«L’essere umano vive in città, mangia senza fame, beve senza sete, si stanca senza che il corpo fatichi, rincorre il proprio tempo senza raggiungerlo mai. È un essere imprigionato, una prigione senza confini dalla quale è quasi impossibile fuggire. Alcuni esseri umani però a volte hanno bisogno di riprendersi la loro vita, di ritrovare una strada maestra. Non tutti ci provano, in pochi ci riescono»
Walter Bonatti
«Mi piacerebbe morire al rifugio, più in là ovviamente»
Alberto Bighellini
Viene dalla bassa veronese, Alberto Bighellini, un posto dove prevalentemente ci sono nebbia e zanzare. È casa per lui, ci è legato, non ha mai rinnegato le sue radici. Studia lettere classiche all’Università, con l’idea di fare il professore, gli piace creare relazioni con le persone, trasmettere quello che sa e le sue passioni. Dopo la laurea triennale capisce però che è un percorso complesso, che lo avrebbe probabilmente portato a essere precario per molto tempo, senza sapere in anticipo il luogo di lavoro. Così decide di passare una stagione a lavare piatti al rifugio Pian dei Fiacconi, a quota 2626m, sul versante nord della Marmolada, e intanto valutare cosa fare in futuro. Durante quel periodo, si rende conto che, pur essendo un lavoro duro, gli piace molto.
il perfetto equilibrio
«Eravamo un bel gruppo di ragazzi giovani, e mi sono trovato bene. Mi piaceva spiegare ai clienti cosa ci fosse da mangiare, e se il ghiacciaio era in condizioni (non sono un professionista ma riferivo quanto mi dicevano le Guide Alpine). Così ho deciso di provare a puntare tutto su questo. Ho lavorato diverse stagioni in vari rifugi, con l’intento, un giorno, di prenderne uno mio in gestione. Ho lavorato al rifugio passo Principe, situato nel Gruppo del Catinaccio nelle Dolomiti, al rifugio Crête Sèche in Valle d’Aosta, al rifugio Chierego, sul monte Baldo, al rifugio del Monte Altissimo, e ho sempre cercato di assorbire tutto il possibile, anche se mi sono reso conto che ogni rifugio è diverso».
Grazie all’esperienza maturata negli anni riesce a vincere il bando per gestire il rifugio Stivo, situato nell’omonimo monte, nel comune di Arco, in provincia di Trento, a 2.012 metri, cosa della quale dice di essere ancora molto soddisfatto, ora che sta per cominciare il sesto inverno di gestione. «I requisiti richiesti dal bando erano di avere esperienza nell’ambito dei rifugi e della ristorazione, buona conoscenza del mondo della montagna, e avere delle nozioni di primo soccorso. Inoltre c’era l’intenzione di ringiovanire la gestione del rifugio e quindi il fatto che all’epoca avessi ventotto anni era un ottimo requisito. Mi ero preparato molto bene, avevo un’idea chiara di quali sarebbero stati i miei fornitori, i guadagni, le spese, il personale necessario. Credo si siano resi conto che per me non sarebbe stato un salto nel vuoto, un passo più lungo della gamba per cambiare vita, ma al contrario significava prendere in mano un’attività, un’azienda, sapendo a cosa andavo incontro e quali sarebbero state le difficoltà».
Secondo Alberto Bighellini il passaggio dalla città alla montagna non è così drastico. Alcune persone pensano che andare a vivere in montagna significhi vedere ogni giorno tramonti meravigliosi mentre spesso le giornate di sole vogliono dire un sacco di persone da servire in rifugio, e lo stress che si prova in città ce lo si porta dietro. «Ci sono di sicuro dei fattori che favoriscono il benessere, come camminare per arrivare al rifugio (al quale si arriva solo a piedi), respirare aria pulita, il silenzio, poter entrare in una dimensione più introspettiva, la possibilità di essere a contatto con la natura, renderti conto dell’importanza di non sprecare acqua ed energia. Dall’altra parte, quando per giorni al rifugio non arrivano persone, la bellezza di essere immersi in questo ambiente magico lascia posto al desiderio che venga qualcuno, perché ci sono tante spese da sostenere e le tasse da pagare. Quando invece ci sono tanti ospiti, devi essere super sul pezzo e servire tutti. Le persone hanno freddo e fame e devi essere pronto».
«La mattina quando mi sveglio penso che ho un lavoro che mi piace. Quando finisco le ferie sono contentissimo di tornare a lavorare, mi piace stare lì e starci con delle belle persone, che sono anche le stesse con le quali convivo, e con le quali devi andare d’accordo, e che poi diventano quasi degli amici»
Per Alberto il suo lavoro rappresenta il perfetto equilibrio da diversi punti di vista: praticare attività fisica, vivere circondati dalle montagne, trovare nuovi stimoli, essere dinamico, creativo e organizzato, con una mente sempre impegnata in costanti sollecitazioni. Il rifugista è un lavoro che racchiude in sé tantissime professioni. «Sei social media manager, sei uno che spala la neve, sei un magazziniere, sei un segretario, un ristoratore, un albergatore, sei un po’ idraulico quando si rompe qualcosa, un po’ cuoco, sei un contabile. È molto stimolante, il tuo cervello è concentrato su tante sfide diverse ogni giorno, ed è una cosa che mi piace molto. Mettici l’ambiente, e il contatto con la montagna alla quale sono molto legato… Sono anche in una posizione privilegiata per lanciare dei messaggi, ho un bacino di persone alle quali trasmettere le mie idee, e magari posso diventare fonte di ispirazione per qualcuno. Cerco sempre di fare qualche giro negli altri rifugi per vedere come lavorano gli altri, vedere cosa fanno meglio di me».
I momenti di difficoltà non mancano, ma quando gli chiedi se farebbe un altro lavoro Alberto non ha dubbi: «La risposta è no. La mattina quando mi sveglio penso che ho un lavoro che mi piace. Quando finisco le ferie sono contentissimo di tornare a lavorare, mi piace stare lì e starci con delle belle persone, che sono anche le stesse con le quali convivo, e con le quali devi andare d’accordo, e che poi diventano quasi degli amici». Sceglie Alberto con chi lavorare: persone adattabili, giovani, perché avere una comunanza d’età aiuta a condividere qualcosa in più. Ora nel suo team lavorano dei ventenni, una ragazza dell’87, una del ’95, un altro del ’98. Il gruppo cambia una volta all’anno, spesso infatti è formato da studenti che quando si laureano intraprendono il loro percorso professionale. Alberto racconta che a volte non è facile trovare le persone e che però non ha mai avuto brutte esperienze. È solo capitato che qualcuno gli dicesse che era molto bello ma che poi non si presentasse più. Cerca le persone sui social e scrive l’annuncio su siti del trentino dedicati, (di solito viene sommerso da una valanga di mail di persone interessate) ma è possibile anche candidarsi spontaneamente. Ad agosto crea il team per l’inverno, mentre a marzo/aprile quello per l’estate. «Quello che comincia un po’ a pesarmi è la difficoltà nel vedere i miei amici: loro sono liberi quando io lavoro e viceversa, così mi ritrovo sempre a dover strappare qualche cena qua e là. Ogni tanto penso che un paio di mesi all’anno mi piacerebbe fare un lavoro normale, per esempio in libreria per otto ore al giorno, e avere la sera per andare al cinema o a teatro. Dal primo giugno al 30 settembre lavoro tutti i giorni, si inizia molto presto la mattina, e ho solo un giorno libero a settimana, nel quale magari scendo in paese e faccio un giro, ma devo anche fare la spesa per il rifugio, andare dai fornitori e fare le varie commissioni, quindi non è un vero giorno libero. D’inverno faccio tutti i weekend di bel tempo, le notti di luna piena, le vacanze di Natale, e i ponti, però comunque in settimana devo salire per portare il cibo e cucinare qualcosa per il weekend, e se nevica bisogna togliere la neve dai pannelli. Durante l’inverno ho del tempo libero, che però va gestito bene. Ho due mesi liberi, che ci tengo a tenermi, ottobre e maggio».
«In inverno non c’è la possibilità di lavarsi, visto che l’unica acqua che c’è è quella piovana, d’estate ci si lava una volta alla settimana. Per questa ragione se non piove siamo costretti a chiudere i bagni anche per i clienti. Poi si vive sempre tutti insieme, quindi è semplice creare una bella armonia ma è anche facile litigare»
il rifugio
Il rifugio Stivo è di tipo escursionistico, non ci arrivano alpinisti per fare ascese al ghiacciaio, quindi la colazione per i clienti spesso è alle otto. La sveglia di Alberto suona alle sei e mezza, fa colazione insieme agli altri e poi prepara quella per i clienti. Si pelano patate, e si prepara l’occorrente per la cucina, si spala la neve, se è inverno, si puliscono i bagni e le camere, si fa il servizio pranzo, si lavano i piatti. Dopo il pranzo si pulisce la sala e la cucina, poi in genere si riesce ad avere un’oretta di pausa, seguita dalla preparazione della cena. A volte si lavora tantissimo, magari con le lune piene, altri giorni invece c’è poca gente.
«Gli aspetti più duri? In inverno non c’è la possibilità di lavarsi, visto che l’unica acqua che c’è è quella piovana, d’estate ci si lava una volta alla settimana. Per questa ragione se non piove siamo costretti a chiudere i bagni anche per i clienti. Poi si vive sempre tutti insieme, quindi è semplice creare una bella armonia ma è anche facile litigare. Bisogna cercare di non pestarsi i piedi e rispettare gli altri, gli spazi sono stretti. A volte si dorme tutti insieme. Tutti dobbiamo essere disposti a portare su qualcosa nello zaino, non si può utilizzare la teleferica, quindi si porta tutto a piedi, carne, formaggio, verdura, tranne il grosso, come gas, gasolio, birra e acqua, che viene trasportato dall’elicottero, che costa tanto. Ho la schiena che mi fa male, ora ho smesso di portare zaini troppo pesanti, ma i primi anni mi caricavo eccessivamente perché non volevo che agli ospiti mancasse nulla. Quando arrivi su in inverno hai la sala a zero gradi, e fuori magari c’è meno dieci, con il vento che ti butta la neve negli occhi, e devi cambiare la bombola del gas, e non senti le mani per il freddo. È un lavoro fisico, portare avanti e indietro bottiglie di acqua, casse di birra, spostare pentoloni. È un lavoro duro, in un ambiente impervio. A volte il telefono non prende e internet si incastra, non ci puoi contare. Volendo potrei mettere il wi-fi ma penso che non serva a niente. Dipendo da internet come tutti ma non mi piace, vedo come ha cambiato il rapporto tra le persone, e se il rifugio diventa uno dei pochi baluardi dove questa cosa non esiste penso sia meglio, mi sembra che anche alle persone non pesi così tanto il fatto che manchi internet». Se la sera è tranquilla allora in rifugio si preparano una bella cenetta, aprono una bottiglia di vino, giocano a carte o ai dadi, leggono un libro, chiacchierano, guardano un film. Alberto può contare su un bacino di utenza abbastanza ampio, una community di persone che lo seguono sui social, alla quale gli piace trasmettere i valori in cui crede, sensibilizzando sul cambiamento climatico e l’importanza di preservare l’ambiente, comunicando in maniera simpatica e originale, per esempio attraverso l’utilizzo del dialetto, per far sentire quel particolare problema più vicino alle persone. Alberto ha organizzato allo Stivo diverse serate informative sulla storia della meteorologia e sul clima, a volte in un contesto didattico ma invitando un personaggio che riuscisse a informare in maniera piacevole, con l’intento di fare due risate in compagnia mentre si affrontano argomenti seri. È stato fatto un incontro con Extinction Rebellion (XR) movimento internazionale, “dal basso”, nonviolento, fondato in Inghilterra in risposta alla devastazione ecologica causata dalle attività umane, che ricorre alla disobbedienza civile per chiedere ai governi di invertire la rotta che sta portando verso il disastro climatico. Un’altra serata aveva come tema ‘medicina e montagna’, e si informavano le persone su assideramento, colpi di calore, scottature, temperatura percepita, l’importanza di controllare il meteo prima di andare in montagna, come prevenire gli infortuni e minimizzare il rischio. Poi viene data la possibilità a chi suona degli strumenti musicali di farlo davanti a un pubblico, e di prendere dei soldi per questo. Un amico di Alberto ha anche organizzato al rifugio una residenza per quattro artisti, che attraverso un bando hanno avuto la possibilità di vivere allo Stivo per un mese, creando installazioni e altre opere. L’ispirazione dalla quale sono partiti è stata la montagna, che offre una posizione privilegiata, uno sguardo dall’alto. «È stato interessante convivere con persone che avevano un punto di vista diverso. Due giovani incredibili, uno del ’99 e l’altra dell’89, ai quali ci siamo molto legati e che quando sono andati via hanno pianto».
L’idea è quella di riproporre ogni anno questo progetto. Le spese del rifugio sono tante, c’è anche il problema dell’elicottero, che incide tantissimo, è come pagare un altro affitto all’anno: per questa ragione in futuro ad Alberto piacerebbe avere una maggiore accessibilità allo Stivo: al momento deve fare due ore a piedi per arrivarci. Dice di non riuscire a mettere da parte molti soldi, solo quanto gli basta per togliersi qualche piccolo sfizio. Se avesse moglie e figli non ce la farebbe, in più comunque potrebbe dedicare pochissimo tempo a una famiglia. Pensa che se si va in un ambiente che non si conosce, e si agisce in modo sbagliato, sia normale. Non gli piace dire che le persone sono stupide.
«Ci sta non sapere tutto, quello che trovo sbagliato è la maleducazione nel porsi, non mi piacciono le persone che pretendono. Alcuni fanno delle richieste assurde, ma quando spieghi come stanno le cose, capiscono. Mi dà fastidio l’arroganza: una volta stavamo mangiando con il team ed è arrivato un cliente che ci ha interrotti dicendo solo: ‘due spritz!’, senza considerare che non ho la macchina, ma soprattutto senza neanche salutare o chiedere per favore».