Fino a qualche anno fa, Marzamemi non era altro che un borgo nella Sicilia Orientale. Con i suoi ben 3 metri di altezza sul livello del mare e un pugno di abitanti, i Marzamaroti, è divenuta famosa negli anni per la tonnara seicentesca e la lavorazione del pesce. Poi è accaduto qualcosa su quella piazzetta dai tetti bassi. Le sedie sono state dipinte di blu, i commercianti hanno montato file di lucine a fendere il buio e l’aria ha iniziato a impregnarsi di odore di fritto.
Sul finire dell’estate scorsa un turista filma lo scoppio delle fogne, spuntano parcheggi su terreni in affitto, cumuli di immondizia crescono sulle strade, i prezzi dei ristoranti lievitano. «Per noi residenti ad Agosto diventa impossibile vivere» mi scrive una ragazza. Marzamemi è l’esempio del turismo figlio della cultura estetica dei social, di un “effetto cartolina” digitale che ha trascinato qui milioni di persone venute a vedere il miracolo del piccolo borgo di pescatori trasformato in piazzetta di Instagram. Se il turismo non dovrebbe avere interesse a distruggere i suoi luoghi, perché di quelli si nutre, che ne sarà allora di Marzamemi?
Fino all’800 viaggiare era una cosa da ricchi e ricchissimi. Erano in pochi a potersi permettere il lusso di spostarsi per divertimento o per lavoro. Thomas Cook, fondatore della prima agenzia di viaggio della storia, segnò il punto di svolta tra Grand Tour e Turismo. A lui sono attribuiti i primi viaggi “di massa”, come quello del 1851 durante il quale 150.000 persone si recarono alla Grande Esposizione di Londra.
Da quel momento i viaggi, che per lungo tempo furono ancora appannaggio di una nicchia alto-spendente, si estesero a un pubblico sempre più ampio. L’industria dell’ospitalità e del turismo assunse tratti ben delineati, con uno sviluppo repentino e sempre più organizzato.
Da viaggi saltuari a spostamenti cronici, anche per brevi periodi, con spese modeste, affrontabili economicamente da fasce di popolazione sempre più ampie, che viaggiano per i motivi più disparati. Che sia piacere, lavoro, affari, questioni famigliari, motivi religiosi o culturali. Nel 2013 secondo World Tourism Organization viaggia più di un miliardo di persone.
Secondo lo stesso studio, in una proiezione poi smentita dal Covid, i turisti nel 2020 sarebbero diventati 1,3 miliardi, nel 2030 1,8 miliardi, con una quota consistente di turisti in arrivo in Europa (è il 57% nel 2000) destinata a spostarsi verso l’Asia (nel 2030, secondo questa stima pre-pandemica, l’Europa passa al 41% e l’Asia fa un salto dal 16 al 30%). L’impatto della pandemia è stato devastante sul mondo dell’ospitalità. Questo ha determinato un forte effetto “revenge travel” una smania da viaggio “vendicativo” pianificato per compensare i viaggi saltati a causa delle restrizioni.
Nel linguaggio comune i termini “vacanza” e “viaggio” vengono utilizzati in modo sovrapposto. Entrambi con origini antichissime, hanno in realtà significati diversi. La vacanza è intesa come periodo di pausa e svago tra due intervalli lavorativi. Il viaggio invece è libero da vincoli temporali e indica lo spostamento da un punto A e un punto B per svariate ragioni. Nonostante queste differenze, in questo pezzo il termine viaggio verrà utilizzato per indicare anche la vacanza e tutte le estensioni del concetto di spostamento, turismo, viaggio metaforico, per come le intendiamo oggi.
Il mondo digitale in tutte le sue sfaccettature, dai supporti, alle app, ai social network, ai siti di reviews, all’influencer marketing ha cambiato in modo irreversibile questo settore, tanto che oggi è difficile immaginare una qualsiasi declinazione del viaggio che non sia un viaggio digitale. Dalla nascita delle agenzie di viaggio online (Booking ed Expedia vengono fondate nel 1996, Airbnb nel 2007), alle compagnie aeree low-cost (la prima è la Laker Airways nel 1966, segue nel 1967 la Southwest Airlines. Ryanair arriverà nel 1984, Easy Jet nel 1995), fino ai siti che aggregano e comparano offerte di viaggio (Skyscanner è del 2001), il panorama dei servizi digitali che hanno reso il viaggio più semplice e più accessibile, ma soprattutto più autonomo sono tantissimi.
L’interazione digitale è presente in qualsiasi momento del processo di viaggio, dalla preparazione al rilascio di visti, dalle prenotazioni agli spostamenti, fino alla condivisione sui social di consigli, itinerari e racconti, per poi arrivare alla fase post viaggio, con le recensioni su portali specializzati o la condivisione della propria esperienza su canali più o meno popolati. L’esperienza del viaggio offline è inseparabile da quella del viaggio online, sia come amplificatore del viaggio stesso, sia come insieme di funzionalità pratiche e logistiche che rendono il viaggio efficiente, sicuro e spesso più vantaggioso in termini economici.
Questa ingegnerizzazione digitale del viaggio porta con sé qualche inconveniente. Se è vero che in ogni parte del mondo una connessione è utile per fare un pagamento o prenotare la prossima escursione, è anche vero che la continua esposizione all’universo online è il filo sottile che mina il concetto stesso di vacanza come momento di compensazione. L’iperconessione è il nemico numero 1 di qualsiasi viaggio. Chat di lavoro, mail che arrivano secondo fusi orari non sincronizzati, notifiche e urgenze dell’ultimo minuto, inquinano l’immaginario del viaggio da favola in cui rigenerarsi e spogliarsi delle abitudini casalinghe con i piedi nella sabbia e la fronte baciata dal sole.
Nel 2013, secondo World Tourism Organization hanno viaggiato più di un miliardo di persone.
Per reagire a questa reperibilità forzata sono nate offerte turistiche misurate sull’immaginario della “disintossicazione digitale”. Negli anni le formule detox e fuori rete hanno acquisito identità sempre più frastagliate, più o meno posticce, alimentando il mito della disconnessione dalla società per immergersi in una natura idealizzata e romantica. Hotel senza connessione, senza Tv e altri devices hanno colto la palla al balzo per formulare pacchetti che assicurano un riparo dallo stress. Nel 2018 un hotel di Livigno promosse la “detox box”, la scatola in cui gli ospiti lasciavano il proprio smartphone appena arrivati, offrendo uno sconto al momento del check out a chi non aveva ricadute.
Tuttavia la narrazione del viaggio disintossicante, come manifestazione di una “media resistance” sembra fare acqua da tutte le parti. In generale la detox culture ha portato alla creazione di comportamenti paralleli ugualmente tossici e scarsamente collegati con la libera scelta. Senza contare che oltre alle spa, i ritiri yoga, i glamping e i costosi retreat, c’è un accesso più semplice ma meno confortevole al mondo dei viaggi disconnessi, come i cammini e i viaggi spirituali, modelli di viaggio atavici che oggi hanno acquistato una nuova credibilità. Per fare un paragone con l’industria alimentare, Washington Post riporta che secondo stime di mercato i prodotti detox (tisane, erbe, succhi, pillole) raggiungeranno nel 2026 un fatturato di 26 miliardi di dollari. Sarà lo stesso anche per le destinazioni dove staccare la spina?
Oggi sembra impossibile immaginare un’epoca in cui il viaggio si compiva esclusivamente offline. Eppure si viaggiava anche prima di Google Maps, ovvero prima del 2005. In un mondo che sembra preistoria filmini delle vacanze, passaparola, agenzie di viaggio, enti del turismo, cartografie, guide stampate, riviste di viaggio, persino viaggi organizzati da enti ecclesiastici o associazioni di quartiere (ricordo i nostri viaggi con la parrocchia in una Puglia semi-deserta e abbagliante) concorrevano a rendere i viaggi fattibili e sicuri.
Scrivono Vittorio Kulczycki e Paolo Nugari, che l’idea di fondare Avventure nel Mondo, nacque nel 1970 durante una spedizione sull’Ellbruz. “Ci buttammo in imprese inconcepibili, rischiammo di tutto, fummo arrestati, imprigionati, percorremmo strade incredibili. E litigavamo, litigavamo moltissimo, ma su un punto eravamo tutti d’accordo: il rifiuto categorico del turismo organizzato e di tutto ciò che tale fenomeno comportava. Rifiutavamo l’albergo, il pullman turistico, la guida patentata” scrivono. Oggi anche Avventure nel Mondo non potrebbe esistere senza un sito (recentemente ristrutturato) tramite il quale prenotare il viaggio e confrontare gli itinerari.
In questo scenario analogico, nel 1973 viene fondata Lonely Planet una casa editrice australiana che distribuisce guide di viaggio in tutto il mondo. Esattamente nello stesso anno, Michel Duval e Philippe Gloaguen fondano in Francia le Guide Routard. Il 1982 invece è l’anno di Rough Guides nel Regno Unito. Ma ci fu qualcuno a precederli tutti: la guida Michelin arrivò nel 1898, da un’idea dei fratelli Édouard e André che “iniziarono quasi per gioco a redigere un piccolo breviario che rendesse più piacevole lo spostamento degli allora pochi automobilisti francesi. Ai tempi viaggiare in auto poteva rivelarsi un’avventura pericolosa”.
Se da una parte la digitalizzazione del viaggio ha reso meno richieste alcune professioni (pensiamo ai cartografi), dall’altra ha permesso la nascita di nuovi rami occupazionali. Uno è quella dei travel influencer o travel blogger, creator digitali che forniscono contenuti sui viaggi, tra i primi a presidiare e monetizzare Instagram. Tra paternalismi e invidia sociale, quello dei Travel Influencer è stato da subito uno dei lavori più aspirazionali per la generazione Y e Z, con la sua idea di viaggio perpetuo e l’idea di trasformare una passione in una forma di reddito. Lo dimostrano i numerosi corsi per “diventare travel influencer di successo”.
Nonostante questo, solo in pochi sono riusciti ad emergere in un settore sì in forte crescita ma altamente competitivo e affollato, con una richiesta di competenze molto trasversali, coperto anche da VIP digitali che viaggiano saltuariamente. Nonostante l’impatto negativo del Covid, analisi di mercato confermano che tra tutti i settori, quello dei viaggi è il primo per numero di utenti che usa web e social per informarsi e prenotare. Secondo uno studio, nel 2018 gli utenti Instagram interessati a contenuti di viaggio erano aumentati del 56%.
Ma anche nel mondo dei viaggi, non è tutto oro quello che luccica. Il racconto del viaggio, che sembra in qualche modo connaturato alla nostra dimensione esistenziale, pone un ampio spettro di limitazioni. Se infatti la Bibbia, l’epopea di Gilgameš o l’Odissea testimoniano un’esigenza antichissima, la narrazione degli aspetti problematici del viaggio viene percepita ancora oggi come un tabù.
Occorre anche stabilire cosa renda un viaggio brutto, includendo sia fattori oggettivi che soggettivi, come la delusione delle aspettative, o la mancanza di organizzazione o l’incorrere di imprevisti (potrei citare l’eruzione di un vulcano alle Hawaii o un uragano a Mauritius con un nome buffo che ricorda il mio, Calvinia). Tra questi, l’orizzonte delle aspettative è quello più impattato dalla deformazione digitale del viaggio, poiché il filtro che incide sulla rappresentazione delle vacanze ridimensiona le distorsioni che si incontrano nel passaggio naturale da viaggio immaginario a viaggio reale. Cito ad esempio sporcizia, povertà, criminalità, abusivismo: tutti fattori antropici che nulla hanno a che fare con i luoghi in sé ma molto con chi li frequenta.
Il mondo digitale in tutte le sue sfaccettature, dai supporti, alle app, ai social network, ai siti di reviews, all’influencer marketing ha cambiato in modo irreversibile questo settore, tanto che oggi è difficile immaginare una qualsiasi declinazione del viaggio che non sia un viaggio digitale.
Questa propensione al racconto di viaggio digitale che investe tutti, anche i soggetti meno propensi alla condivisione, ha generato con la sua pervasività fenomeni di overtourism che hanno degradato luoghi impreparati a sostenere la presenza di milioni di persone. La letteratura delle limitazioni è amplissima e comprende luoghi come Venezia, il Machu Pichu, Maya Bay, persino il Monte Everest. È un fenomeno che gli influencer governano con un’etica del tutto individuale in un panorama completamente deregolamentato. Tempo fa notai che alcune travel influencer del Nord Europa non pubblicavano la posizione dei luoghi in cui si fotografavano, ma generici “planet earth” o “Canada, Oregon, Svizzera”.
Dall’esplorazione delle potenzialità del metaverso, potrebbero nascere nuove opportunità nel settore turistico. Tour virtuali di luoghi e strutture potrebbero aiutare i viaggiatori a costruire esperienze più specifiche e ritagliate sulle proprie necessità, al fine di evitare l’orrore della delusione delle aspettative. In sostanza però, il concetto stesso di metaverso può essere interpretato come una manifestazione del viaggio immaginario e rispondere a una richiesta di esperienze di viaggio superiore a quelle che un turista qualsiasi può permettersi nella sua routine.
Dichiarano gli influencer Dominique and Franco che “È difficile viaggiare in una nuova città o in un nuovo Paese e non sentirsi in dovere di documentare il processo. Se scopriamo qualcosa di interessante sulla cultura, il nostro primo istinto è quello di condividerlo”. Nelle loro parole c’è la fotografia di un meccanismo circolare che mira al massimo sfruttamento delle risorse in campo: turisti, luoghi, intermediari e che ne sta determinando il repentino declino.
Già prima del Covid il viaggio era diventato un diritto non vincolabile, quello che Vijay Kolinjivadi definì “turismo estrattivo”. Esistono dunque soluzioni che propongano una modalità sostenibile del viaggio? Abbiamo anticipato la questione del metaverso, ma parallelamente possiamo citare altri due fenomeni. Il primo è la negazione del viaggio come presa di coscienza della sua insostenibilità. In svedese flygskam indica il senso di vergogna che si prova a prendere un aereo. L’avventuroso viaggio in barca di Greta Thunberg da cui è stato il documentario I Am Greta è l’apoteosi di questo movimento.
Su un versante completamente opposto, c’è una dimensione del viaggio come moto perpetuo. Stanno in questo filone i racconti sul nomadismo digitale e il concetto di “ufficio-mobile” secondo il quale il lavoro da remoto può essere svolto da qualsiasi parte del mondo, senza stazionamenti e in continuo movimento. Viaggiare mai e viaggiare sempre come risposta all’irrisolvibile conflitto del viaggiatore.