27.02.2025

La sostenibilità è un privilegio: Antonio Galdo sfata il mito green

La green economy è diventata strumento di separazione di classe. Dalla mobilità elettrica agli edifici sostenibili, dall'alimentazione bio alla moda eco-friendly, Il mito infranto rivela che la sostenibilità è un’etichetta virtuosa che promette di salvare il pianeta ma rischia di aumentare le disuguaglianze sociali.

È uscito un libro molto interessante per Codice Edizioni che affronta il vero significato del concetto di sostenibilità nella società contemporanea. L’autore del Il mito infranto, Antonio Galdo, sostiene che la sostenibilità, anziché ridurre le disuguaglianze e promuovere un modello di sviluppo equo, sia diventata uno strumento di divisione sociale
Il mercato ha reso i prodotti sostenibili un privilegio per pochi: dalle auto elettriche agli alimenti biologici, dagli elettrodomestici efficienti alle cure mediche avanzate. Tutto ciò che è green è accessibile solo a chi può permetterselo. Questo ha generato una frattura tra la cosiddetta classe verde, formata da consumatori benestanti, e la classe grigia, intenta a mantenere stili di vita più inquinanti. 
Molte volte non per scelta, ma per necessità​.
Lo abbiamo intervistato perché ci sembrava una cassetta degli strumenti particolarmente adatta a smontare alcune idee semplicistiche sulla sostenibilità. E per provare a immaginare un altro orizzonte politico e tecnologico.

SM: La sostenibilità è quasi una nuova forma di disuguaglianza. C’è stato un momento della tua vita quotidiana – al di là delle analisi e delle ricerche – in cui hai intuito questa dinamica?

AG: Sono partito dallo spazzolino per i denti in bambù, un acquisto del quale ero molto fiero. Dopo qualche giorno il suo manico era completamente annerito, mi dava una sensazione di lercio, e allora ho iniziato a riflettere sui consumi chiamati green e su quanto davvero siano utili. Poi sono andato in profondità, e ho iniziato a rileggere, uno per uno, i 17 obiettivi dell’Agenda Onu 2030 per lo Sviluppo sostenibile. Più andavo avanti, ricostruendo il punto in cui siamo, e più ho capito che la falsa sostenibilità, quella in circolazione, sta ottenendo un effetto perverso, opposto a quanto auspichiamo. Aumentando fratture, diseguaglianze, rancori, separazione. A partire proprio da una nuova casta che si è formata, i consumatori verdi, quelli che hanno l’auto elettrica e lo spazzolini di bambù, prodotti-simbolo di un lungo catalogo di oggetti green che un consumatore medio non può permettersi.

SM: Cosa auspica l’Agenda ONU 2030 per lo Sviluppo Sostenibile e perché stiamo andando in un’altra direzione?

AG: L’Agenda è stata scritta nel 2015 ed è l’ultimo segnale di vita che ha dato l’Onu. Poi è iniziata una lenta eutanasia, e sono arrivati i fallimentari appuntamenti annuali delle Conferenze sul clima che nel libro propongo di sospendere fino a quando non ci sarà un accordo preliminare sui provvedimenti da adottare su scala mondiale contro la crisi climatica. L’importanza dell’Agenda è che si tratta di una bussola, per tutti, governi e cittadini, imprese e lavoratori, singole persone e comunità, per realizzare un’autentica sostenibilità.

Conclusione logica: la sostenibilità, senza ridurre le diseguaglianze, non esiste.

Vi segnalo due cose che fanno capire perché, al momento e speriamo provvisoriamente, sta vincendo la falsa sostenibilità. Primo: l’Agenda Onu non parla genericamente di sostenibilità, ma di sviluppo sostenibile. Questo significa che i 17 obiettivi puntano, insieme, a modificare il modello di sviluppo che adesso si regge su un uso dissennato delle risorse naturali, una catena di sprechi, e un allargamento della forbice tra una minoranza di persone super ricche e una maggioranza di uomini e donne che si stanno impoverendo. In secondo luogo, i primi sei obiettivi dell’Agenda non riguardano questioni ambientali in senso stretto e la lotta contro il cambiamento climatico arriva solo con il numero 13 del piano. Nei primi punti si parla di sconfiggere la povertà, azzerare la fame, salute e istruzione per tutti, acqua pulita e servizi igienici ovunque, parità di genere. Conclusione logica: la sostenibilità, senza ridurre le diseguaglianze, non esiste. E’ solo uno slogan, una parola vuota e priva di senso.

SM: Nel tuo libro parli dell’affitto dell’auto elettrica da parte di tua figlia: 500 euro al mese. Cosa significa rispetto al vecchio modello di sviluppo (Ford, Fiat) e quello verso cui stiamo andando?

AG: L’auto è sempre stata un consumo evocativo del benessere che si allarga, di un ceto medio che cresce, anche grazie all’ascensore sociale che sale. Il marchio Volkswagen si traduce con l’espressione “auto del popolo”, e il boom economico in Italia si è realizzato quando la popolazione maggiorenne si è motorizzata, e ha scoperto il piacere di viaggiare in auto, anche grazie all’Autostrada del Sole costruita in appena tre anni, a sua volta l’opera infrastrutturale che ha unificato davvero il Nord e il Sud del Paese. Con l’auto elettrica, la cui diffusione su larga scala resta il traguardo per un futuro sostenibile nel campo della mobilità, si è creato un circuito perverso: il suo costo la classifica come un consumo per ricchi e\o benestanti, non per il ceto medio nella sua interezza. Un sondaggio di Areté ha dimostrato che gli italiani under 35 desiderano l’auto (anche solo in affitto), ma a benzina, a diesel, o al massimo ibrida. Pensano, e hanno ragione, di non potersi permettere l’auto elettrica, che intanto ha contribuito a un’altra anomala: prima del Covid il prezzo medio di una macchina in Italia era di 21 mila euro, adesso è balzato a 30mila euro. L’auto elettrica, se non diventa un prodotto di largo consumo, non sarà mai sostenibile. E gli unici che finora sono riusciti a ottenere questo risultato sono i cinesi, che infatti già adesso stanno acquistando più auto elettriche che a benzina oppure a diesel. In Cina il modello base di un’automobile elettrica è 8mila euro, meno della metà di quello che costa in Italia. E mi chiedo: fino a quando pensiamo di poter fermare i cinesi imponendo i dazi sulle loro auto elettriche?

SM: E, per esempio, cosa c’entrano le proteste dei Gilet gialli francesi con la questione?

AG: Mettiti nei panni di un automobilista o di un camionista che viaggia ancora con un veicolo a benzina, a diesel oppure a gas.

anche grazie alle sue tasse si concedono larghi incentivi a chi acquista un’auto elettrica che lui non potrà mai permettersi

Viene marchiato come una sorta di moderno untore, un cittadino che inquina e sporca il pianeta; è una vittima quotidiana degli aumenti del prezzo dei carburanti, che non si fermano mai; anche grazie alle sue tasse si concedono larghi incentivi a chi acquista un’auto elettrica che lui non potrà mai permettersi; intanto il suo veicolo è prossimo a essere considerato “fuorilegge”. Il minimo che può fare un camionista o un automobilista in queste condizioni è protestare e far sentire la sua voce, che urla quanto la falsa sostenibilità alimenti rancore e ulteriori diseguaglianze, persino sulla strada.

SM: Nel tuo libro citi uno studio in cui si afferma che la vita media di un televisore è passata da 9 a 5,6 anni e rilevi che ogni modello di iPhone ha un ciclo di vita più corto del precedente. Perché le aziende puntano sull’obsolescenza programmata?

AG: È una scelta miope, coerente con un modello di sviluppo obsoleto, fondato sugli acquisti compulsivi e sempre in crescita e sullo spreco degli oggetti, che nessuno pensa più di riparare e intanto, restando all’universo degli elettrodomestici e degli apparecchi elettronici, durano meno rispetto al passato. A me sta bene la lavatrice che parla, il frigorifero che puoi accendere mentre sei al ristorante con gli amici, la lavastoviglie intelligente, anche se si tratta di funzioni dal mio punto di vista poco attraenti, ma a una condizione: devono durare almeno quanto i vecchi modelli. E invece, solo per fare un esempio, ma il discorso vale per tutti gli oggetti di questo genere, la vita media di un televisore è crollata, nell’ultimo decennio, da 9 a 5,6 anni. In questo caso la falsa sostenibilità non solo è un passo indietro, ma rasenta il girone delle truffe.

SM: La sostenibilità viene “indossata bene” dal settore della moda?

AG: Difficilmente la moda diventerà mai un settore davvero sostenibile per due motivi. Le tecniche di produzione e di consumo, per loro natura, impongono un uso molto alto delle risorse naturali e la creazione inarrestabile di rifiuti: per produrre un jeans servono comunque dai 7mila ai 15mila litri di acqua, e l’intero settore, dal lusso alla fast fashion, si regge su un modello in base al quale bisogna comprare capi di abbigliamento anche quando non servono, per poi andare a gonfiare discariche e intere cittadine sommerse dalla spazzatura prodotta dalla moda. In pratica, e questo è il secondo motivo che rende la moda per sua natura poco sostenibile, di fronte al fatto che il consumatore medio non tocca, durante ogni stagione, circa un terzo del suo guardaroba, lasciandolo marcire negli armadi, la reazione quasi istintiva delle aziende produttrici è quella di creare nuove seduzioni, nuovi desideri, e così motivare nuovi acquisti. La (falsa) sostenibilità sembra fatta su misura per superare la crisi ormai strutturale del settore, con la pioggia di etichette sui prodotti green, riciclabili, sostenibili, riutilizzabili. E con materiali naturali che hanno un solo connotato in comune: il costo altissimo, scaricato sul consumatore.

SM: Come spieghi nel tuo libro, l’ONU ha un’enorme budget (e 17 agenzie specializzate, 14 fondi e un segretariato generale con 17 dipartimenti) che spende per più di due terzi nel personale. Una struttura burocratica elefantiaca. E poi i vari Summit e COP sul clima non sono in grado di produrre cambiamenti rilevanti. Perché e come si potrebbe fare altrimenti?

AG: Il nervo scoperto della globalizzazione è proprio questo: abbiamo reso globali merci, prodotti, mercati, monete. Ma si è ristretto il campo d’azione della politica, che intanto ha perso il suo primato, e ci ritroviamo a fare i conti con una crescente forza di nazionalismi e autarchie. Servirebbero, per dirla con una immagine di sintesi, più Europa, più Onu, più organizzazioni internazionali. E invece ognuno pensa di affrontare, per esempio, il cambio di paradigma energetico, decisivo per affrontare la crisi climatica, secondo i propri interessi e scavalcando qualsiasi accordo su scala planetaria, mentre le sedi dove si dovrebbero definire politiche per la sostenibilità condivise, le COP, sono state sequestrate dai lobbisti dell’industria dei combustibili fossili. Ho scoperto che partecipano questi summit in un numero persino maggiore dei rappresentanti degli stati, e infatti riescono a impedire qualsiasi decisione concreta e concordata.

SM: Ok, c’è Trump, ma la Cina e gli Stati Uniti stanno realmente investendo in energie pulite e quanto può fare la differenza questo approccio?

AG: Trump e Xi Jinping, come Putin, hanno in comune una sola convinzione: affrontare da soli, senza mediare con le altre nazioni, le questione energetiche, ambientali, economiche e sociali.

L’America di Trump ha stracciato il Green News Deal, ma già quella di Biden, nei fatti, per la sua sicurezza energetica aveva puntato tutto sul fracking

Risultato: la Cina è allo stesso tempo il Paese che più inquina il pianeta, ma anche quello che ha fatto i maggiori investimenti nelle energie rinnovabili, che saranno realizzate per il 60 per cento del totale mondiale proprio in Cina, entro il 2030. L’America di Trump ha stracciato il Green News Deal, ma già quella di Biden, nei fatti, per la sua sicurezza energetica aveva puntato tutto sul fracking, una tecnica di estrazione del petrolio e del gas dalle rocce, con bombe d’acqua sparate a un’enorme profondità. Una tecnologia devastante per il territorio, per le risorse naturale, e anche per la salute dei cittadini che risiedono nelle zone del fracking.

SM: In che senso esiste una sanità di classe legata alla sostenibilità?

AG: Lo dimostrano una serie di ricerche scientifiche delle autorità sanitarie di grandi città italiane come Roma, Milano e Torino: ormai il livello della salute dei cittadini segue, in direzione opposta, il percorso di autobus, tram e metropolitane. Più ci si sposta dal centro verso la periferia più aumentano in modo significativo le percentuali delle persone che si ammalano di gravi patologie, come il cancro, il diabete, i problemi cardiovascolari, l’obesità. Inoltre una minoranza di privilegiati conosce gli ospedali, come le scuole pubbliche, che funzionano grazie a un eccellente personale sanitario e a buoni livelli organizzativi. E vanno a curarsi, o a studiare, dove hanno queste garanzie. Per gli altri un semplice ricovero, come l’iscrizione di un figlio a scuola, sono delle puntate al tavolo delle roulette: ti può andare bene, ma anche molto male. Queste si chiamano sanità e istruzione di classe.

SM: Quali potrebbero essere delle soluzioni per rendere la sostenibilità “veramente” più inclusiva e accessibile a tutti?

AG: Non esiste una soluzione, ma tante soluzioni, ispirate all’ottimismo, alla volontà e allo stesso obiettivo di una reale sostenibilità. Ne cito alcune. Restituire alla politica il suo primato, con la discesa in campo di nuove generazioni che, al momento, hanno grande sensibilità su questi temi, ma non mostrano alcuna voglia di rovesciarla nel perimetro dove si prendono le decisioni pubbliche, quelle che contano. Attuare politiche di redistribuzione della ricchezza: il mondo sarà sempre più insostenibile se i ricchi continueranno a pagare tasse insignificanti rispetto ai loro guadagni e ai loro patrimoni, mentre i lavoratori, come nel caso dell’Italia, hanno stipendi e salari bloccati da vent’anni. Affrontare, ciascuno nel proprio ambito e nella propria comunità, stili di vita più coerenti con la vera sostenibilità. Esempi: Perché continuano ad aumentare i consumi di plastica? Possibile che non riusciamo a ridurre gli acquisti e lo smaltimento di questo materiale? Abbiamo davvero bisogno di tanta acqua in bottiglie di plastica?

SM: Un altro tema che affronti è la sostenibilità urbana. Roma sembra perduta, ma perché il modello verde di Milano rischia di essere uno specchietto per allodole e dove invece dovremmo guardare?

AG: Milano è una città con un buon livello dei servizi pubblici, dai trasporti alla raccolta dei rifiuti. Ma non è una metropoli sostenibile. Anzi. La città sostenibile, cito l’Agenda Onu, è inclusiva, mentre Milano è sempre più spaccata, andando dal centro verso la periferia. E il primo parametro per misurare l’inclusività di una città è il modo come affronta il problema del caro-alloggi. A Milano, a forza di grattacieli, palazzi e condomini verdi, si è creata una bolla speculativa nel settore immobiliare che ha portato a un boom dei prezzi sotto il segno della (falsa) sostenibilità. Così abbiamo famiglie che vivono in edifici green dove pagano più di mille euro al mese di condominio per i consumi energetici legati piante e verde; e giovani che studiano e lavorano dovendo prevedere un budget di almeno 1.000 euro per affittare una stanza in centro.

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