La rappresentazione dei temi legati alla religione cristiana ha da sempre potuto basarsi sulla trasfigurazione dei soggetti umani che la ispiravano: che fosse un dipinto o una scultura, il soggetto sacro prendeva sostanza nell’atto effettivo della sua nascita tra i colori o dalla materia grezza, diventando effettivamente figura “altra” rispetto a chi le aveva prestato forma e lineamenti. Per citare un esempio noto, quando Caravaggio prende come modella la prostituta per dipingere la Morte della Vergine – anticipando George Bataille di più di tre secoli – sebbene si distacchi dai canoni iconografici della rappresentazione di Maria, porta lo spettatore a vedere la Madonna circondata dagli Apostoli piangenti, e non la donna terrena che ha ispirato la sua fisionomia.
La fotografia, diffondendosi su larga scala fino a oggi, ha imposto un modello figurativo che poggia per certi aspetti su basi teoriche molto diverse da quelle delle arti classiche, ovvero su un accordo inviolabile col mondo reale, con la materia concreta. Tutto, in fotografia, sebbene possa essere trasformato con interventi successivi allo scatto, viene generato da un primo contatto dello sguardo del fotografo con la realtà che lo circonda, rendendo il suo operato più una derivazione dai dati immanenti che una pura invenzione creativa.
Come rappresentare un angelo?
Non ci si stupisce, quindi, del fatto che esistano pochissimi esempi di autori che abbiano dato forma, nel proprio lavoro, ai temi legati alla cristianità, dal momento che il primo ostacolo, anche volendo, è proprio quello di non poter operare lo stesso processo di trasfigurazione del soggetto: non posso fotografare un angelo, o Cristo, se non mi compare davanti agli occhi, se non lo incontro per strada, se non mi si manifesta come dato visibile.
Oltre al dato tecnico, la crescente laicizzazione dell’Occidente e la cesura netta tra l’uomo e i simboli religiosi permettono forse di inserire la nascita della fotografia in un’onda più generale di trasformazione del pensiero dell’uomo. Come se la fotografia ne avesse sancito la nuova direzione dello sguardo, svincolato ormai dalla ricerca della perfetta raffigurazione del sacro.
Questo distacco pressoché totale da parte dell’uomo e, dunque, dell’artista dall’argomento biblico pare il frutto diretto di quanto Nietzsche definì con l’espressione nota della “morte di Dio”, e che Umberto Galimberti, circa un anno fa, spiegava in modo molto chiaro: “Se noi guardiamo il Medioevo […] vediamo che l’arte è arte sacra, […] la donna è donna angelo, Dio c’è. Se tolgo la parola “Dio” dal Medioevo non capisco più niente, ma se tolgo dal contemporaneo la parola “Dio” capisco ancora tutto. Non capirei nulla se togliessi la parola “denaro” o “tecnica”. Quindi, Dio è morto.”
È chiaro che la lettura del reale non avvenga praticamente più attraverso i messaggi della dottrina cattolica, e che per questo motivo l’arte abbia trovato altrove nuovi simboli di cui nutrire la propria interpretazione del mondo. Ed è proprio la fuoriuscita quasi totale dal sistema della rappresentazione artistica dell’argomento religioso che può venire spontaneo interrogarsi sulle possibilità del linguaggio fotografico. Anche volendo, può un fotografo inventare un proprio stile iconografico per rappresentare un angelo, un profeta, un apostolo senza immortalare solo dozzinali messe in scena?
La possibilità di trasfigurare il modello umano – vedi l’esempio di Caravaggio – in fotografia apparentemente cessa di poter essere effettuata, dal momento che chi viene immortalato non può mai davvero smettere di essere se stesso: i simboli in fotografia nascono ben saldi ai soggetti che li generano. Si pensi alla Migrant Mother1 di Dorothea Lange, o alla bambina rannicchiata accanto a un avvoltoio immortalata da Kevin Carter nel 1993 (The Vulture and the Little Girl), in Sudan: l’icona, in fotografia, nasce il più delle volte da un’espressione e una postura precise di una persona specifica, diventando così soprattutto veicolo di conoscenza prima ancora di associazioni metaforiche lontane dal soggetto che l’ha generata – se sappiamo qualcosa in merito alla Dust Bowl americana degli anni ‘30 è indubbiamente anche grazie allo scatto della Lange.
I rari esempi di rappresentazione religiosa in fotografia sono il più delle volte esercizi intellettuali, ridondanti citazionismi, o strumenti per parlare di altro, magari di temi legati al contemporaneo. Uno degli esempi più famosi è indubbiamente il lavoro di David La Chapelle, in cui la cultura contemporanea dialoga con scene di carattere cristiano prese in prestito dalla Storia dell’Arte dando vita a immagini in cui, usando le parole del giornalista Alessandro Beltrami: “Michelangelo o Botticelli e i languori dell’erotismo pubblicitario s’incontrano in una dimensione favolosa e kitsch”. (Per l’articolo completo rimando al link); o il lavoro di Andres Serrano del 1989 noto come il Piss Christ, opera profondamente controversa sui temi della cristianità; o ancora le rivisitazioni di Duane Michals, in cui il quotidiano viene visitato da un Cristo contemporaneo che piange di fronte a una donna deceduta per un aborto illegale (1981).
Altrimenti, come si diceva, i tentativi si riducono all’effetto della messa in scena, spesso con un vago sapore teatrale e pasoliniano, in cui l’incantesimo contemplativo si spezza per il solo fatto di sapere le persone reali e intente a recitare una parte.
Toccando il tema da un altro fronte, si può evidenziare come la fotografia, dai suoi esordi, sia stata attratta da un tema direttamente speculare, guardando da vicino, se non gli angeli, l’effetto umano che la tradizione cultuale ancora esercita sui fedeli – si pensi alle esemplari immagini delle celebrazioni religiose in Sicilia di Ferdinando Scianna. Si può dire forse allora che la fotografia, per adesso, abbia trovato la carne del fedele e non più il volto di Dio; il costato che può mostrarci è quello del bambino portato in processione dalle donne siciliane, Maria una statua trasportata per le vie strette di un paese gremito di credenti in festa.
Il fotografo diventa dio
Quando Nietzsche proclamava ne La Gaia Scienza e in Così parlò Zarathustra che Dio era morto – “Dio è morto e il nostro mare è di nuovo aperto, forse non ci fu mai un mare così aperto.” – era il 1882, la fotografia aveva ufficialmente quarantatre anni. Dal 1839 lo sguardo dell’uomo aveva iniziato a diventare tecnico, preda e predatore del mondo, mentre il mondo diventava memoria, forma visibile a cui dover dare senso e significato a partire, appunto, dal solo atto di guardarlo e registrarlo. I nuovi simboli hanno iniziato a trovarsi per terra, o nell’aria, la realtà intera pare essersi chiusa entro i confini degli elementi visibili, nell’uomo stesso che li vede.
Dal 1839 lo sguardo dell’uomo aveva iniziato a diventare tecnico, preda e predatore del mondo, mentre il mondo diventava memoria, forma visibile a cui dover dare senso e significato a partire, appunto, dal solo atto di guardarlo e registrarlo.
“Non dovremmo forse diventare divinità semplicemente per esserne degni?” Proseguendo la cerimonia funebre, il filosofo tedesco apre la strada per considerare tutto ciò che è diventata oggi la rappresentazione, anche quella fotografica. Se, infatti, leggendo un articolo di qualche anno fa di Alberto Viganò su “Arte Cristiana” si apprende come tra il Medioevo e il Rinascimento la fede funzionasse anche come valore estetico: “L’artista concorre a creare il bello con le cose create belle da Dio”, si comprende quanto, tolto il fattore “Dio” dall’operare dell’artista, l’uomo stesso sia diventato il creatore – si legga “dio” – del suo personale messaggio, di quanto gli accade sotto gli occhi, e di quanto, di conseguenza, decida anche di immortalarne entro i margini di un’immagine con una macchina fotografica.
Ma il fotografo, nel momento in cui ha indossato i panni del dio, ha ottenuto ben poco potere oltre alla possibilità di aprire gli occhi su quanto lo circonda, di registrare e interpretare, distinguere al massimo cosa è bene e cosa è male, prendere una posizione. Appare in fondo come un dio decaduto, quasi impotente.
Può la fotografia far diventare una prostituta la Madonna? Può una persona specifica, nello scatto fotografico, essere trasfigurata – perdere la propria specificità – per diventare altro, in questo caso l’”altro” cristiano?
Se la risposta fosse affermativa, allora si potrebbe dire non solo che anche la tecnica possa in fin dei conti cercare Dio, ma anche che Dio può essere un soggetto fotografabile, rintracciabile nei dati del reale, a loro volta riscoprendosi soggetti “trasfigurabili”.
L’assenza generale tra i fotografi, specialmente contemporanei, di un approccio di ricerca sui temi del sacro cristiano – in favore di una più estesa volontà di documentazione sociale (reportage) e/o di indagine del sé – fa cadere nel vuoto molto approfondimento condotto in questa direzione.
Nessun profeta, quindi, né apostolo, o arcangelo, in fotografia?
Anch’io, come fotografa, ho provato a dare forma a una risposta partendo da queste riflessioni. A volte servono pochissimi elementi per ravvisare in uno spazio le figure che si stanno cercando: al buio – che in fotografia si chiama, e diventa, nero – basta vedere un gesto, un arto proteso per uccidere o quello abbandonato senza vita, per ricomporre tutto il resto, rimasto inghiottito dall’ombra. I volti non servono, anneriti anche loro dall’oscurità dello spazio in cui si trova in posa il corpo del modello. Dare luce unicamente a quei dettagli che possono reggere da soli il peso del racconto significa eliminare tutti quelli che si crede non occorrano: la fotografia, infatti, si può dire che si basi su un metodo di sintesi – il fotografo sceglie sempre cosa includere e, soprattutto, cosa escludere, lasciare fuori, dall’inquadratura – e la sintesi è sempre un sacrificio delle parti che si ritengono superflue. In questo modo, sacrificando quasi tutto – scenografie, volti, intere porzioni di corpo – e usando un unico modello per tutte le figure, scene, gesti, ho tentato di far emergere gli unici dettagli che potessero raccontare la Pietà, o la Deposizione. Un solo corpo può bastare per vedere un angelo, Giacobbe, Maria: trovare il simbolo rinunciando al soggetto. Togliere, allora, o mostrare poco, può significare a volte anche riuscire a vedere: è il fatto di saper esistere, di fronte a sé, un corpo vivo e in movimento, e il suo rivelarsi altro, a confermare il realismo di ogni immagine, a far avvicinare la fotografia all’invenzione, a rispondere alla domanda contenuta nei versi di David Maria Turoldo: “E io a domandare alle pietre agli astri/ al silenzio: chi ha veduto Cristo?” (Itinerari).
Togliere, allora, o mostrare poco, può significare a volte anche riuscire a vedere.
Si creda per un momento che il fotografo possa davvero sfidare i limiti teorici della fotografia, superare e rovesciare la sua ragione tecnica: trasformare l’uomo in angelo, trovare magari nel mondo reale tutto ciò che finora gli è sempre sfuggito.