17.12.2024

10 Libri da (non) regalare a Natale

Abbiamo stilato un elenco rigoroso di libri e di tutto ciò che potrebbe andare storto nel caso decideste di infiocchettarli sotto l’albero. Non è questione di qualità del testo, anzi. Non saremo certo noi a impedirvi di affossare il Natale, però, nel caso vi interessino, vi consigliamo di comprarli esclusivamente per voi.

Il Natale è una festività complicata. Durante la cena possono presentarsi madri brille che domandano alla figlie come hanno osato alla loro età non aver ancora fatto figli, possono scoppiare discussioni sul servizio di piatti utilizzato che era della povera nonna defunta e che sarebbe dovuto passare in eredità a un altro figlio, possono avvenire incredibili linciaggi verbali nei confronti di chi timidamente confessa il proprio veganesimo, possono venire alla luce innocenti segreti che sgretolano famiglie e possono scoppiare devastanti conversazioni politiche tra ragazze che articolano dati inappuntabili sul climate change e anziani che ripetono gretina gretina sentendosi arguti. 

Tuttavia se volete rendere la festa ancora più ardua e scoppiettante vi sconsigliamo calorosamente questi dieci libri:

Simon May. Carino! Luiss University Press, 2021

State attenti quando vi aggirate tra gli scaffali della vostra libreria di fiducia.
Carino! del filosofo Simon May potrebbe apparentemente essere il libro perfetto da trovare sotto l’albero: copertina glitterata su cui si staglia un gattino adorabilissimo e tenerissimo con un fiocco rosa issimo. 
Non vi lasciate ingannare.

In realtà il libro indaga il risvolto perturbante delle cose carine: Hello Kitty, le emoji, i cuccioli indifesi, i Pokémon, l’evoluzione tondeggiante e infantile di Topolino nella storia di Disney.

“Inizialmente Topolino aveva la testa, la fronte e gli occhi di adulto, ovvero, più proporzionati rispetto al resto del corpo; le orecchie erano più in avanti e le gambe, le braccia e il naso più dritti e appuntiti.[…] Lungi dall’essere un santarellino che si precipitava a salvare i più vulnerabili, rispettava i suoi pari e cacciava via i malintenzionati, aggrediva i più deboli, li toccava nelle parti intime e non era scevro da cattive intenzioni. Nella sua prima performance, Steamboat Willie (1928), lui e Minnie: picchiano, strizzano e torcono gli animali presenti sulla nave per produrre un eccezionale coro sulle note di Turkey in the Straw. L’oca diventa una tromba nella stretta delle loro braccia, la coda della capra viene usata per strimpellare, i capezzoli del maiale vengono pizzicati a ritmo, i denti della mucca vengono percossi come uno xilofono e le sue mammelle trasformate in una cornamusa.”

Il carino, proprio come il Natale, non vuole disturbare nessuno e vuole solo affratellare rimuovendo le contraddizioni. Ma proprio come il Natale nasconde sempre una forma di oscurità. 

È qualcosa che si sviluppa in Giappone come estetica kawaii e negli Stati Uniti come cute, qualcosa che aumenta di livello dopo la distruzione operata dalla Seconda Guerra Mondiale. È probabilmente un modo melenso e cooperativo di cancellare l’orrore, un desiderio estetico di far sì che quella violenza non si ripetesse mai più nelle relazioni umane. Una forma di sublimazione.

È un modo anche per antropomorfizzare tutti gli esseri viventi e privarli della loro alterità. Ma, per l’appunto, queste persone e questi oggetti confortanti contengono anche un lato inquietante: una strana bellezza senza dicotomie, senza opposizione,  che non è un semplice regressione infantile. 
Carino! ci racconta la nostra quotidianità –  il logo Apple, Donald Trump (sì, persino lui possiedi una forma di cute – e Obama, per esempio, no), E.T., il Balloon Dog di Jeff Koons, alcune bambole – portandoci a riflettere su qualcosa a cui non facciamo più caso. Perché abitiamo un mondo cute. E forse non è il caso di andare a indagare quanta dose di unheimlich freudiano nasconde il sorriso immobile di vostro zio mentre sospirando affetta il torrone in sezioni tremendamente identiche.

Elsa Dorlin. Difendersi. Fandango, 2020

Il titolo di questo libro potrebbe essere una specie di imperativo riflessivo nei confronti dei parenti molesti. Ma il cuore del lavoro della filosofa francese è la distinzione tra il paradigma dominante della legittima difesa e l’autodifesa, una sorta di etica marziale in cui l’obiettivo è la tutela di vite “subalterne”. 
Dorlin passa in rassegna la storia delle persone oppresse e cerca i segni del potere impressi sul corpo. In che maniera i nostri nervi vengono scritti dalla violenza? Come abitiamo la paura di appartenere a una categoria discriminata? In che misura ci rimpiccioliamo?

“L’emergere a novembre 1966 del Black Panther Party for Self-Defense è emblematico della ripoliticizzazione internazionalista del diritto all’autodifesa armata contro la tradizione segregazionista statunitense e l’imperialismo […]  

Huey Newton avverte, da parte sua, gli affetti contro-produttivi di una retorica militante che sposta l’autodifesa verso una definizione strettamente marziale e virilista troppo restrittiva, che diluisce la finalità dell’organizzazione e che non corrisponde alle azioni né alle linee ideologiche del movimento. I/le militanti dovevano sottomettersi a addestramenti marziali (imparare a utilizzare un’arma e a sparare in modo sicuro, imparare le arti marziali) ma avevano anche l’obbligo di pensare: leggere (prioritariamente Marx, Mao o Fanon), scrivere.”

Ma non furono solo le black panther a organizzarsi. Questo libro è anche un’approfondita memoria di come alcuni movimenti non hanno solo subito, ma si sono organizzati per difendere i loro corpi vulnerabili e “violentabili”:  le pratiche queer di pattugliamento della comunità negli anni ’70 e ’80,  le milizie ebraiche contro i pogrom, le rivolte indigene nelle Americhe, le campagne anti-linciaggio che chiedevano un fucile in ogni casa nera e le arti marziali delle suffragette. 

Ma, seriamente, volete veramente parlare di queste cose a Natale? E se il ragionamento intorno al monopolio legittimo della violenza di Stato non ci rendesse tutte più buone?

Charlie Kaufman. Formichità. Einaudi, 2023

Il titolo inglese di questo romanzo è Antkind, quindi la traduzione italiana è letteralmente giusta. Ma non è per questo che dovreste evitare di aggiungere l’ennesimo mattoncino sotto l’albero. 

Il Natale è fondato su valori solidi, religiosi o consumisti o comunitari – a seconda di come la pensiate -, e questa storia è letteralmente scritta per minare le basi di ogni certezza, soprattutto quella narrativa: cos’è un protagonista, cos’è una trama, cos’è un’idea ricorsiva che si ripete nella mente di un personaggio che pensa sé stesso mentre sta pensando e si domanda le verità ultime dell’esistenza con la ridicolaggine cringe di un clown sotto ketamina?

Il protagonista, B. Rosenberg, è un critico cinematografico che ha scoperto un film meraviglioso, lungo tre mesi – corredato di pause programmate per dormire, mangiare e andare in bagno – il cui autore è un afroamericano di nome Ingo Cutbirth.

A un certo punto questa pellicola, che il critico vuole far conoscere al resto dell’umanità, va a fuoco:

“Mi lancio verso la nube asfissiante nel tentativo di salvare il possibile. Il fumo mi riempie gli occhi, la bocca, i polmoni. Non riesco a vedere. Non riesco a pensare. Mentre quel che resta dei miei indumenti mi brucia addosso, mi torna in mente la versione cinematografica dell’Inferno di Dante, un film del 1911 di Bertolini, Padovan e De Liguoro, soprattutto per i dannati nudi che si contorcono – che in questo momento mi somigliano molto – ma anche per le fiamme dell’inferno. Era un film straordinario per quei tempi; il primo kolossal prodotto in Italia. Ho la barba strinata. Intorno a me c’è solo fumo. Rivedo gli indovini danteschi costretti a camminare con la testa girata indietro, puniti per avere osato prevedere il futuro nel mondo dei vivi.  […] Poi il nulla. Un nulla indescrivibile, che forse può essere descritto solo come nulla. Il concetto di zero è stato rivoluzionario nella storia della matematica; anche il concetto di nulla dovrà essere capito dagli umani in futuro. Sto sperimentando il nulla, frase che di primo acchito potrebbe sembrare un ossimoro: sperimentare la negazione dell’esperienza. Ma è la pura verità, e cercherò di trasmettere l’idea anche a voi. Immaginate una grande stanza senza niente dentro. Adesso eliminate la stanza. Poi eliminate voi che immaginate. Poi eliminate voi che immaginate di avere eliminato voi che immaginavate. E ripetete il processo all’infinito. Poi eliminate il concetto di tempo che consente la ripetizione all’infinito. Ecco, questo è il nulla.”

Il Guardian ha scritto che leggere Formichità è come guardare (o essere) qualcuno che tenta di salire di corsa una scala di Escher.Se siete cinefili, se avete amato le sceneggiature di Charlie Kaufman, i romanzi di David Foster Wallace e il teatro di Beckett, questo libro potrebbe forse essere per voi. Tuttavia se lo regalate potrebbe rovinare un’amicizia o farvi escludere dalla lista degli eredi di famiglia o condurre, già verso Capodanno, il lettore destinatario a grattare via l’etichetta dalle bottiglie di vino e a sussurrare in loop perché “io” sono? mentre tutti si abbracciano festeggiando l’anno nuovo.

James Montague. Fra gli ultras. 66thand2nd, 2024

James Montague è un scrittore britannico che non ha assolutamente a cuore la vostra ricerca di un libro natalizio. Ha scritto un reportage narrativo in cui esplora il fenomeno degli ultras in tutto il mondo. Un movimento nato in Italia alla fine degli anni Sessanta, con radici in Sud America, che va molto oltre il semplice tifo calcistico.

È una comunità che offre appartenenza a persone spesso emarginate dalla società. E molti gruppi hanno dimostrato di essere attori politici significativi, come durante la rivoluzione egiziana del 2011 e durante Piazza Maidan in Ucraina.

In Italia, per esempio, James Montague ha intervistato Fabrizio Piscitelli il capo degli Irriducibili Lazio che si era dimostrato molto consapevole delle dinamiche di mercato calcistiche. Per lui era giusto prendersi una parte della torta che tutti si spartivano – società, calciatori, televisioni – tranne i tifosi. Il leader laziale ha raccontato il modo in cui si maturava in curva: 

“A quel tempo tra i quindici e i sedici diventavi un uomo. Voglio dire, guarda come siamo messi ora: non puoi essere un bullo, non puoi chiamare “frocio” un frocio, non puoi chiamare “negro” un nero, o “giallo” un cinese. È il politically correct. La gente non diventa più adulta.”

Un’altra voce italiana è quella del rispettato capo ultras atalantino il Bocia:

“I princìpi della Curva Nord 1907 erano agli antipodi rispetto a quelli degli Irriducibili Lazio. Ogni euro che arrivava veniva reinvestito nel gruppo. Non c’era un marchio registrato per il merchandising. Nessun legame col crimine organizzato. «Puoi produrre il materiale e venderlo, ma tutti i soldi tornano alla curva e all’Atalanta, perché chiunque venga scoperto a fare soldi con la squadra viene spogliato e crocifisso nudo davanti agli spalti in modo che tutti lo vedano», mi disse scherzando, ma non del tutto.”

Lo scrittore britannico viaggia dai Balcani agli Stati Uniti, dal Medio Oriente all’Indonesia – dove prova a scappare da un gruppo di hooligans del posto armati di machete. 

Affronta anche gli aspetti controversi del movimento: l’infiltrazione della criminalità organizzata e la frizione tra spirito originario degli ultras e logiche di mercato del calcio moderno. 
La diffusione di un movimento così identitario e localista passa paradossalmente da mezzi di comunicazione globali: quando la Serie A era il campionato più importante del mondo, grazie alle tv via cavo degli anni ‘80 molti tifosi di tutto il mondo volevano imitare le coreografie e i cori di quelli italiani. 

In ogni modo, non siamo sicuri che la tenerezza ultras si sposi con la dolcezza del Pandoro e con le bucce di mandarino usate per riempire le caselle della tombola.

Valentina Manni. Exit Reality. Nero Editions, 2023

Se uscirete dalla realtà non sarà certo per entrare nell’atmosfera fiabesca che immaginate. Uscirete ma non ri-uscirete mai a oltrepassare la soglia di un luogo vuoto che dovrebbe contenere centinaia di persone. E proverete nostalgia per un passato che non avete vissuto.

Mi piacerebbe iniziare subito con una citazione contenuta nel libro per introdurre l’atmosfera inquieta del testo:

“Se non si sta attenti e si noclippa fuori dalla realtà nei punti sbagliati, si finisce nelle Backrooms, dove non c’è altro che puzza di vecchia moquette umida, la follia della luce gialla, l’infinito rumore di fondo delle lampade a neon fluorescenti che ronzano fortissimo, e circa seicento milioni di miglia quadrate di stanze vuote, disposte a caso, in cui rimanere intrappolati. Dio vi salvi se sentite qualcosa che si aggira nelle vicinanze, perché sicuramente lei ha sentito voi.”
Anonimo, post di 4chan, 2019

Questo testo è una mappa concettuale delle estetiche digitali che aggregano  comunità specifiche di internet: Vaporwave e Asmr, Backrooms e Dream Pools, Weirdcore, Dreamcore, Traumacore e Corecore, Reality Shifting, Cake e Meme. 

Valentina Manni si è sobbarcata il compito di mettere in ordine e creare connessioni in un mondo vaporoso come quello della rete.  Quello che ne esce fuori sono le tracce della nostra contemporaneità, paure, suoni, sensazioni, colori, che si condensano in queste forme d’arte collettiva. 

Una delle estetiche più produttive è quella delle Backrooms, le stanze sul retro, la cui esistenza è del tutto teorica. Non è un luogo vero né verosimile, ma – come scritto dall’utente anonimo di 4 chan di cui abbiamo riportato la citazione – in cui rischi di finire dentro se scivoli accidentalmente fuori dalla realtà. Se noclippi (!). 

Nel regno dei videogiochi «noclip» è una modalità sovversiva che permette ai giocatori di infrangere le leggi fisiche del mondo virtuale, superando ogni barriera immaginabile. Muri, oggetti, persino altri personaggi diventano trasparenti, consentendo un movimento libero. Ma il gioco reagisce producendo allucinazioni, distorcendo le immagini e creando strane danze visive.

E se il Natale fosse l’allucinazione da cui noclippare per accedere a una soglia liminale artisticamente più elaborata?
No, don’t try this under the Christmas tree!

Andrea Esposito. Voragine. Il Saggiatore, 2018

Se non avete nessun rispetto per le luminarie, per le ore trascorse dai vostri parenti a cucinare, per il sorriso infantile di chi scarta il regalo, e volete solo veder bruciare l’atmosfera natalizia come acetilene, allora siete dentro le pagine giuste.
In questo romanzo non ci sono personaggi positivi in cui identificarvi, retoriche consolatorie, melodrammi facili. Non c’è la possibilità di sentirvi buoni in quanto lettori e migliori dei cafoni che non leggono, non c’è il conforto di appartenere alla causa social della vostra epoca, non ci sono spiegoni per mostrarvi l’interiorità del personaggio, niente a cui aggrapparvi: si nuota nell’acqua alta di una scrittura affilata e consapevole di uno scrittore finalista al Premio Calvino con questo testo d’esordio. 

“Il freddo aumenta il giorno e si moltiplica la notte. Il giorno dopo avanza oltre nel giorno e cresce ancora con il buio.
Il padre una notte beve chiuso in casa. Poi esce a torso nudo nell’aria fredda. Giovanni sbuca dietro al padre e gli lancia una coperta sulle spalle. Il padre alza le braccia e fa cadere la coperta. Giovanni la raccoglie. Il padre si volta come uno strappo e colpisce Giovanni con un pugno al collo. Giovanni tossisce e cade in ginocchio. Quando il padre si calma rientra in casa da solo. Siede al tavolo della cucina. Vedrai vedrai, dice sussurrando. Giovanni siede in un angolo a terra. Il padre beve e Giovanni si massaggia il collo. Ora tocca a te, ripete il padre mentre beve dalla bottiglia. Parla con la voce lenta e complicata che non è la sua. Si sforza e le parole cadono fuori dalla bocca e sul tavolo come gocce o sassi. Abbiamo dentro la stessa cosa che ci ammazza e che ci sfama. Proviamo a tirarla fuori ma non ce la facciamo. Tocca pure a te. Giovanni si alza e afferra la bottiglia e la frantuma sul pavimento in un’esplosione di liquido marrone. Prima di colpirlo il padre lo guarda solo un istante con gli occhi ciechi e senza rabbia.” 

È la storia di Giovanni che parte da una casa vicino a un acquedotto romano  – in cui il padre è uomo pazzo e feroce e il fratello muore letteralmente di freddo – e viaggia  attraverso una città distrutta tra panorami spettrali, tunnel minacciosi, cani selvaggi e uomini pronti a uccidere.

Anche la lingua del romanzo è una minaccia. Taglia il tessuto narrativo e apre squarci visionari. Una costruzione sintattica senza subordinate, una paratassi incalzante che crea una notevole velocità narrativa per il lettore

La voragine del titolo sembra assorbire il senso delle cose che abbiamo intorno. 
La voragine è anche un’amnesia collettiva. Dopo, inizia l’assedio della città: tra le pagine più potenti e meno Jingle Bells della letteratura italiana recente. E la domanda: ma chi è che sta raccontando tutto questo?

Sue Prideaux. Io sono dinamite. Vita di Friedrich Nietzsche. Utet, 2019

Questa biografia della norvegese Sue Prideaux abbraccia diversi aspetti della vita di Friedrich Nietzsche mostrandone anche risvolti inediti. Scopriamo un filosofo buffo, socievole e autoironico. Ormai sono lontani i tempi in cui si accostava il suo pensiero al nazismo (nonostante fosse morto nel 1900), ma l’autrice ci guida lungo il percorso che porta alla costruzione di questo accostamento. A comprendere come l’Übermensch è stato piegato ad argomento per la supremazia ariana.

Ma c’è di più, c’è la sorella minore di Friedrich: Elisabeth Förster-Nietzsche. Colei che si è premurata di curare la memoria manipolandone gli scritti e mostrando il fratello filosofo (mentre era in fin di vita, svuotato e folle) ai curiosi come fosse in uno zoo. 

Per capirci, nel 1935 Hitler partecipa al funerale di Elisabeth. 

“Mia sorella [è] un’oca vendicativa e antisemita”, scrive il filosofo nel 1884. 

Infatti Elisabeth salpò alla volta dell’Uruguay con Bernhard Förster, noto antisemita, per fondare una colonia tedesca. 

Questo testo ci aiuta a capire cosa intendesse Nietzsche quando parlava di schiavi:
“Vedeva i principi su cui si fondava la Nueva Germania come espressioni contemporanee della mentalità da schiavo. Superpatriottismo e antisemitismo mascheravano semplicemente il geloso, vendicativo ressentiment degli impotenti.”

Tra le altre cose Hitler una volta confessò a Leni Riefenstahl: “Non posso fare molto con Nietzsche … non è la mia guida”. In effetti, non ci sono prove che il Führer lo abbia mai letto. L’unico agitatore politico felice di riconoscere la sua influenza fu Leon Trotsky, a cui piaceva immaginare l’Übermensch come un forte operaio sovietico.

In qualsiasi modo la pensiate, Friedrich Nietzsche non ha mai arredato bene il Natale.

Gohar Homayounpour. Blues a Teheran. La psicoanalisi e il lutto. Raffaello Cortina, 2024

Questo è un libro davanti al quale il rimosso di vostra madre potrebbe letteralmente sputare lo spumante in orizzontale. Judith Butler ne ha parlato così: “Uno dei grandi discorsi sperimentali e poetici sul potenziale sovversivo della psicoanalisi contemporanea.”

Siamo a Teheran, l’autrice passa brillantemente da Kristeva a Diderot a Žižek mentre raccoglie e racconta le storie dei suoi pazienti iraniani. Ci strappa il velo dell’occidentalismo e racconta una società attraversata dalle sfumature emotive di uomini e donne alla ricerca.

Si parla ovviamente di lutto, quello dell’autrice psicanalista e gli altri che incontriamo leggendo, ma si parla anche del jazzista Duke Ellington, di politica, di migrazioni, di Kundera e di tutte le torsioni dell’anima.

“Tendeva a un’autocritica severa, di stampo narcisistico, e in quei momenti (ma solo in quelli) era noiosa, perché l’autocritica, a ben guardare, è solo un modo per proteggersi da cose più profonde: chiude il discorso, è impermeabile alla gioia, si colloca al di là del principio di piacere. Era sempre tutto colpa sua – un pensiero di onnipotenza, di narcisismo. Niente di suo la soddisfaceva. Sotto sotto sapeva che in un modo o nell’altro la scelta di adottare Hossein, il figlio di una coppia di lebbrosi, aveva molto a che vedere con il senso di colpa per la perdita di Kamyar, il suo figlio carnale, che lei chiamava Kami. Razionalmente sapeva che non era abbandono, che le avevano tolto la patria potestà, ma l’inconscio crede quello che crede, perché il senso di colpa per l’allontanamento di Kami trovava terreno fertile: si innestava a posteriori (ecco la Nachträglichkeit) su un intrico di colpe passate – strati e strati di delitti e castighi.”

L’autrice si muove tra due mondi, l’Iran e gli Usa, e sfata il preconcetto che la psicanalisi funzionerebbe solo in Occidente, o perlomeno rivela la grande capacità degli iraniani di fare libere associazioni.

Volete che i timori inconsci che si muovono nell’atmosfera come ombre illuminate a intervalli dalle lucine allegre dell’albero prendano forma? Volete veramente scoprire il recondito rimosso conservato in quel maglione giallo acido con renna marrone ricamata a mano di vostro zio?

Brigitte Vasallo. Linguaggio inclusivo ed esclusione di classe. Tamu, 2023

Credo che tutte quante saremmo d’accordo sull’opportunità di evitare l’utilizzo del termine semiocapitalismo in una conversazione civile. Eppure l’attivista spagnola Brigitte Vasallo prende in prestito il termine di Franco Berardi Bifo e affronta il problema del capitale simbolico, ovvero della capacità di ogni persona di creare valore attraverso la produzione di segni (non di beni): che siano i reel di TikTok, romanzi o meme.

Ragiona in maniera complessa intorno al termine inclusione: è probabile che questa parola già contenga il desiderio di un centro di potere che decide perché qualcuno deve essere incluso e, soprattutto, dentro cosa. Mette in dubbio che l’inclusività reale sia solo linguistica e sia costruita generando elenchi di identità.

Vasallo rivendica di essere una mujer de barrio (donna di periferia). Vuole comprendere le forme di egemonia che non passano esclusivamente attraverso soluzioni linguistiche escludenti ma anche attraverso vere e proprie fratture sociali. La critica all’ideologia deve essere la più larga possibile, insomma.

Un modo per capire il suo punto di vista è la sua difesa di una personalità televisiva spagnola considerata culturalmente trash: Belén Esteban. Una donna ricca ma con “modi da poveri”. La scintilla iniziale del libro parte da una conversazione di Brigitte Vasallo con una sua amica che riguarda proprio la pubblicazione di un libro da parte di Belén Esteban:

“«Belén Esteban sta per pubblicare un libro sulle sue letture preferite».
«Di sicuro avrà un ghostwriter (dice “uno schiavetto”) che citerà Dostoevskij» (cerco su Google come si scrive Dostoevskij).
In seguito a quella conversazione, ho passato giorni ossessionata da queste due frasi che si ripropongono come pasti mal digeriti, come gli incubi e le delusioni. La racconto a tutti e la commento, incazzata, con le mie amiche. E provo a spiegarmi, ma comunque non mi spiego per bene, non riesco a capire cosa mi infastidisca, perché ancora non capisco cosa sia. Però intuisco che il libro che sto per scrivere è contenuto in queste due frasi.”

Cosa succede quando si fa la caricatura  della casalinga eterosessuale dell’hinterland? Quando si riversa il proprio disprezzo verso il linguaggio scorretto, verso una lingua meno raffinata?
Il capitale culturale non è cultura, è capitale.

Un altro punto toccato dall’autrice è lo spettacolo dell‘avanzamento di classe: una sorta di disgusto che bisogna provare nei confronti del luogo popolare da cui si proviene. 

Insomma non è proprio il caso di proporre certi argomenti a vostra zia iper-borghese progressista che nota con disgusto il vostro mignoletto alzato mentre bevete l’ennesima bevanda gasata, figuriamoci a vostro nonno  che passerà il tempo a ripetere che il vaccino gli ha innestato un chip sottopelle che regola la temperatura del suo corpo (ma anche questi ritratti non sono, in fondo, una cripto-discriminazione da capitale culturale?).  

Chris Bachelder. L’infortunio. Sur, 2017

Romanzo americano più sottovalutato degli ultimi dieci anni? Sì, romanzo americano più sottovalutato degli ultimi dieci anni. Ma non è una scusa per regalarlo a Natale compiacendovi – come sta facendo chi scrive – dei vostri gusti letterari.

Il libro si irradia da un episodio che ha segnato la storia del football americano: nel 1985, in diretta tv, il quarterback Joe Theismann si infortuna in maniera così grave da cancellare per sempre la sua carriera atletica. Non vi importa nulla di sport, né tantomeno di uomini giganti che corrono ruggendo dietro a una palla ovale? Non è questo il cuore della storia.

Immaginate ventidue uomini che si riuniscono ogni anno da decenni in un motel di periferia per riprodurre esattamente – indossando le stesse divise, i caschi, facendo le stesse identiche mosse del 1985 – quel trauma collettivo per i ragazzini che erano quando assistettero alla scena.  

Ma non si parla mai di quello. Parlano delle loro vite rovinate, depresse, esaltanti, competitive, spaventate. Di figli, divorzi, malattie, promozioni. 

“Il matrimonio – e Jeff adesso lo vedeva in modo lampante – il ruolo del matrimonio consiste nel garantire che almeno una persona sia lì a tenerti d’occhio. Così esiste almeno una persona che sa che oggi hai cambiato l’olio della macchina, o che hai aspettato più di un’ora dal dentista, o che stai provando a rasarti con un gel nuovo, o che hai buttato via le scarpe da jogging che usavi da anni. […] E qui sta il punto, continuò Jeff. Tua moglie di tutta ’sta roba non deve preoccuparsene per niente. Sarebbe strano il contrario, disse Jeff, giusto? Perché è una bella rottura di palle, riprese, e perché anche lei ha le sue mille cazzatine a cui star dietro ogni giorno, e che per lei sono importanti. E tu la tieni d’occhio mentre sta dietro a quelle, disse Jeff. Capito? Non è che te ne deve importare davvero, disse. Basta che la tieni d’occhio.”

Attraverso rituali familiari come sigarette, il taglio di capelli, la colazione condivisa, questi uomini raccontano la loro vita ad altri uomini che ormai non fanno più parte della loro vita, se non per quel bizzarro raduno annuale. Distribuiscono i ruoli per la rappresentazione di cui non ricordano nemmeno più l’esigenza iniziale. Tra l’altro, non sono nemmeno grandi tifosi. Quindi? 

Cosa racconta archetipicamente la fine dell’epica muscolare sportiva e una inaccettabile nuova vulnerabilità maschile?
E regalare la storia di persone che si vedono una volta l’anno e preparano con estrema meticolosità un rito ormai svuotato di senso non potrebbe essere un gesto indelicato sotto Natale? 

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