la storia di Pamela Anderson è fino al midollo quella di una ragazza del suo tempo, a partire dalle ambizioni nate all’ombra di una Hollywood che negli anni Ottanta era tornata a lastricare d’oro le sue strade con i grandi blockbuster. Qualcuno ha perfino fatto notare quanto già i suoi primi anni fossero costellati di segni che ne avrebbero predetto il successo: Pam sarebbe stata la prima bambina nata nel giorno del centesimo anniversario dell’indipendenza canadese, e a quanto pare la sua foto in fasce tra le braccia della madre avrebbe fatto il giro della nazione sulle pagine dei quotidiani. Questa coincidenza ha fatto sì che per anni all’attrice venisse affibbiato l’epiteto di “centennial baby”, citato sul sito della Canadian Walk of Fame. Nonostante la notizia sia circolata per anni, i fatti sono stati smentiti solo di recente, quando un’altra donna, certificato di nascita alla mano, si è presentata a reclamare il titolo che le spettava. Quella che potrebbe essere un’altra leggenda metropolitana, difficile da provare, vorrebbe Pam protagonista di una campagna per la lettura diffusa nelle biblioteche pubbliche canadesi, a soli sei anni. Tutto questo non scalfisce, anzi, rafforza la persistenza del desiderio di creare una mitologia di Pamela Anderson che rappresentasse fin dagli inizi la donna come figura d’eccezione, anche a costo di scivolare involontariamente dentro un fenomeno di alterazione della memoria collettiva.
Dopo qualche comparsata in produzioni cinematografiche indipendenti, il successo per Anderson è arrivato dal grande schermo di uno stadio durante una partita di football. La storia fa parte di una delle leggende metropolitane più famose degli anni Novanta, un altro mito fondativo, questa volta verificato: in quell’occasione una telecamera si ferma su di lei, la ragazza bionda e formosa, che appena si vede inquadrata inizia a mettere in mostra il brand di una birra che porta stampato sulla maglietta. È quel gesto spontaneo, forse perfino ingenuo, che permette alla giovane Anderson di diventare il nuovo volto della bevanda alcolica, quel gesto giocoso ma anche un po’ malizioso, che farà in modo che Playboy riesca ad accorgersi di lei per poi offrirle la copertina del numero di ottobre 1989 e un intero servizio nel febbraio 1990: ascesa di una stella ai tempi dei brand e del capitalismo spinto. Ci sono molte interviste che Pamela Anderson ha dovuto subire come un insulto, dopo che la notizia del video rubato aveva fatto il giro del pianeta. In una di queste, sullo sfondo del set di Baywatch, le è stato chiesto se avesse intenzione in futuro di prendere sul serio la carriera da attrice. “I am a serious actress!” era stata la sua risposta, senza calcolare il lavoro dei media, che avevano già cominciato a trasformarla nella caricatura di sé stessa.
Le allusioni a quella specifica sextape nella pop culture sono talmente tante tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei duemila, che potremmo perfino leggerle come una primordiale forma di meme.
Uno degli esempi più eclatanti di questa manipolazione lo abbiamo visto tutti al cinema in Scary Movie 3 (2003), pellicola che parodizzava il cult horror di inizio millennio The Ring. Pamela Anderson è seduta ai piedi del letto in una cameretta da collegiale, insieme a una sua amica (l’altrettanto iconica Jenny McCarthy). Entrambe sono vestite come Britney Spears in Baby one more time, con gonnellini scozzesi molto corti e camicette bianche che lasciano ben in vista il décolleté. Pamela a un certo punto chiede alla compagna se ha sentito in giro di un certo strano film di paura. “Quale?,” chiede l’altra, “Quello in cui lo fanno sulla barca e poi in macchina e poi nella vasca da bagno, e lui dice Baby I love you e lei risponde dove diavolo siamo?”. A quel punto l’illusione tra il personaggio e la donna si sospende, si frammenta, ci passa dentro lo sguardo sbarrato di Pam, ancora chiaramente provata, che tuttavia si ritrova a spostare gli occhi altrove e a dire, seguendo la sceneggiatura: “Not that tape!”. Non quella cassetta, si tratta di un’altra. Ma anche: non quella cassetta, non di nuovo, adesso basta. Le allusioni a quella specifica sextape nella pop culture sono talmente tante tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei duemila, che potremmo perfino leggerle come una primordiale forma di meme (vedi anche: Borat e i Griffin).
Quando penso alla parabola di Pamela Anderson, al modo in cui i media hanno rovinato non solo la sua vita privata, ma anche la sua carriera a causa di quel video rubato, penso anche a come questa storia sarebbe stata diversa se fosse accaduta soltanto una decina di anni prima, nel 1986 invece che in quel 1996, anno in cui grazie a internet si è riusciti a rendere pubblico un video che i distributori tradizionali di materiale a luci rosse non avevano voluto o potuto comprare. Nessuno voleva avere a che fare con quello che era chiaramente materiale rubato, nessuno tranne Penthouse, che aveva offerto alla coppia cinque milioni di dollari, sentendosi tuttavia rifiutare la proposta, in coerenza alla battaglia legale in nome della privacy che Lee e Anderson avevano intrapreso. In un articolo del gennaio 1998, l’Harvard Crimson commentava così l’accaduto:
Internet è una nuova modalità di comunicazione, qualcosa di completamente diverso dal telefono o dal sistema postale. Le leggi che hanno governato fino a oggi il nostro uso dei vecchi media non sono adeguate a rapportarsi alle potenzialità della rete. La privacy delle persone è stata invasa in passato, e il video della famiglia Lee sarebbe stato rubato e distribuito lo stesso anche prima del World Wide Web. La differenza adesso non è solo in termini di magnitudine […] ma anche di tipologia: la rete non è privata né pubblica. La comunicazione su internet necessita di un nuovo sistema di regolamentazione dedicato. In questo modo, almeno, Tommy e Pamela riuscirebbero mantenere moderatamente più privata la loro vita sessuale.
La storia della sextape – un po’ romanzata, ma piuttosto fedele – viene raccontata nella mini serie Pam and Tommy su Disney+, ispirata a un articolo inchiesta comparso su Rolling Stone nel 2014. Lo scorso gennaio le dinamiche della diffusione del video sono state di nuovo discusse nel documentario Pamela – A love story, una versione dei fatti finalmente autorizzata dalla sua protagonista. In entrambi i racconti, sia nella serie che nel documentario, la vicenda dei coniugi Lee incrocia la strada di un personaggio rivoluzionario degli anni Novanta per quanto poco conosciuto, il giovanissimo internet wunderkind Seth Warshavsky, fondatore dell’Internet Entertainment Group. La società aveva in mente un settore ben preciso nella parola ‘entertainment’, IEG infatti detiene il primato di aver creato il connubio tra internet e mercato pornografico usando la rete come canale di distribuzione.
Warshavsky aveva cominciato a lavorare come imprenditore nel mondo della pornografia a soli diciannove anni. Aveva preso in prestito settemila dollari e insieme a un amico aveva creato la linea telefonica erotica 1-800-GET-SOME. Dopo aver fatturato circa sessanta milioni di dollari in pochi anni, nel gennaio del 1996 – lo stesso periodo del furto della cassetta di Pamela e Tommy Lee – il giovane imprenditore si era aperto al mercato nascente di internet. Il primo di quelli che sarebbero poi diventati almeno tremila siti pornografici gestiti da IEG si chiamava Clublove.org, il suo quartier generale era a Seattle e gli studi erano popolati da centinaia di ragazze che si spogliavano on demand davanti alle telecamere collegate ai computer degli utenti in collegamento da casa, un esercito di camgirl impiegate in una versione molto primordiale dell’attuale OnlyFans. Warshavsky è stato un genio visionario dell’imprenditoria online e anche uno che amava provocare e scandalizzare. Durante il periodo dell’impeachment nel 1999, offrì tre milioni di dollari a Monica Lewinsky se avesse accettato di posare nuda e parlare alle telecamere della sua relazione con Bill Clinton. Era un uomo che amava stare sul pezzo e sapeva farlo. Quando mise le mani sul sextape di Pamela e Tommy quello che fece fu organizzare uno streaming di circa cinque ore su tutti i suoi canali, dando vita al primo video virale della storia di internet. Molte persone in quel periodo fecero accesso alla rete per la prima volta pur di vederlo. Stanchi e sfiniti dal non poter avere il controllo sul materiale rubato, i coniugi hanno infine ceduto tutti i diritti a IEG. Alla luce dei fatti, la star di Baywatch è stata la prima celebrità degli anni Novanta ad aver fatto esperienza di quello che sarebbe diventato il web, quando ancora non se ne conoscevano del tutto le potenzialità e le contraddizioni. La sua storia, in un certo senso, ha inciso sul modo in cui la rete stessa è stata usata, nel bene o nel male, o forse ne ha semplicemente accelerato gli esiti, trovandosi nel posto sbagliato al momento giusto.
chi è pamela?
Non so con sicurezza che fine abbia fatto Warshavsky. Qualcuno dice che sia in Thailandia, al riparo dall’FBI che gli sta alle calcagna per non aver mai pagato ai Lee i soldi che gli spettavano. Pamela invece è tornata a casa, a Ladysmith, nella British Columbia, dove ha dismesso i tacchi a spillo e ha iniziato a sporcarsi le unghie laccate di terra, nel tentativo di rimettere in sesto la casa che una volta era appartenuta a sua nonna. L’impresa, ovviamente, è diventata un reality show – Pamela’s Garden of Eden, che HGTV ha rinnovato con una seconda stagione in streaming dallo scorso 2 Novembre su diverse piattaforme. È difficile collegare queste bucoliche immagini di Pamela ai momenti più iconici della sua carriera, o almeno quelli che ci hanno fatto passare come tali. La verità è che Pamela Anderson è stata sempre molto più di quello che i media hanno voluto raccontare. Negli ultimi vent’anni l’abbiamo vista sui tabloid sposarsi e divorziare due volte da Tommy Lee, legarsi ad altri uomini – sempre sbagliati –, ma anche diventare amica di Julian Assange, manifestare come attivista del PETA e presenziare a conferenze come alleata LGBT+. L’ultima è stata presentarsi alla scorsa Paris Fashion Week senza trucco, col volto completamente al naturale, incoraggiando le donne ad abbracciare i segni del tempo visibili sul loro volto, come già aveva fatto in alcuni dei suoi post su instagram. In quell’occasione mi sono ritrovata a riflettere sull’essenza di quella bellezza che trovo intatta in lei ancora oggi, una bellezza che – mi sono resa conto – non ha mai avuto a che fare del tutto con l’aspetto, ma che piuttosto proprio a causa di esso è sempre finita col risultare meno visibile.
Negli ultimi vent’anni l’abbiamo vista sui tabloid sposarsi e divorziare due volte da Tommy Lee, legarsi ad altri uomini – sempre sbagliati –, ma anche diventare amica di Julian Assange, manifestare come attivista del PETA e presenziare a conferenze come alleata LGBT+.
Per molti anni la ex Playmate si è imposta come icona postfemminista, una donna che ha usato il proprio corpo per fare carriera facendosi portatrice di un’estetica femminile aggressiva, fatta di trucco marcato, abiti succinti e impianti al seno esageratamente grandi. Dal giorno in cui una telecamera si è soffermata su di lei facendola conoscere a uno stadio intero e poi al mondo, è come se il corpo di Anderson avesse introiettato tutti gli sguardi maschili e i loro desideri, trasformandosi e presentandosi affinché questi fossero soddisfatti, pur mantenendo una forma apparente di controllo. Un esempio emblematico di questa rappresentazione viene dal 1999, quando su Mtv comincia a girare il video di Miserable di una band pop punk chiamata Lit. I membri del gruppo vengono ripresi mentre suonano sul corpo di Pamela in versione gigante, mentre lei se ne sta distesa su un tappeto. I musicisti le passeggiano sui seni, sul sedere, le arrivano fin sopra alla cotonatura dei capelli, il cantante le finisce perfino dentro un orecchio. Quasi alla fine della canzone, stanca della performance, la donna si alza e mangia i membri della band a uno a uno come fossero patatine. Inutile spiegare la metafora.
Riflettere su quello che il caso Anderson ha mostrato in quegli anni significa anche fare i conti con un’idea di potere femminile che ancora oggi solleva molti dubbi, soprattutto in relazione all’uso dei social media. Si può chiamare emancipazione, quando si sceglie di giocare restando dentro le regole del male gaze? Si può parlare di autodeterminazione se la strada più sicura per il successo comporta l’adesione a un modello estetico predisposto da altri? E infine, fino a che punto usare il corpo in un certo modo può considerarsi una scelta quando non ci sono alternative oppure non le si conosce?
Si può chiamare emancipazione, quando si sceglie di giocare restando dentro le regole del male gaze?
Quello che nell’ultimo periodo ci sta rivelando la nuova narrazione di Anderson è una vulnerabilità che la donna ha tenuto fuori dalla sua persona pubblica per molto tempo. Vittima di abusi da parte della babysitter e a 12 anni violentata da un uomo di 25, per la futura attrice diventare padrona del proprio corpo e della propria sessualità è stata l’unica alternativa per redimersi da una condizione di vittimismo che si rifiutava di incarnare (del resto, secondo la cultura patriarcale, la donna può essere vittima angelicata o intraprendente provocatrice, quindi in parte responsabile per la violenza subita).
L’intelligenza, l’ironia, la spontaneità, la disposizione di Pamela alla comprensione dell’altro sono elementi rimasti sotto traccia, ma che stanno emergendo negli ultimi anni. Da qualche tempo l’attrice cura anche una newsletter che riempie di riflessioni a partire da poesie e aforismi filosofici (cita Fellini, Socrate, Shakespeare, Maya Angelou, tra gli altri). A volte rapporta tutto alla propria esperienza, altre volte si sofferma su questioni più universali, di spunto ecologista e antispecista. Sono pensieri spontanei, frammenti che si susseguono senza una logica precisa, come sulle pagine di un diario privato, quello che di fatto il titolo Open Journal vuole suggerire. Una delle ultime volte in cui mi è capitato di leggerla, mi sono imbattuta in questa frase: “In the end we all become stories”. Mi è stato impossibile allora non pensare al modo in cui oggi l’attrice stia usando la rete per riscrivere se stessa, lontana da quella Hollywood che per troppo tempo ha provato a fare soldi con i suoi traumi.