02.07.2024

Cosa cerchiamo dietro il paesaggio di una fotografia di montagna?

È cambiato il nostro modo di osservare la vetta: da luogo del mistero a nemico da sconfiggere. Per raccontare il panorama e la propria esperienza

Nel 1336 Francesco Petrarca e il fratello Gherardo salirono sul Monte Ventoso, un gruppo montuoso della Provenza, compiendo un lungo e difficoltoso sentiero. Una volta in vetta, Petrarca avrebbe letto un passo delle Confessioni di Sant’Agostino, aperte in un punto a caso, trovando queste parole: “Eppure gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell’Oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano se stessi.1 

L’uomo del Trecento, come l’uomo contemporaneo, si è sempre trovato di fronte, più o meno consapevolmente, a questo conflitto: (a cosa) serve, davvero, scalare una montagna? E perché si sente la volontà di farlo? Interrogativi che si potrebbero far risuonare per un momento in tutte le orecchie, come un’eco, dei nuovi grandi appassionati del mondo montano, alpinisti e turisti di panorami. È cambiato in modo sostanziale, infatti, il modo di intendere la montagna nel corso dei secoli, ma non il quesito sostanziale, quello a cui ognuno risponde senza saperlo quando indossa gli scarponi e si avvia per il nuovo viaggio.

Da simbolo a panorama

Ovviamente, quando si dice “è cambiato il modo di intendere la montagna” significa anche, ma qui è bene ribadirlo per il nostro discorso, che non solo è cambiata la struttura dialettica attorno al tema, ma che si è contemporaneamente trasformata l’intenzione e la modalità di rappresentarla in immagine. Oggi, lo ricorda anche Reinhold Messner con tono accigliato, “i viaggi-avventura, gli sport estremi, le vacanze attive sono sempre più in voga2, segno che la montagna ha avuto, nel corso dei secoli, una deviazione di significato sempre più netta, da luogo simbolico a paesaggio panoramico, da tramite necessario per il rinnovamento della coscienza o per una comunicazione con un’altra dimensione, spesso divina, a punto di arrivo. Possiamo anche dire che la montagna sia diventata una vetta da raggiungere per l’attestazione delle proprie abilità, e perfino materia geologica da analizzare. 

Il primo vero scopo della fotografia di montagna, infatti, è stato appunto quello dell’analisi scientifica delle rocce e quello di una definizione cartografica più dettagliata: con fotogeologia si intende proprio quel genere di fotografia che prese piede già nella seconda metà dell’Ottocento coinvolgendo esploratori, scienziati e alpinisti. Non a caso è in questo periodo storico che troviamo una certa quantità di figure che incarnano da sole tutte queste professioni, da Herbert Ponting a Vittorio Sella, mentre altre, come Timothy O’Sullivan o i fratelli Bisson, hanno invece preso parte a numerose spedizioni di ricerca scientifica e antropologica. 

Da menzionare sono le immagini che ritraggono il Monte Bianco a opera dei Bisson, o quelle della spedizione del 1873 nel Canyon De Chelly nel lontano west americano realizzate da O’Sullivan. Salire sulla cima di un monte, allora, significava scoprirne la fisionomia, la composizione, ritrarlo per studiarne il profilo, archiviarlo come un dato d’indagine. 

In una vertiginosa parabola che vede la montagna trasformarsi dal punto più vicino all’uomo per accedere al mistero, a pura roccia – negli anfratti montani, infatti, in età medievale si credeva risiedessero creature misteriose e fantastiche, come la Sibilla Appenninica – la fotografia ha contribuito in modo sostanziale a fondare un nuovo immaginario e un codice estetico tutto moderno. Proprio sul valore intrinseco e assoluto della sola roccia, infatti, grandi autori come Ansel Adams hanno voluto ragionare guardandola come puro volume immenso – “Il mondo esterno non è fatto che di forme” – compiuto in sé stesso, anche se non fosse davvero “l’accesso al mondo inferiore” – altra credenza medievale, come ricorda Jacques Le Goff3 – o se non dovesse portare da alcuna parte.

Questo aspetto in particolare è stato sollevato inconsapevolmente da ogni fotografia di montagna: scoprire l’evidenza che là dove punta il proprio sguardo non abita il fantastico, o non è semplicemente visibile, mentre è la montagna stessa a diventare il soggetto della meraviglia – forse anche l’altrove – che l’occhio cerca. 

Da luogo di mistero a esperienza da vivere, dunque: addirittura la direzione dello sguardo di chi arriva in vetta è mutata nei secoli. Se oggi si sale per guardare l’orizzonte, o per stupirsi delle nuove proporzioni che ha assunto, giù in basso, il nostro mondo, Mosè saliva per guardare ancora più alto, ricevere gli ordini sacri per governare il popolo d’Israele fuggito dall’Egitto4. Il monte era il luogo per la comunicazione col divino, e vi si saliva, soli, per ascoltare una voce che sarebbe stata pronunciata soltanto lì.  Oggi a parlare è l’azione dell’uomo, protagonista di un’impresa che vede nella sua scalata il compimento di una mitologia tutta terrena: il rapporto uomo-montagna-Dio diventa così quello che noi oggi conosciamo come il confronto diretto uomo-montagna, là dove la montagna diventa Altro per eccellenza, a volte un nemico da fronteggiare e imparare a conoscere, a volte il duro specchio dei propri limiti e timori.

Se oggi si sale per guardare l’orizzonte, o per stupirsi delle nuove proporzioni che ha assunto, giù in basso, il nostro mondo, Mosè saliva per guardare ancora più alto, ricevere gli ordini sacri

Un nemico tutto sommato indifferente

In un articolo uscito di recente su Il Sole 24 Ore, l’alpinista nepalese Nimsdai Purja, che ha realizzato la scalata delle 14 vette di ottomila metri in neanche sette mesi (il record precedente era di sette anni), si racconta al giornalista Luca Benecchi: “Non credo di essermi mai posto in modo arrogante davanti alla montagna perché questa è la cosa che ho imparato nella mia carriera di soldato. Non sottovalutare mai il tuo nemico.” Confermando l’attitudine contemporanea di molti alpinisti a fare riferimento al proprio rapporto con la montagna come a una “vittoria da conquistare” e a una vera e propria “sfida” (sempre parole di Purja). 

In mezzo a queste due differenti prospettive, nell’immaginario fotografico continuano a esserci le rocce, come a voler riprodurre e riportare su un’altra scala il dialogo uomo-montagna in quello osservatore-immagine

“Il fotografo ha iniziato a ritrarre la montagna perché non poteva fotografare la Luna.” Ricordo la frase di Italo Zannier, uno dei più grandi storici italiani della fotografia, pronunciata in merito alla sua impresa di risalire il lungo sentiero, ormai quasi dimenticato, per Palcoda, borgo abbandonato del Friuli-Venezia Giulia. La montagna allora pare essere da sempre vista come un mondo straniero, in cui vigono leggi diverse da quelle che regolano la dimensione in cui siamo soliti muoverci e respirare: per questo, forse, attraverso l’iconografia fotografica, se ne sono sempre celebrate le fisionomie, come per catturare i lineamenti di un gigante, oltre che per un più semplice motivo di ricerca geologica. Quasi, se vogliamo, a voler costringere nel rettangolo inquadrato tutti i dettagli che possono rientrarvi del suo corpo che appare incontenibile. 

Il mistero, in questo lento processo, è diventata allora la montagna stessa e non più ciò che poteva significare attraversarla: è essa stessa il soggetto, nelle immagini dei grandi che abbiamo nominato, che racconta la sua stessa storia. Tolta la mitologia che la rendeva scenario di altre vicende, e pressoché scomparsa l’asserzione cocente di Sant’Agostino dalle menti dei nuovi viaggiatori, la fotografia ha potuto consacrare le fattezze naturali della roccia, ora interpellate direttamente. La montagna, celebrata così nella sua esistenza indipendente, nelle sue strutture aliene, ha dato vita a una vera e propria estetica a sé stante, a un modo di contemplarla, quasi di rivolgersi a lei, personificata, come a una vera divinità. 

L’uomo diventa eroe, la montagna un dio: gli estremi del nuovo mito. Ed è sui cartelloni pubblicitari affissi nelle città che si può rintracciare il nuovo motore della trama e del viaggio, il nuovo interrogativo che soppianta l’evidenza agostiniana: “Ti sei mai sentito in cima al mondo?”5 che fa dell’arrivo in vetta l’evento immancabile, la sensazione da provare a tutti i costi per il solo motivo di viverla. “Sono tutte avventure metropolitane […] per provare a se stessi il proprio coraggio, per assaporare il brivido.”6

Non più grazie agli aedi, non più cantando le gesta di altri: la tradizione orale che fa vivere ogni epica odierna diventa quella della propria stessa voce al ritorno del viaggio, attraverso il racconto della propria esperienza; un cerchio narrativo che ci si costruisce da soli, come un recinto.  

Quando è l’uomo a prevalere nella storia, e non la montagna, la riverenza quasi timorosa e celebrativa si trasforma nella volontà di dominare un nemico tutto sommato indifferente a chi lo affronta, e per questo ancora più tremendo. 

Come puro atto contemplativo, invece, la fotografia porta la montagna sulla carta della stampa rendendone possibile l’esame delle linee, atto che diventa, per molti autori, quasi sacerdotale. Sempre in riferimento all’opera di Ansel Adams si legge in un testo critico di Alice Gray: “Nella tradizione di Walt Whitman e Ralph Waldo Emerson, Adams credeva nel potere di redenzione spirituale del paesaggio intoccato, sentendo che gli esseri umani possono capire meglio il proprio mondo e se stessi se si vedono in proporzione con e non in opposizione alla natura.”7

È con l’immagine e con lo sguardo diretto che diventa possibile interpellare la roccia e svelarla del tutto. Così come reinventare il nostro posto rispetto a lei, forse invertire i ruoli del dialogo.

  1. 1. Sant’Agostino, Le Confessioni, X, 8, 15 ↩︎
  2. 2. Reinhold Messner, La vita secondo me, Corbaccio, 2014 ↩︎
  3. 3. Jacques Le Goff, L’immaginario medievale, Laterza, 2011 ↩︎
  4. 4. Esodo, 19, 3 ↩︎
  5. 5. Slogan tratto dal manifesto pubblicitario dell’agenzia di viaggi WeRoad. ↩︎
  6. 6. Reinhold Messner, La vita secondo me, Corbaccio, 2014 ↩︎
  7. 7. Alice Gray, Ansel Adams – The National Park Service Photographs, Abbeville Publisher, 2004 
    Testo originale: “In the tradition of Walt Whitman and Ralph Waldo Emerson, Adams believed in the spiritually redemptive power of the untouched landscape, feeling that human beings best understand their world and themselves if they see themselves in proportion with, rather than in opposition to, nature.” ↩︎

Le immagini per l’articolo sono state prese dalla mostra “Luce della montagna” che ha avuto luogo nel 2023 al Museo di Santa Giulia di Brescia a cura di Filippo Maggia e dal relativo catalogo pubblicato da Skira Editore.

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