L’altra sera Bill Gates era in televisione, presentava il suo libro di memorie. Raccontava del rapporto con i genitori, poi – senza cambiare espressione – ha detto che nel giro di pochi anni i lavori delle persone li farà l’intelligenza artificiale, in gran parte, quasi del tutto, meno il baseball, perché è noioso guardare dei computer che giocano a baseball. Quello che un tempo era una rarità, i frutti di intelligenze straordinarie, diventerà normale: dottori, ingegneri, insegnanti, riprodotti, nelle loro migliori prestazioni, da software. La facilità di circolazione renderà i prodotti di sorprendente intelligenza delle banalità. Questo discorso mi ha fatto pensare che è tipico di Bill Gates non cambiare espressione, che il baseball è noioso in ogni caso. E mi ha fatto pensare ai cavalli.
È difficile sovrastimare l’importanza dei cavalli nella storia dell’uomo. Con i cavalli si vincevano le guerre, si spostavano le informazioni, le merci, le persone. I re, gli eroi, i santi: chi vince è a cavallo. Nel 1872 quando l’influenza equina colpì New York tutto si fermò: niente birra nei saloon, niente viveri, niente spedizioni. È cambiato prima qualcosa, poi tutto. Secondo David Runciman abbiamo paura di fare la fine dei cavalli, diventare obsoleti, superati da una tecnologia capace di fare meglio di noi. «Potrebbero, gli umani, fare la fine del cavallo? Anche il nostro insieme di abilità potrebbe rivelarsi non abbastanza adattabile, una volta che le macchine riuscissero a fare la maggior parte delle cose che riusciamo a fare noi a una velocità molto, ma molto superiore», scrive Runciman in Affidarsi, Come abbiamo ceduto il controllo della nostra vita a imprese, Stati e intelligenze artificiali (2024). Oggi diciamo quanti cavalli ci sono in un motore, evochiamo fantasmi per dire quanti chili al secondo è capace di spostare una macchina. Matteo Wong su l’Atlantic scrive che quasi tutte le maggiori aziende AI hanno rilasciato prodotti che non assistono impiegati, ma fanno un salto in avanti: completano compiti in autonomia; sono gli agenti. Google dichiara che l’era degli agenti è iniziata con la versione di Gemini 2.0 Flash, un “cavallo di battaglia”, naturalmente.

Zero
Nel romanzo Microservi di Douglas Coupland c’è una scena in cui compare Bill Gates. Sta parlando a una conferenza. «Era come essere teletrasportato indietro nel tempo, fino alle lezioni di chimica delle superiori. Come un sogno lontano. Come il sogno di un sogno. E la gente era ipnotizzata da ogni suo gesto. Veramente proprio ipnotizzata: osservava la sua immagine e tentava di carpirne il carisma; era così strano vedere tutti che guardavano l’immagine di Bill senza ascoltare minimamente quello che stava dicendo e invece tentavano di immaginarsi il suo… segreto». È una scena rivelatrice, siamo nel 1995, il protagonista del romanzo sembra capire, attraverso il personaggio “Bill Gates” qualcosa di fondamentale per la sua epoca. «Ma il suo segreto è, credo, che non lascia trasparire niente. Avere un’espressione impassibile non significa ostentare la freddezza di James Bond. Significa ostentare il nulla. Questo è forse il cuore del sogno nerd: il cuore del potere e del denaro depositati al centro della grande tempesta tecnologica, che non deve esprimere emozione o carisma, perché l’emozione non può essere convertita in righe di codice. Non ancora».
Il peso della Generazione X: è come se avessero imparato a fabbricare candele quando stava arrivando l’elettricità. Il valore di mercato delle loro abilità è crollato.
John Cassidy, in un articolo sul New Yorker ricorda che i luddisti non erano contro la tecnologia, ma contro la distruzione dei posti di lavoro che davano loro da vivere. Non c’è bisogno di andare così lontano. Nel romanzo del 1991 Douglas Coupland ha inventato il termine “Generazione X”, nel 2025 Steven Kurotz scrive sul New York Times: «ogni generazione ha i suoi fardelli. Il peso della Generazione X è di essere cresciuti in un mondo per arrivare alla mezza età in un posto completamente sconosciuto. È come se avessero imparato a fabbricare candele quando stava arrivando l’elettricità. Il valore di mercato delle loro abilità è crollato». Le altre generazioni, i cosiddetti Millennial e GenZ, non se la passano tanto meglio strette tra il dovere sociale di spendere e il potere d’acquisto che cala. In Italia conosciamo la trentennale stagnazione dei salari, tra i più bassi d’Europa. Quando cambia un’epoca i segnali sono incerti, mentre succede non sappiamo come andrà. Può sembrare assurdo ma mi sembra una buona idea seguire le tracce dei cavalli. Scelgo tre cavalli, punto su di loro per avere indicazioni sull’epoca nuova o forse per costruire un talismano, contro la paura di scomparire.
Uno
Il primo cavallo è un portafortuna. «La pioggia aveva rigenerato tutta la campagna, nei fossi ai margini della strada l’erba era di un bel verde chiaro e dappertutto sbocciavano i fiori». Dopo ventotto anni di carriera Cormac McCarthy non aveva guadagnato un dollaro dalle vendite dei suoi libri. Trentenne, lasciato l’esercito, lasciata l’università, aveva mandato un manoscritto malamente battuto a macchina all’unico editore di cui avesse sentito parlare. Iniziava una carriera di libri complicati che piacevano alla critica senza incontrare i lettori. I primi cinque romanzi di McCarhty vanno presto fuori catalogo, fino a che Cavalli selvaggi (All the Pretty Horses) del 1992, non vince il National Book Award e diventa un film con Matt Damon. «Quiero mi caballo». Cavalli selvaggi è il primo libro di McCarthy con un protagonista, John Grady Cole, in cui il lettore possa identificarsi, ma i protagonisti, in questa fuga verso il Messico, sono i cavalli. Nel silenzio del deserto «i cavalli diffidenti si muovevano con grande cautela perché si portavano nel sangue il ricordo di posti come quelli, dove i cavalli erano stati in passato e ci sarebbero stati in futuro. Infine vide in sogno che l’ordine impresso nel cuore dei cavalli era più durevole perché era scritto in un posto in cui nessuna pioggia poteva cancellarlo».

Come nella canzone Bufalo Bill: se aumenta l’ottimismo della ferrovia, diminuiscono i cavalli
Nel 1949 immaginato da McCarthy i cavalli sono il contrario e l’antidoto del progresso, in qualunque campo si manifesti: politico, sociale, economico. Come nella canzone Bufalo Bill: se aumenta l’ottimismo della ferrovia, diminuiscono i cavalli. In questo romanzo di McCarthy, il romanzo che lo trasforma in una celebrità letteraria, i cavalli sono l’altro della modernità.
Due
Il secondo cavallo è un desiderio. Siamo di nuovo in Messico, forse per caso o forse perché «quando tutto il mondo civilizzato sparirà il Messico continuerà a esistere», come dice il poeta. L’8 novembre del 1519 gli spagnoli credono di sognare quando vedono per la prima volta Tenochtitlan, che diventerà Città del Messico. «Eravamo ammutoliti tutti, per lo spettacolo che avevamo davanti, e non credevamo ai nostri occhi: grandi città sorgevano dalla terra, e più grandi ancora sul lago. Il lago stesso formicolava di canoe. Ponti e ponti interrompevano l’argine; davanti a noi stava la grande città di Messico», scrive Bernal Díaz del Castillo. La città, capitale dell’impero mexica; circondata dai vulcani, sembrava volare sul grande lago Texcoco, con le piramidi sospese tra acqua e cielo. Quattro anni dopo, Motolinia, francescano che raggiunge la Nuova Spagna nel 1523, elenca le piaghe portate dagli spagnoli: l’epidemia di vaiolo, le sanguinose battaglie per la conquista di Città del Messico, la guerra civile tra le popolazioni native, le carestie, la crudeltà dei conquistatori, la riduzione in schiavitù degli indigeni – marchiati a fuoco in faccia dai proprietari, le miniere dove scavare alla ricerca dell’oro, fino alla morte. Vicino alla miniera di Guaxaca: «fino a mezza lega di distanza tutt’intorno, e lungo una gran parte della strada, non si faceva altro che camminare sui cadaveri o su mucchi di ossa, e gli stormi di uccelli e di corvi che venivano a divorarli erano così numerosi da oscurare il sole».
Quando entrano a Città di Messico, finalmente Cortés, il condottiero, incontra Moctezuma, l’Imperatore. I due si erano inseguiti tra ambasciate e imboscate, bugie e strategia. Il romanzo Il sogno Álvaro Enrigue racconta le ore che precedono l’incontro tra Cortés e Moctezuma, quando da poco è iniziata la scoperta, al massacro poco manca. Enrigue ci fa sedere a tavola nel palazzo imperiale, i castigliani sono ospiti dei mexica, i profumi delle deliziose zuppe e della cioccolata con la cannella si mischiano al puzzo dei sacerdoti che indossano mantelli di pelle umana. Tutti si chiedono cosa farà Moctezuma, che non partecipa al banchetto e passa il tempo da solo, sempre più assorto nei suoi pensieri, drogati da funghi e visioni. Il comportamento dell’Imperatore è incomprensibile ai suoi generali, a sua sorella e moglie e, naturalmente, agli spagnoli. Enrigue costruisce un romanzo nei labirinti del palazzo, un sogno in un sogno, dove la stanza segreta è il desiderio dell’Imperatore. Moctezuma, più di tutto, vuole i cavalli. Bestie mai viste, simili a alci senza corna, forti eppure mansuete. Intravede una tecnologia dalle possibilità infinite.

Secondo Tzetan Todorov ne La conquista dell’America. Il problema dell’“altro” la conquista spagnola anticipa la modernità: il desiderio di arricchirsi è sempre esistito ma quello che è nuovo con i conquistatori è la subordinazione di ogni altro valore all’arricchimento. «Questa omogeneizzazione dei valori per mezzo del denaro è un fatto nuovo, che preannuncia la mentalità moderna, egualitaria e attenta all’economia». E Cortés anticipa l’uso strategico della fama, la manipolazione del discorso per ottenere un obiettivo politico. Non è importante la verità, ma l’obbedienza dell’apparenza a uno scopo preciso. Per Cortés le armi più che uccidere devono spaventare. Gli spagnoli devono sembrare degli dei, come la profezia Quetzalcoatl che torna a riprendersi il regno, e i cavalli devono essere pensati immortali, le loro sepolture accuratamente nascoste.
Tre
Il terzo è il cavallo del dubbio. Quando internet era una landa da esplorare che celava misteri; quando Twitter era ancora Twitter, l’account @Horse_ebooks suscitava sensazione. Sembrava che un bot, un software programmato per pescare a caso frasi da libri a proposito di cavalli, avesse acquisito, non si sa come, un soffio di coscienza e quelle frasi invece che casuali somigliavano a motti sapienziali, pronunciate da un novello oracolo, volevano dire di più di quello che dicevano, forse erano indicazioni preziose: «non ti preoccupare se non sei un computer», per esempio. In un modo tutto umano i lettori cercavano di trovare senso in brandelli di frasi come: «dove ci sono le parole, le fantasie e tutti i desideri, c’è questo terribile poliziotto, anche lui vivo». Il messaggio «Soffri di sudorazione incontrollabile? Ti capitano episodi improvvisi, intensi e travolgenti», pubblicato l’11 settembre 2013 era un implicito riferimento all’attentato delle Torri gemelle come momento di paura collettiva condivisa o una semplice coincidenza? Le domande intorno all’account circolavano: è uno spambot, un’idea di marketing per promuovere un film o erano macchine che stavano testando nuove forme di intelligenza artificiale? Era un’installazione artistica. Nel suo funzionare come test di Turing, un’installazione artistica riuscita, capace di catturare lo spirito del tempo in frase apparentemente banali come: “Everything happens so much”.
Don t worry if you are not computer
— Horse ebooks (@Horse_ebooks) May 19, 2013
Siccome è impossibile definire cosa sia l’intelligenza stabiliamo che se un computer riesce a fingersi un operatore umano, allora mette all’opera l’intelligenza.
Il test – o gioco – di Turing è il famoso articolo in cui il logico inglese Alan Turing si chiede se le macchine possono pensare, che cosa sia l’intelligenza e simula un dialogo tra un computer e una persona in cui il computer si rifiuta di comporre una poesia ma gioca volentieri a scacchi. Viene lanciata un’idea di grande successo: siccome è impossibile definire cosa sia l’intelligenza stabiliamo che se un computer riesce a fingersi un operatore umano, allora mette all’opera l’intelligenza. L’idea ha una conseguenza: imitare il pensiero umano può portare alla sostituzione degli umani con dei computer. Parte dell’operazione artistica di Jacob Bakkila oltre all’account Twitter @Horse_ebooks, è il canale YouTube Pronunciation Book, a rivedere oggi il video di maggior successo è facile riconoscere un’inquietudine familiare, l’ansia di essere imprigionati in una macchina o di essere trasformati in una macchina.
Quattro (a cosa servono i talismani nell’epoca degli agenti artificiali)
Dunque cosa ce ne facciamo di queste scommesse sui cavalli, non abbiamo cose più serie di cui occuparci? Ho evocato un cavallo che esorcizza la modernità, un altro che l’anticipa, il terzo a rappresentare il dubbio e l’ansia della fuga: intrappolati dentro un computer, siamo umani o artificiali? Si potrebbe prenderli nel modo semplice: consigli di lettura. Scoprire o riscoprire la prima opera con fortuna di pubblico di Cormac McCarthy, il bel romanzo di Álvaro Enrigue. Il classico di Tzedav Todorov che ci ricorda quanto sia problematica l’incontro con l’altro. Recuperare @Horse_ebook come reperto di archeologia digitale: come ci si divertiva prima dei meme brainrot. Ma possiamo fare di più: attivare il nostro talismano e perché il talismano funzioni dobbiamo tornare da dove siamo partiti. Secondo David Runciman stati e imprese, non sono solo artificiali, caratteristica comune a molti elementi della società moderna, ma hanno una particolare agency, capacità di avere effetti nel mondo, di agire: stati e imprese sono “macchine decisionali di ultima istanza”, cioè sono “persone artificiali”. Anzi «Lo Stato è un agente artificiale forte. La sua competenza è relativamente illimitata, anche se la sua intelligenza è estremamente limitata». David Runciman allarga la definizione di enti artificiali a quegli organismi sociali capaci di agire, come appunto, il governo degli Stati Uniti o l’azienda Apple.
Quando i cavalli furono messi da parte, a farlo furono organizzazioni nelle quali essi non avevano alcuna voce in capitolo.
Nel confronto tra umano e artificiale non si tratta tanto di misurare la differenza tra intelligenze umana contro artificiale, quanto di stabilire alleanze tra umano e artificiale, di arginare la possibile alleanza tra stato-artificiale e tecnologia artificiale che tenga in poca considerazione le esigenze umane. Qui tornano utili i cavalli, in particolare la differenza fondamentale tra le persone e i cavalli. Secondo Runciman «l’aspetto per cui gli umani sono diversi dai cavalli nella maniera più evidente è che possono protestare. In questo siamo opposti». In una scena di Cavalli selvaggi di McCarthy vediamo quanto poco ci vuole a domare un cavallo, incredibilmente poco. Bastano pochi minuti, saperlo fare e un cavallo è ammaestrato, una volta per tutte. Runciman continua: «Abbiamo un’agency che si esprime nella capacità di comunicare le nostre preferenze. Quando i cavalli furono messi da parte, a farlo furono organizzazioni nelle quali essi non avevano alcuna voce in capitolo. Noi abbiamo voce in capitolo nelle organizzazioni che potrebbero scegliere di farci fuori. Faremmo meglio a usarla». Già, ma per dire cosa?

Un ottimo esempio è la distinzione tra tecnologia usata per aumentare le capacità umane o per automatizzarne le funzioni. Erik Brynjolfsson individua una trappola nell’intelligenza artificiale che imita le cose che fanno gli umani, la chiama “la trappola di Turing”. Brynjolfsson ci chiede di immaginare che i greci, tremilacinqucento anni fa, avessero a disposizione una formidabile squadra di ingegneri che potesse costruire macchine per fabbricare vasi di terracotta, tessere tuniche, pascolare greggi e cantare per la guarigione dei malati, insomma sostituire i lavori delle persone. Certo gli antichi greci avrebbero guadagnato una vita di ozio e un aumento esponenziale della produttività sul lavoro, ma al costo di annullare ogni prospettiva di sviluppo tecnologico. Per Brynjolfsson è chiaro che la maggior parte del valore che la nostra economia ha creato dal tempo degli antichi greci a oggi viene dall’invenzione di cose nuove, di beni che neanche i re e gli antichi imperatori potevano permettersi e non da versioni a basso costo di beni esistenti. Allora perché ci affanniamo a produrre intelligenza artificiale che imita le persone invece di investire in intelligenza artificiale che produca cose completamente nuove aumentando le capacità delle persone, invece di provare a sostituirle? Automatizzare il lavoro delle persone produce meno valore dell’aumentare le capacità delle persone con la tecnologia, ma per politici, imprenditori e professionisti della tecnologia sembra la strada più semplice, quella che garantisce guadagni immediati a chi possiede le piattaforme tecnologiche. Dal punto di vista di Brynjolfsson è anche una strada certa per aumentare la concentrazione della ricchezza in pochissime mani. Come nota John Cassidy, che riprende Brynjolfsson nell’articolo del New Yorker su luddisti, lavoro e AI, per invertire la tendenza bisognerebbe cambiare il sistema di tassazione e incentivare gli investimenti in tecnologia che aumenta le capacità umane invece di sostituirle con repliche di minore livello a minore costo. Una tecnologia che faccia cose completamente inedite, aumentando le possibilità umane, sembra una bella idea.
Dunque ecco a cosa serve un talismano: a ricordare che i cavalli non chiedono di cambiare il sistema fiscale, non si battono per le belle idee, non protestano contro le amministrazioni, non fondano aziende che fanno le cose in modo diverso e non fanno causa contro monopoli che impediscono alle aziende innovative di emergere. Il talismano serve a ricordare che per quanto poco ci voglia a domare le persone, a differenza dei cavalli, le persone non sono domate per sempre. Intanto gli uomini che sono diventati i più ricchi del mondo grazie al possesso delle piattaforme tecnologiche, siano Sam Altman, Mark Zuckerberg, Elon Musk o Bill Gates, possono parlare di fine del lavoro come lo conosciamo, senza cambiare espressione, senza provare, apparentemente, nessuna emozione; come se stessero solo sognando.