Nel 2016, in seguito all’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti e al referendum sulla Brexit, l’Oxford English Dictionary elesse il termine “post-verità” come espressione dell’anno. All’epoca il dibattito pubblico si concentrava, non senza apprensione, sull’eventualità di un nuovo paradigma per il quale la verità oggettiva di un evento sarebbe ormai risultata un dato secondario rispetto all’effetto che l’informazione, vera o falsa che fosse, avrebbe provocato in chi la riceveva. Come a dire non è vero quel che è vero, ma è vero quel che piace.
Secondo questa nuova configurazione, un qualsiasi evento reale (una dichiarazione politica, un massacro, un attentato terroristico, un naufragio di migranti) sembrava poter diventare oggetto di discussione, come se si trattasse di un prodotto di intrattenimento in merito al quale, complici i social media, ognuno avesse la libertà di esprimere un parere.
Quattro anni prima che l’espressione “post-verità” salisse agli onori della cronaca, un ragazzo di vent’anni aprì il fuoco in una scuola elementare a Sandy Hook in Connecticut uccidendo 27 persone tra cui 20 bambini. In quell’occasione il commentatore radiofonico Alex Jones, già noto per le sue teorie complottiste legate all’estrema destra americana, sostenne pubblicamente che l’attentato era stato frutto di una messa in scena da parte di attivisti del controllo delle armi, e che i genitori dei bambini erano attori.
La negazione di un evento reale è di per sé l’anima delle teorie del complotto, ma l’episodio di Sandy Hook costituì a mio parere un primo passo verso la direzione che comunque l’intera società occidentale avrebbe intrapreso di lì a poco. Perché c’erano i corpi dei bambini, c’erano i filmati, le foto del sangue, c’era l’assassino con la sua biografia, c’erano famiglie devastate e una comunità sconvolta. Ma questo non impedì a Jones di esprimere il proprio “parere” in merito. E questo “parere”, amplificato dalla piattaforma radiofonica, raggiunse anche un numero impressionante di persone disturbate, alcune delle quali cominciarono a minacciare i genitori dei bambini uccisi con telefonate, appostamenti e lettere il cui contenuto era quasi sempre del tipo “smettete di fingere, io conosco la verità”. Si era insomma creata una tribù, o una bolla, di chi sosteneva che il massacro di Sandy Hook fosse una messinscena. Nel 2022 Jones è stato costretto a un risarcimento di 45 milioni di dollari in seguito al quale ha dichiarato bancarotta, e molti degli stalker sono stati arrestati, ma il sassolino nel frattempo si è trasformato in valanga.
Totale libertà di scelta infinita
A distanza di anni mi pare infatti evidente che la questione della negazione della realtà (insieme all’altra faccia della medaglia: l’affermazione di una non-realtà) si sia inasprita, e che ormai esistano una miriade di fazioni, più o meno estremiste e protette dalle proprie bolle, convinte della propria verità assoluta riguardo a qualunque argomento: che si tratti della pandemia, dello scacchiere geopolitico, della forma del pianeta Terra o di quello che si dovrebbe o non si dovrebbe fare col proprio corpo, per fare solo alcuni esempi. Il mio timore è che queste bolle possano via via farsi sempre più piccole fino a coincidere con micro-comunità violente prima e con ogni singolo essere umano poi, esacerbando la sensazione di incomprensione e solitudine che il sistema capitalista in cui siamo immersi già alimenta.
Di certo l’alfabetizzazione tecnologica, sempre un passo indietro rispetto ai progressi vertiginosi della manipolazione audiovisiva, gioca la sua parte, ma non credo che da sola basti a spiegare quello che sta succedendo. A costo di essere accusato di cripto-complottismo, sarebbe ingenuo da parte mia non sospettare che esistano enormi interessi economici su scala globale che sfruttano e alimentano quello che David Foster Wallace, nell’introduzione a Best American Essays 2007, definiva come “rumore totale”, e cioè l’abisso che deriva dalla “totale libertà di scelta infinita su cosa scegliere di frequentare e rappresentare e collegare”, una forma allucinatoria e vertiginosa di rapporto con la realtà che ormai sembra riguardi tutti, nessuno escluso.
L’alleanza tra intelligenza artificiale e generazione di immagini deepfake sempre più sofisticate potrebbe sancire un ennesimo scarto tra la capacità di districarci tra ciò che è vero e ciò che non lo è (sempre che ci importi ancora).
Alle soglie di un ulteriore passaggio storico dove l’alleanza tra intelligenza artificiale e generazione di immagini deepfake sempre più sofisticate potrebbe sancire un ennesimo scarto tra la capacità di districarci tra ciò che è vero e ciò che non lo è (sempre che ci importi ancora), mi sembra interessante al riguardo osservare l’evoluzione del nostro rapporto col settore dell’intrattenimento.
A tale proposito mi è capitato di vivere recentemente due esperienze grazie alle quali ho avuto la netta sensazione che il mio rapporto con la fruizione del reale abbia ormai subito uno slittamento significativo e, temo, irreversibile.
La prima esperienza riguarda la visione al cinema di Mission: Impossible – Dead Reckoning – parte uno in una calda sera dello scorso Luglio.
Non mi ritengo un particolare appassionato del genere, ma nei mesi precedenti mi è capitato di abbandonarmi a un binge watching dei precedenti capitoli (insieme a tutta una serie di dad movie tra cui la saga dei Bourne, James Bond e John Wick) in un periodo della mia vita di padre in cui avevo bisogno di vedere eroi wasp moralmente solidi che facevano esplodere cose e ne uscivano illesi.In realtà ci sono andato perché, come molti, ero stato raggiunto dalla campagna di marketing del film in cui si vedeva Tom Cruise, nel backstage del film, saltare con la moto da una rampa sospesa su un dirupo un numero sconcertante di volte, il tutto senza controfigure, come spesso nei suoi film. Visti i miei recenti trascorsi compulsivi con gli action movie sarebbe sciocco non pensare che io non rientrassi nel target del film, ma la campagna in questo caso andava a toccare un punto fondamentale, una nicchia specifica che, a mio parere sarà sempre più determinante per il futuro delle produzioni ad alto budget. La voce da imbonitore collegata alla campagna infatti sembrava dire: “In mezzo a tanta fuffa di computer grafica e effetti speciali, volete voi, cari maschi occidentali over 25, assistere a uno spettacolo in cui l’attore protagonista corre davvero il rischio di farsi male? Non c’è trucco, non c’è inganno, venghino siori venghino!”
È l’unica cosa che vuoi davvero vedere, il prodotto che hai acquistato con il biglietto: la messa in scena della realtà.
Che poi a pensarci bene è un po’ il contrario dei prestigiatori: ti svelo prima il trucco, così sarai curioso di assistere alla magia. Non mi dilungo sul valore artistico del film (un capitolo decente del franchise la cui trama, incentrata su una specie di intelligenza artificiale impazzita, sembra essa stessa scritta da un A.I., come sostenne ironicamente Paul Shrader).
Ma la scena della moto, che strategicamente arriva dopo due ore abbondanti di film, è il vero gancio che tiene attaccati allo schermo. Perché quel momento è l’unica cosa che vuoi davvero vedere, il prodotto che hai acquistato con il biglietto: la messa in scena della realtà. Nel film la rampa diventa il picco di una montagna (un pizzico di CGI non si nega a nessuno), ma la scena e la dinamica è la medesima che hai già visto nel dietro le quinte, e il baratro è davvero un baratro, e Cruise è davvero un pazzo furioso.
Questa tendenza – che ha senso proprio in un momento in cui negli action di intrattenimento proliferano effetti speciali sempre più complessi – vede un precedente importante in Christopher Nolan e la campagna di marketing collegata a Dunkirk, film del 2017 sulla seconda guerra mondiale, in cui si assicuravano gli spettatori che quelli usati sul set erano veri aerei, pilotati da veri piloti. (“Nessun trucco! Venghino siori!”)
Ricollegandoci al discorso della manipolazione delle immagini e del deepfake, c’è da dire che per il livello tecnologico a cui è arrivata oggi l’industria del CGI, penso sarebbe stato comunque molto difficile per lo spettatore medio distinguere se gli aerei nel film di Nolan fossero veri o no. Però il fatto stesso di saperlo faceva parte integrante di quella specifica esperienza cinematografica.
Questa tendenza che oserei definire “bio” di un certo cinema di massa contemporaneo penso sia interessante perché va a colmare un vuoto.
La mia seconda esperienza personale riguarda l’acquisto di un videogioco, Red Dead Redemption 2.
Sviluppato dalla famosa Rockstar Games (quelli di Grand Theft Auto, per capirsi), si tratta di uno sparatutto a mondo aperto a tema western, che racconta di una banda di fuorilegge che nell’America tra il 1899 e il 1900 si trova a dover fare i conti con una serie di cambiamenti sociali, in un mondo che sembra volerli escludere per sempre dai propri giochi. Il tramonto del west e l’alba della modernità, insomma.
Ho detto che è stato un acquisto compulsivo (avrò mica problemi di compulsione patologica?) perché non mi capitava di acquistare un nuovo videogioco da almeno 15 anni. Ero rimasto indietro, forse per una sorta di autodifesa dalla ludopatia, rispetto al progresso di un’industria mostruosa che, a quanto pare, vale da sola quanto quella cinematografica e musicale messe insieme.
Ma, complice il Covid e la reclusione forzata, mi sono detto: vediamo cosa c’è di così incredibile in questo capolavoro di cui tutti parlano (e che dalla sua uscita nel 2018 ha venduto oltre 70 milioni di copie in tutto il mondo, per capirsi). Da un po’ ero infatti stato preso di mira dall’algoritmo di Youtube, che continuava a propormi video dai titoli tipo: “Ecco perché RDR2 è il miglior gioco di sempre” o “20 dettagli pazzeschi che non avete notato” o “Questo è il motivo per cui sono servite 2000 persone per svilupparlo”.
Come per gli action movie, non mi ritengo un grande fan del western, e mi annoia l’idea di un mondo narrativo in cui duelli e rapine si alternano a lunghe cavalcate solitarie. Ho cominciato però a giocare sapendo, più o meno consciamente, che quello che stavo cercando era qualcos’altro. Perché il gioco ovviamente è bello e merita tutta la fama che ha, grazie anche a una trama complessa e ricca di colpi di scena, personaggi ben delineati, una colonna sonora da urlo e una grafica che negli anni ’90 me la sognavo. Ma via via che progredivo nell’avventura e l’esplorazione dello sconfinato ambiente fatto di boschi, paludi, montagne e cittadine minerarie, quello che realmente volevo non era più un gioco. Non in quel momento della mia vita, in cui fuori, con la pandemia in corso, stava succedendo qualcosa di incomprensibile e soprattutto inintelligibile, che mi precludeva un’analisi razionale degli eventi. Nella penombra del mio salotto, mentre in casa finalmente tutti dormivano, non mi interessava davvero sparare, o avanzare nelle missioni, e neanche scoprire uno dei tanti finali possibili della storia. Quello che ricercavo era la simulazione di quello che avrei potuto sperimentare anche fuori. Volevo vedere come cambia la luce nel bosco quando piove. O quanto ci mette una carcassa di cervo a decomporsi. O il modo, sempre diverso, in cui la neve copre le mie impronte. O il dettaglio – che come molti altri non è funzionale al gioco, ma proprio per questo sublime – del ciclo vitale di un uccello che cattura una trota nel fiume.
Così tra una missione principale e l’altra mi sono trovato spesso a smontare da cavallo solo per fermarmi a guardare un tramonto con la purezza di un bambino, accompagnato dalla sensazione malinconica e al tempo stesso straniante che quel tramonto fosse più vero dei veri tramonti, come se intrinsecamente possedesse qualcosa di più prezioso per il solo fatto di essere stato creato con maestria da qualcuno. Quando finalmente spegnevo la console e mi infilavo a letto, una domanda continuava a tormentarmi: cos’è successo al mio rapporto con i tramonti per essere costretto a riscoprirne la bellezza attraverso gli occhi di un cowboy digitale?
Cos’è successo al mio rapporto con i tramonti per essere costretto a riscoprirne la bellezza attraverso gli occhi di un cowboy digitale?
Poi una sera, dopo aver raggiunto a piedi la cima di un monte dal quale era possibile ammirare in lontananza il luccichio del mare (giuro di aver sentito nelle narici il salmastro), finalmente ho capito: è questo il vero prodotto che la Rockstar Games mi ha venduto, spacciandolo per videogioco, o meglio nascondendolo all’interno di un videogioco come la perla in un’ostrica: la possibilità di provare un’emozione “vera” di fronte alla riproduzione di qualcosa che nella realtà esterna non mi suscita quasi più niente.
Anche qui, come in MI, si tratta di un prodotto che va a colmare un vuoto, e il vuoto, ancora una volta, è la nostra voglia frustrata di verità.
Un barlume di verità in un epoca di post-verità
Perché se è vero che siamo tutti chiusi in bolle ermetiche fatte da verità (o non-verità) parziali e soggettive, la mia sensazione è che mai come oggi esista una domanda diffusa di verità. O meglio di “sensazione di verità”. Ed è qui che la grande bolla del mercato, che tutto contiene, si dimostra pronta a rispondere a questa domanda crescente. Circondati da verità opinabili, di fronte all’imminente tramonto delle ideologie e delle grandi religioni organizzate, divisi in tribù sempre più polarizzate, i nostri cervelli da homo sapiens bramano comunque la sensazione che si prova (o si dovrebbe provare) di fronte alla verità. E il buon vecchio mercato è più che mai pronto a vendercela.
Perché se è vero che siamo tutti chiusi in bolle ermetiche fatte da verità (o non-verità) parziali e soggettive, la mia sensazione è che mai come oggi esista una domanda diffusa di verità. O meglio di “sensazione di verità”.
Quindi da una parte dello spettro dell’intrattenimento abbiamo un’estetica videoludica pseudo-realista che risulta emotivamente più soddisfacente della realtà naturale, proprio perché generata da qualcuno che ha deciso di dedicare una cura maniacale al dettaglio grazie a un alto budget a disposizione. Mentre dall’altra vengono proposti dispositivi di intrattenimento audiovisivo che al loro interno contengono sacche di “realtà”, che col tempo una buona parte dell’industria si era persa per strada per ragioni economiche (ovviamente costa meno creare un aereo in CGI che filmarne uno d’epoca, così come pagare uno stunt al posto di rischiare la pelle dell’attore protagonista)
Un intrattenimento bio e gourmet, che ovviamente si potranno permettere solo le grandi produzioni, solo loro potranno garantirci di soddisfare quella particolare nicchia di bisogno (indotto?), che dice molto di dove stiamo andando, e che risponde a una richiesta di realtà più vera di quella che già c’è, ma che ormai galleggia alla deriva, immersa fino al collo nel “rumore totale”.
Quello che forse stiamo cercando è una cornice tangibile che ci rassicuri sul fatto che il pezzetto di “esperienza della verità” che abbiamo acquistato non nasconda secondi fini e che non sia soggetta al caos dell’opinabilità.
Perché se della realtà esterna (ipercomplessa, imprevedibile, incomprensibile) non ci fidiamo più, allora quello che forse stiamo cercando è una cornice tangibile che ci rassicuri sul fatto che il pezzetto di “esperienza della verità” che abbiamo acquistato non nasconda secondi fini e che non sia soggetta al caos dell’opinabilità, un perimetro ben definito che ci garantisca che quel tramonto è sì generato al computer, ma non ci verrà mai spacciato per un tramonto reale, e che quel salto con la moto è accaduto davvero in un certo momento del passato, e che a noi è offerto il privilegio di saperlo con certezza.
La domanda di mercato è quindi quella di un hic et nunc sempre più difficile da esperire sotto un costante assedio di stimoli, insieme alla richiesta disperata di un barlume di verità in un epoca di post-verità. E anche se questo prodotto iper specifico dovesse costare milioni di dollari a chi lo produce e un quantitativo spropositato di tempo e attenzione da parte di chi lo fruisce, temo che ben presto saremo tutti disposti a correre il rischio di questa transazione sfavorevole in cambio di quell’unico, estatico momento in cui possiamo abbandonarci alle sfumature di un tramonto nel deserto visto con gli occhi di un avatar digitale, o in cui la nostra frequenza cardiaca aumenta grazie a un attore miliardario che si lancia in un baratro senza controfigure, anche solo per poter poi dire alla persona seduta accanto a noi “l’ha fatto davvero”.