In un noto trend di TikTok una ragazza di nome Susy prepara il pesto ed esclama: “Chiamatemi pazza, ma non mi è mai piaciuto il pesto confezionato.” Una ragazza riprende il video tagliandolo, o meglio lo stitcha, come si dice in gergo, e le risponde: “Sai cosa è veramente assurdo Susy? Che mio marito mi abbia tradita con mia madre,” e inizia un racconto in più parti per sviscerare la sua storia. Gli stitch e duetti al video di Susy sono tutti di questo tenore. Dai tradimenti rocamboleschi alle molestie, passando per bullismo e traumi di altra natura.
“Qual è un trauma che avete che è davvero divertente? Inizio io: mio padre ha abbandonato me e la mia famiglia quando avevo cinque anni e si è dedicato alla breakdance amatoriale ed è diventato virale,” racconta un’altra utente. Mentre mostra le clip di suo padre che balla a Good Morning America esclama: “Quest’uomo non voleva pagare le mie spese sanitarie.” Nei commenti la persone rispondono: “I titoli dicono anche breakdancing dad,” e la ragazza risponde: “La mia famiglia ed io abbiamo riso molto: padre? Padre di chi esattamente?”
L’ascesa di TraumaTok
Su TikTok questa è una modalità di raccontare che torna spesso. Si chiamano storytime ed è la stessa piattaforma a spingere il format, il tutto condito con una buona dose di trauma dumping, quel processo attraverso il quale si scarica in modo inaspettato il proprio trauma su qualcun altro. Perché questa modalità di raccontare funziona e cosa dice di noi questo fenomeno che oscilla tra il perenne voyeurismo e la necessità di sfogarci con degli sconosciuti online?
Il tag #trauma su TikTok al momento ha 9,2 miliardi di visualizzazioni, simile a #traumadump, che ne ha 62,3 milioni, e #traumadumping, che si ferma a 19,2 milioni. Decidere di fare un giro dentro a TraumaTok è decisamente un’esperienza. Ultimamente è diventata virale una serie in 55 parti da 10 minuti ciascuna che si chiama “Who TF did I marry?”, in cui la creator @reesateesa racconta la relazione tossica con l’ex marito. La modalità di racconto è ipnotica: lei per lo più guida nel traffico infinito di Atlanta o si prepara per uscire. Non sono video da influencer, curati nei minimi dettagli, sono veri, come se stessi ascoltando il racconto di un’amica. Nel primissimo video che posta fa un disclaimer: “Non lo sto facendo perché qualcuno me lo ha chiesto, non mi piacciono queste cose da influencer. Lo sto facendo per me.” Più avanti racconterà di aver sempre tenuto un “audio diario” nel corso della sua relazione perché c’era qualcosa che non l’aveva fatta stare tranquilla fin dall’inizio.
L’impressione che si ha guardando questi video è una forte necessità di esorcizzare il trauma. E quando manca l’ascolto da parte di amici o familiari, allora gli sconosciuti su internet sono l’ultima risorsa rimasta.
Alcuni utenti fanno luce sulle loro esperienze seguendo i trend, altri si lanciano in lunghi racconti sulla complessità delle esperienze che hanno vissuto, facendo in modo che gli altri utenti lascino un solo commento ripetuto: “Storytime.” TikTok ha reso popolare questo format, spingendo gli utenti a utilizzare video sempre più lunghi e appassionanti per chi li guarda. Soprattutto se il racconto è diviso in più parti. Può sembrare una strategia: più contenuti significa più interazioni e più notorietà. Ma in molti casi sembra non essere questa la vera leva che spinge le persone a raccontare su internet delle questioni che, a ben vedere, sono molto private.
L’impressione che si ha guardando questi video è una forte necessità di esorcizzare il trauma. E quando manca l’ascolto da parte di amici o familiari, allora gli sconosciuti su internet sono l’ultima risorsa rimasta. Può riguardare tutto, da un lutto a un disturbo alimentare. Questa modalità di raccontare scatena “l’effetto incidente stradale”. Sappiamo che non dovremmo guardare, ma non possiamo fare a meno di ascoltare i traumi di sconosciuti che si trovano a migliaia di chilometri da noi. Anche perché, se non avessero voluto essere ascoltati, non avrebbero caricato il video.
Condividere dolore online
Nel 2020 abbiamo assistito a un’escalation nella condivisione di questi contenuti perché stavamo vivendo un trauma collettivo senza precedenti: una pandemia globale. E se all’inizio è stata una forte esperienza che ha fatto da collettore, poi è andata oltre. Se prima era un’esperienza collettiva, piano piano è diventata sempre più individualistica. Se prima c’era un consenso generale sul condividere i disagi dell’essere confinati dentro la propria abitazione, l’attenzione si è spostata su altro. Se da una parte può essere un processo liberatorio, perché ha permesso a molte persone di condividere la propria esperienza e aiutarne altre, dall’altra ha aperto la strada per la semplificazione e la superficialità di temi che andrebbero gestiti con la massima attenzione. Il risultato è una base di utenti molto giovani che sfruttano l’app per connettersi tra loro in un momento di grande vulnerabilità, ha raccontato al Guardian Yim Register, ricercatore che studia la salute mentale e i social media.
“L’effetto maggiore della pandemia è quello di trovarsi di fronte a una grande incertezza, e nell’incertezza il nostro cervello fa di tutto per ridurla e dare un senso a ciò che sta vivendo”, ha detto Register. “Vogliamo essere in grado di prevedere con precisione ciò che accadrà e ci rivolgiamo ai social media per dare un senso collettivo a ciò che stiamo vivendo”. Questa idea ha contribuito anche allo “spirito” di TikTok, che sembra essere diverso da tutti i social network che lo hanno preceduto. Sembra essere nato per parlare ad alta voce di temi molto intimi e intensi”, ha concluso Register. “E le persone sono incoraggiate a essere vulnerabili per adattarsi a questo spirito”.
Alcuni utenti hanno cominciato a chiamare questa situazione trauma cult, cioè quella sottocultura che etichetta tutte le nostre reazioni come una trauma response.
Uno dei motivi per cui rimaniamo profondamente attratti dal racconto del trauma online è la relatability, il fatto che ci possiamo rivedere in quel contenuto. Sentiamo finalmente i nostri sentimenti legittimati, perché non siamo gli unici ad averli provati. Vediamo anche la possibilità di una soluzione, di una via d’uscita che non avevamo considerato prima. Un altro punto importante è a chi parlano questi contenuti. Ci troviamo in una condizione di incertezza mai vissuta prima. Parliamo di incertezza da ogni punto di vista, umano, lavorativo, globale. In una società così fragile e alla mercé di forze che sembrano incontrollabili, pronte a scombinare il futuro dall’oggi al domani, è ancora più difficile pensare di stabilire legami sociali duraturi.
Nel frattempo, lo “spirito di TikTok” ha contribuito a rendere ogni cosa una reazione a un trauma, tanto che alcuni utenti hanno cominciato a chiamare questa situazione trauma cult, cioè quella sottocultura che etichetta tutte le nostre reazioni come una trauma response. Difficoltà a prendere piccole decisioni? Possibile risposta al trauma. Prepararsi troppo, analizzare troppo, essere all’altezza? Tutte possibili risposte al trauma. Essere perfezionisti? Indovinato, anche questa è una possibile risposta al trauma. Questo però non significa che ogni volta che viviamo una situazione difficile siamo effettivamente traumatizzati. Il problema di internet è che spesso tratta con la stessa gravità situazioni che non hanno nulla in comune. Così facendo, ironicamente, la cultura del trauma dumping ci ha portato a essere sempre meno empatici con il mondo che ci circonda.
Se in determinate comunità online ci sembra di aver finalmente trovato persone che ci capiscono, appena facciamo logout però siamo soli. I Millennial e la Gen Z sono considerati dalle altre generazioni dei delicati fiorellini, incapaci di accettare qualsiasi critica e di sopportare anche la minima avversità. La verità è più complessa di così. All’interno di una società profondamente individualistica, le persone tra i 15 e i 24 anni non si sono mai sentite così sole e la pandemia non ha aiutato. È come se avessimo perso quello che in sociologia viene definito come il terzo luogo. Il sociologo Ray Oldenburg sosteneva che, per una vita sana, le persone dovrebbero vivere in un equilibrio di tre regni: la vita in casa, il posto di lavoro e i luoghi sociali. Il problema è che quando Oldenburg teorizza il terzo luogo, non esistevano i social network e gli smartphone. Attualmente infatti la cosa più simile a un terzo luogo sono proprio i social e, nonostante ci siano dei legami sociali, tutto rimane molto lontano. La prima caratteristica del terzo luogo è essere un luogo in cui siamo rilassati, ma la verità è che sui social non lo siamo mai veramente. Certo, possiamo incontrare facce familiari e fare nuove conoscenze, ma non è proprio la stessa cosa.
Quanto siamo davvero empatici nel mondo reale?
Siamo animali sociali che hanno bisogno di relazioni umane. Per questo motivo, ci tornano molto utili gli story time e la condivisione del trauma: permettono di sentirci meno isolati, più connessi con l’umano, senza tutte le implicazioni di una vera relazione sociale, che prevede un ascolto attivo e un effettivo intervento. Possiamo considerarci empatici, perché stiamo effettivamente provando emozioni per un’altra persona, ma senza tutto l’impegno richiesto se quella persona fosse un nostro amico a cui dare supporto in un momento difficile. Possiamo empatizzare con la storia di @reesateesa e indignarci per le follie del suo ex, possiamo anche lasciarle un commento per dirle che la capiamo, che siamo dalla sua parte. Ma questo non significa che dovremo starle vicino nei mesi successivi a una rottura che lascerà il segno per molto, molto tempo ancora.
Viviamo una condizione di perenne voyeurismo e allo stesso tempo di necessità di sfogarci e condividere ciò che ci è successo. È come se avessimo tolto ogni filtro. Se da un lato è importante normalizzare e creare un linguaggio per parlare di determinati temi, dall’altro sembra che ci stiamo disabituando alla forma che effettivamente ha un trauma e gli effetti che ha su qualcuno. Postare la propria esperienza online non è di per sé negativo, come non lo è condividere un trauma. Quello a cui stiamo assistendo ultimamente è che questi processi avvengono come se non ci fossero conseguenze. Ma sappiamo che non è così, sia per chi posta, sia per chi si ritrova video di situazioni che non si aspettava. Su #TraumaTok troviamo video di persone che si riprendono durante crolli nervosi e altre situazioni intime che vengono condivise su internet come se non ci fosse altro modo per sfogarsi. Uno dei problemi principali del trauma dumping è proprio questo: non è consensuale, soprattutto su una piattaforma come TikTok dove tutto avviene velocemente. Si può passare nello spazio di 15 secondi da un video comico a un contenuto che ci lascerà contraccolpi emotivi importanti, perché i video di #TraumaTok diventano virali di continuo.
È come se fosse finita l’epoca della compassione umana faccia a faccia, per lasciare spazio a quella online. Il lato positivo è che può riceverne chiunque, indipendentemente dal fatto che abbia amici nella vita offline.
In un mondo digitale in cui i social network sono diventati amplificatori delle nostre emozioni e del nostro privato più intimo, forse è arrivato il momento di ripensare la nostra relazione con l’online. Non solo per noi stessi, ma anche per gli altri utenti che potrebbero incontrare le nostre storie e non volerne sapere nulla. Quando ci accorgiamo di aver sviluppato un determinato tipo di comunicazione online, è il momento di cambiare qualcosa proprio quando i social non li stiamo usando nella vita reale. Rimane una profonda volontà di condivisione, una ricerca di affetto e comprensione che non riusciamo a trovare offline e che, quindi, cerchiamo online. Riempiamo questo buco emotivo condividendo con degli sconosciuti il nostro dolore. Troviamo altri utenti disposti a darci man forte. Se parliamo di influencer può essere una questione di posizionamento, scegliere di mostrarsi più vulnerabili per sembrare più vicini ai propri follower. È un copione che abbiamo visto e rivisto. Ma se si tratta di “utenti normali”, che non monetizzano il loro tempo sui social network, la questione è differente. È come se fosse finita l’epoca della compassione umana faccia a faccia, per lasciare spazio a quella online. Il lato positivo è che può riceverne chiunque, indipendentemente dal fatto che abbia amici nella vita offline, perché sicuramente nei meandri di internet ci sarà qualcuno che ha vissuto quella stessa sofferenza o che è pronto a farsene carico, anche solo con un commento di sostegno o un cuoricino lasciato al momento giusto. In questo modo, chi aveva bisogno di togliersi un peso lo ha fatto, mentre chi ha commentato si è sentito egoisticamente meglio, un po’ più umano perché ha dimostrato empatia con qualcuno che sta vivendo una situazione difficile.
I social network ci hanno permesso di mostrarci più empatici, ma quanto lo siamo davvero quando ci slogghiamo? Dimostriamo la stessa empatia nella vita di tutti i giorni, fuori da piattaforme che ci costringono a mostrare la parte migliore di noi stessi? La risposta possiamo darla solo noi, ma forse non è sempre così positiva come vorremmo.