05.03.2025

No-buy month deinfluencing: abbiamo ancora bisogno di chi ci dice cosa comprare?

Tra scandali e crisi di fiducia, il mondo degli influencer è in trasformazione. Tra micro influencer e brand che diventano personaggi, il panorama social sta cambiando. E diventa sempre più difficile conciliare autenticità e sponsorizzazioni…

Se scorriamo nel feed di TikTok, possiamo vedere dei video in cui gli utenti raccontano il No-buy month: nato come una tecnica di risparmio, diventato poi un trend, consiste nel non acquistare nulla di superfluo durante il mese in corso. Si punta a risparmiare, a tagliare ciò che non ci serve davvero e che probabilmente non fa neanche bene al pianeta. Effettivamente non abbiamo bisogno di tutti gli oggetti che vanno virali per la durata di un trend e poi non ci servono più, perché ormai il trend è passato ed è arrivato subito il prossimo a sostituirlo. Proseguendo tra i Per Te di TikTok, fa capolino il video di una madre che racconta di non aver detto ai figli, ancora bambini, che quell’anno faranno il No-buy year, una versione ancora più estrema del No-buy month. In questo modo, dice, si abitueranno a crescere senza il superfluo. Nei commenti molti le danno della pazza, perché crescerà i bambini senza leggerezza. Altri, invece, la incoraggiano. Se questo tipo di challenge sono nate prima di tutto per risparmiare in momenti in cui era necessario mettere un freno alle spese, adesso sembrano essere il segnale di altro. In un mondo sempre più consumistico, in cui tutto è apparentemente disponibile e necessario, l’approccio di alcuni allo shopping sta cambiando.

@miawestrap

The official “no buy year” announcement on how much I managed to save after 12 months of not spending money on absolute necessities (or at least trying not to!) #nobuyyear #frugal #financialgoals #budgeting

♬ original sound – Mia Westrap

Deinfluencing

È iniziata la fase del deinfluencing: un movimento che incoraggia le persone a comprare meno cose e a usare quelle che già hanno. E mentre si afferma questo fenomeno, i grandi influencer non riescono più a convincerci davvero a fare nuovi acquisti. Sono troppo patinati e lontani. Poco relatable, diremmo in inglese. Alcuni influencer addirittura incoraggiano i loro follower a non comprare determinati articoli, perché non realizzano ciò che promettono di fare.

La necessità di avere un rapporto autentico ha dato origine alla tendenza del deinfluencing

È all’interno di questo contesto che nascono figure del web come la tiktoker L’influencer onesta, che promette proprio di fare quello che i suoi colleghi non fanno: comprare e testare per il suo pubblico gli oggetti, al contrario delle sue colleghe che ricevono omaggi che promettono essere la svolta, dal beauty all’abbigliamento, passando per qualsiasi altro settore mercificabile. La necessità di avere un rapporto autentico ha dato origine alla tendenza del deinfluencing.  I deinfluencer sono coloro che privilegiano contenuti genuini e il coinvolgimento reale rispetto ai contenuti meticolosamente curati e alle partnership commerciali che sono comuni nella cultura tradizionale degli influencer.

Come ha sottolineato Omar Fares su The Conversation, l’evoluzione dei valori sociali verso la trasparenza, l’onestà e la connessione autentica si allinea con una maggiore consapevolezza della sostenibilità. Nello studio “​​Social media fashion influencer eWOM communications: understanding the trajectory of sustainable fashion conversations on YouTube fashion haul videos”, Fares e i suoi colleghi hanno esaminato oltre 440.000 commenti su YouTube dal 2011 al 2021 e abbiamo riscontrato un aumento delle conversazioni sulla moda sostenibile. Il movimento del deinfluencing si trova proprio in questa intersezione, in netto contrasto con la tradizionale cultura degli influencer che spesso alimenta il consumismo dilagante e le abitudini di spreco.
Senza contare che, se la percezione degli influencer è cambiata e non c’è più quella relazione di cieca fiducia che esisteva nei primi anni dei social è anche per tutta una serie di questioni che sono accadute negli ultimi anni. Lo scandalo dei pandori Balocco firmati Chiara Ferragni è il più celebre, ma non è l’unico. Proprio di recente, la tiktoker Francesca Biella è stata accusata di aver rivenduto su Vinted dei prodotti che le erano stati regalati da un brand. Se da una parte è vero che quando dei prodotti vengono regalati, gli influencer possono disporne come meglio credono, dall’altra è difficile continuare a fidarsi se qualcuno che ti dice che quell’oggetto è imprescindibile, poi sceglie di disfarsene. È come se le fondamenta del business model dell’influencer marketing si stessero lentamente sgretolando, perché, quando viene a mancare la fiducia, poi viene meno anche il resto.

Una nuova fiducia

Il mondo degli influencer in questo senso si trova stretto tra due tensioni opposte. Da una parte agli influencer viene chiesto di mostrarsi in modo più autentico e di essere più vicini al loro pubblico rispetto ai vip tradizionali, dall’altra l’industria dei creator si sta formalizzando sempre di più con regole precise. Con gli influencer cerchiamo infatti un rapporto più orizzontale, che cresce e si stabilizza attraverso delle relazioni parasociali. Noi di loro potenzialmente sappiamo tutto. Tutto ciò che loro scelgono di rivelarci. Non è un caso che la scelta di Giulia Valentina, che ha all’attivo 1 mln di follower su Instagram, di non mostrare mai davvero nulla della sua vita privata sia spesso uno spunto di dibattito. O ancora quanto le follower di Giulia Torelli siano rimaste toccate dalla morte del suo cane Pallino. Ma mentre l’utente cerca storie in cui rivedersi e consigli che gli suonino genuini,  il lavoro dell’influencer è delineato in modo molto più preciso rispetto agli inizi. Quella spontaneità ricercata dagli utenti viene ora spezzata dai tag #adv, che confessano la realtà delle relazioni commerciali in atto e svelano quella che forse era solo finta autenticità. E allora anche l’hashtag #gifted o #regalo alterano l’atmosfera di cameratismo che si crea con gli spettatori, quando l’influencer del caso esordisce dicendo: “Oggi mi è arrivato un bellissimo regalo da…”.

Se mi metto nei panni degli influencer, è complesso tenere insieme autenticità e vendere prodotti

Io stesso (Martino) vivo questa tensione in quanto creator: fare contenuti sponsorizzati richiede sempre mediazione tra le richieste dei brand e le idee del creator, in cui entrambi hanno (legittimamente) priorità diverse, perciò trovare il giusto equilibrio richiede sforzo. Alcuni creator stanno rispondendo agli spunti del deinfluencing creandosi autonomamente dei codici etici in cui delineano pubblicamente se sono disponibili a inserire sponsorizzazioni dei propri contenuti, e a quali termini. Anche io conto di pubblicarne uno a breve, e più ci penso più è bizzarro: un codice etico non è certo una nuova invenzione nel panorama dei media, e sembra quasi in opposizione rispetto alla maggiore libertà e spontaneità di cui il mondo dei social e degli influencer si fanno promotori. Forse però era una consuetudine che valeva la pena mantenere dai media tradizionali.
Io (Beatrice), invece, da fruitrice, mi trovo a seguire determinati creator anche per il modo in cui scelgono le partnership con i brand e come fanno pubblicità. Se mi metto nei panni degli influencer, è complesso tenere insieme autenticità e vendere prodotti. Un po’ come è accaduto con l’influencer Emma Chamberlain e la sua linea di caffè. Chamberlain è diventata famosa nei primi anni d’oro di YouTube America, vloggando le sue giornate e presentandosi come la ragazza della porta accanto, arrivando a condividere online anche dei momenti di grande vulnerabilità in maniera onesta, come se fosse in videochiamata con una sua amica. È praticamente l’inventrice di “Relatable Youtube”. Attualmente ha oltre 12 milioni di iscritti su YouTube ed è stata nominata da Time Magazine come una delle 25 persone più influenti di Internet. Il suo essere così vicina a chi la segue è poi ciò che, in qualche modo, l’ha allontanata. Chamberlain non è più la ragazzina che vloggava la sua vita normale. I soli introiti derivanti dai video su YouTube sfiorano i 2 milioni di dollari all’anno, oltre agli accordi per la sponsorizzazione di contenuti, come la sua collaborazione da brand ambassador per Louis Vuitton. All’inizio dell’anno ha acquistato una casa da 4 milioni di dollari a West Hollywood. Si crea così un cortocircuito: è difficile tenere insieme l’immagine di persona alla mano  con una vita che chiaramente non è per tutti.

Le vie dei brand

Di fronte ai grandi influencer che sembrano avvicinarsi alle star dei media più tradizionali e allontanarsi dagli utenti, alcuni brand stanno anche esplorando strade alternative. Una è quella di diventare loro stessi influencer: brand che si rendono umani, simpatici, addirittura irriverenti… o almeno ci provano. È celebre l’account di Wendy’s, catena di fast food statunitense che non si fa remore a rispondere su Twitter con scherno verso i suoi stessi clienti. O Duo, mascotte di Duolingo che si fa personaggio social umoristico, corteggiando Dua Lipa, ricordando vecchi balletti di TikTok e dunque si fa parte attiva dei meme del momento. L’obiettivo è sempre quello di rendersi vicini all’utente. Il rischio però è quello di risultare artificiosi e quasi invadenti.

E allora di nuovo portiamo la nostra fiducia a chi ci sembra più credibilmente vicino

Un’altra strada è quella di rivolgersi a micro influencer, che hanno tipicamente una base di follower compresa tra 10.000 e 100.000. Essendo più piccoli, rispetto alle figure più patinate che arrivano a milioni di follower, permettono alle persone di fidarsi ancora: potendo avere una community più affiatata, sono più credibili nell’influenzarne le decisioni d’acquisto. Se i grandi influencer del primo periodo ci sembravano più credibili delle star della tv, i piccoli influencer diventano ora più relatable di chi con i social ha ormai fatto grande fortuna? E allora forse di nuovo portiamo la nostra fiducia a chi ci sembra più credibilmente vicino. Forse stavolta però in un panorama social più consapevole e tutelato.
Come succede anche in altri ambiti, c’è una fase di novità, di rottura con il passato che promette di rivoluzionarne le storture: se prima per diventare noti e fare pubblicità bisognava passare per riviste e tv e per le loro selezioni limitanti, ora chiunque può potenzialmente diventare un influencer senza chiedere conto a nessuno. A un certo punto però scopriamo che alcune di quelle tutele ci servivano e ci – appunto – tutelavano, come il rendere esplicito allo spettatore se c’è un accordo commerciale dietro a un contenuto. E allora reinventiamo le strutture precedenti. Certo, si spera in meglio.

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