«This is your life. Do what you love and do it often. If you don’t like something, change it. If you don’t like your job, quit. […] Life is short, live your dream and wear your passion»
The Holstee Manifesto
Vivo in Trentino da un anno e non mi sono mai sentita così sola. Eppure non tornerei mai indietro. Intendo a Milano, lavoro dipendente.
Odiavo dover parlare con persone che detestavo, che magari mi dicevano pure quello che dovevo fare. La mia manager di una nota multinazionale coreana perdeva sangue dal naso, soprattutto dopo i viaggi intercontinentali che era obbligata a fare. Voci dicevano che l’amante di uno dei capi dell’agenzia pubblicitaria (una delle più importanti al mondo) dove lavoravo come copywriter si fosse fatta fuori perché lui voleva costringerla ad abortire. Quando ho messo piede per la prima volta lì dentro mi sembravano tutti vecchi. Chiedevo l’età ai colleghi e rimanevo sempre a bocca aperta. Ragazzi di ventisette anni che ne dimostravano dieci in più. Quando c’era una gara da vincere stavano in quel posto interminabili ore, fino a notte inoltrata. Per una delle più note reti televisive italiane ho lavorato spesso sette giorni su sette, realizzando il doppio dei servizi degli altri giornalisti, e in quattro mesi non mi hanno pagata un centesimo. Ho fatto il calcolo degli stage non retribuiti della mia via e superano i due anni. Da uno dei più grandi gruppi ospedalieri privati italiani – l’unico contratto a tempo indeterminato che ho avuto nella mia carriera – mi hanno licenziata in tronco e quando il giorno dopo sono tornata in ufficio per fare il passaggio di consegne mi hanno detto che dovevo andarmene immediatamente.
Odiavo dover chiedere a qualcuno il permesso di andare in vacanza e odiavo che decidessero altri quando dovessi avere fame o potessi andare in bagno. Odiavo farmi il culo e prendere schiaffi per fare arricchire persone orrende.
Sono entrata nel mondo del lavoro in piena crisi economica e in un momento drammatico per il giornalismo. I primi sette anni dei miei vani tentativi di costruirmi una carriera a Milano sono stati terribili. Non capivo perché dovessi farmi tutti i giorni un’ora di metro per andare in un posto così brutto. Volevo che avesse un senso quello che facevo e mi faceva impazzire non trovarlo.
Poi a un certo punto ho detto basta.
DIMISSIONI
Mi sono chiesta: «Hai intenzione di rimanere depressa per il resto della vita?». Un’amica che era stata licenziata la vigilia di Natale ed era diventata libera professionista mi ha detto che non cercava più il posto fisso perché preferiva perdere un cliente che rimanere senza lavoro. Non faceva una piega. Quando ho deciso di non mandare più centinaia di mail e curricula per farmi assumere non avevo niente in mano. Non è stata una decisione presa a mente lucida, piuttosto una scelta dettata dalla disperazione. Per non morire.
Stefano, Sara, Giulia, Matteo, Giorgia sono tutti amici che hanno lasciato il lavoro – per non morire di lavoro – senza avere una concreta alternativa. Secondo l’Ansa, il 49% degli under 34 italiani si è dimesso almeno una volta per preservare la propria salute psicologica. Sara mi dice che le fa schifo lavorare. Il Manager della sua ultima azienda era uno stronzo incapace. Con i risparmi che aveva da parte ha comprato un camper usato degli anni ‘80 – che è diventato la sua casa – e da un anno viaggia in giro per l’Europa. A Giorgia avevano dato un task inutile e quando si è opposta le hanno detto che non aveva altra scelta. Così ha rassegnato le dimissioni. Stefano lavorava sottopagato per una nota multinazionale e vedeva il fatturato dell’azienda crescere e il suo stipendio rimanere il medesimo. Allora se n’è andato. Giulia è ingegnera e lavorava in Commissione Europea. Per lo stress aveva iniziato a fumare un pacchetto al giorno. Ora vive con trecento euro al mese, in un borgo, e fa passeggiate in riva al mare ogni giorno. Matteo ci ha messo otto mesi prima di trovare il coraggio di mollare il posto fisso. Adesso fa la Guida Alpina.
Ci è voluto molto coraggio per cambiare vita. Il futuro non prometteva nulla di buono ma sapevo che non sarebbe potuto essere peggio del passato.
Aldilà dei titoloni acchiappa click che a volte la sparano grossa con dati non sempre affidabili, il fenomeno delle Grandi Dimissioni sembra stia diventando un trend e con la pandemia pare avere accelerato ulteriormente.
Linkedin è pieno di post di giovani che raccontano di avere lasciato un nine-to-five job per vivere il resto della vita facendo quello che diavolo gli pare, spesso lontano dalle città (costose e inquinate). C’è una generazione che ha smesso di cercare il lavoro dei sogni per vivere una vita da sogno. Sebbene in molti, soprattutto in Italia, abbiano ancora paura di perseguire con fermezza la propria felicità lavorativa, forse le persone stanno prendendo coscienza che “si vive una volta sola” non è un claim pubblicitario, ma la realtà. Non credo che tutto questo sia roba solo per privilegiati. Chi ha la possibilità di farsi qualche domanda ha il dovere di arrangiarsi per essere il più felice possibile. È legittimo voler stare bene. Se l’umanità non lotterà per questo diventeremo presto degli automi.
Personalmente ci è voluto molto coraggio per cambiare vita. Il futuro non prometteva nulla di buono ma sapevo che non sarebbe potuto essere peggio del passato. È stato un processo graduale: piano piano – nel periodo in cui ero tornata a vivere con mia madre dopo la separazione dal mio ex e non avevo un affitto da pagare – sono arrivate le prime collaborazioni. Poi ho iniziato a partecipare ad alcuni eventi, press day e viaggi stampa, che mi hanno permesso di conoscere nuove realtà, direttori, e soprattutto altre freelance, e fare networking. Dopo circa sette mesi avevo ingranato e guadagnavo qualcosa di simile a un micro stipendio.
VITA FREELANCE
Intanto, in Trentino, ho conosciuto persone che non avevano nulla a che fare con i miei amici di una vita. A Milano si parla di lavoro prima ancora di presentarsi. Ora mi capita di fare intere conversazioni con sconosciuti senza che il lavoro diventi mai argomento di conversazione. Ho incontrato diversi ragazzi che vivono davvero con poco, magari in van, viaggiando in giro per il mondo e facendo lavoretti stagionali. Mi sembrano felici, penso che vivano intensamente, provando emozioni vere. Al contrario, non saprei nominare neanche un milanese che ritengo felice: si lamentano sempre tutti, sono perennemente insoddisfatti e non fanno nulla per cambiare. Ho scelto l’outdoor perché è un mondo di appassionati, magari irrequieti, ma soddisfatti della propria vita. Dopo tre anni come freelance guadagno più di quanto abbia mai preso come dipendente, posso dire no a dei lavori e soprattutto a persone con le quali non voglio avere niente a che fare. Forse non diventerò ricca ma mi piace quello che faccio, ci vedo un senso e soprattutto mi relaziono con belle persone, con le quali ho degli scambi sinceri.
È vero, è difficile gestire il tempo, anche perché la maggior parte di lavori mi arrivano all’ultimo momento. Ma raramente incontro frustrati. So di essere sostituibile esattamente come quando lavoravo in grandi multinazionali ma le relazioni con i miei piccoli clienti sono molto più umane e la sensazione è che non mi lascerebbero a piedi a cuor leggero.
So di avere fatto delle rinunce, come vivere la quotidianità con gli amici storici, o diventare la nuova Lilli Gruber (magari in un’altra vita Lilli). Ma per essere felici ne vale la pena.
Quando esco a correre mi sembra di toccare le Dolomiti. È incredibile come ci si abitui in un attimo a essere svegliati dal cinguettio degli uccellini e a odiare il rumore delle auto.
Se ripenso alla mia vita un po’ borghese di prima ora mi sembra di vivere ai margini della società. A ottobre è morto il mio fidanzato e ho realizzato quanto la vita sia breve. Non c’è tempo. Non c’è tempo per relazioni tossiche, persone arroganti, per fare soldi, per fare cose nelle quali non credi. Ciò che ha davvero valore per me è cambiato in modo inaspettato e irreversibile.
Alzo gli occhi dal pc. Il cielo è terso e dalla vetrata si distingue nitidamente tutto il profilo delle Pale di San Martino. Il proprietario della mia casa in Val di Fiemme mi fa pagare quattrocento euro d’affitto al mese ma dovrebbe chiedermene quattrocento al minuto. Quando esco a correre mi sembra di toccare le Dolomiti. È incredibile come ci si abitui in un attimo a essere svegliati dal cinguettio degli uccellini – al posto della sveglia – e a odiare il rumore delle auto. Tutto questo, semplicemente, non ha prezzo. Certo che ci sono delle difficoltà, ma il lavoro dei sogni semplicemente non esiste e la mia vita non è niente male, anche se si può fare di meglio: a breve lascerò il mio affitto in Trentino, vivrò un periodo in un ostello alle Canarie e al rientro vorrei viaggiare per un po’ in furgone alla scoperta del mondo, di nuove (belle) persone, e lavorare ancora meno. Life Is a One-Way Ticket.