11.03.2025

L’AI non è fascista: bias culturale, propaganda e arte digitale 

Da Baudelaire alla Scuola di Francoforte, ogni innovazione tecnologica ha attirato critiche apocalittiche. Le accuse di bassa qualità e propaganda rivolte all'arte generata dall'AI ripetono errori storici già visti con altri media. Ma condannare la tecnologia anziché l'uso che ne facciamo è un errore che lascia campo libero a chi sa sfruttarla.

La recente polemica sull’“AI Slop” – una definizione coniata per squalificare come spazzatura i contenuti generati dalle intelligenze artificiali – è problematica da moltissimi punti di vista. C’è chi come Ted Gioia rimpiange un non meglio precisato “buon gusto” perduto nei meandri della storia dell’arte, mentre altri come Gareth Watkins accostano addirittura l’AI al fascismo, sostenendo che porti un’estetica intrinsecamente destrorsa – qualunque cosa voglia dire.

Questi autori non si chiedono nemmeno per un attimo se lo “slop” è davvero una novità introdotta dall’AI o se le persone che creano queste immagini abbiano una qualche responsabilità in merito. Eppure a ben guardare la società produce contenuti di scarsa qualità da ben prima dell’avvento degli algoritmi e la propaganda di bassa lega esisteva senza bisogno di reti neurali. Né si può seriamente sostenere che dall’uso del mezzo derivi un’estetica univoca (fascista, kitsch o quant’altro).

Mancanza di autenticità?

Le critiche all’AI, quando rifiutano di riconoscere l’apporto creativo, la responsabilità umana e le potenzialità del mezzo, rischiano di diventare l’alibi teorico del “media panic” e della critica aprioristica alla tecnica. È un atteggiamento rigido e miope, a cui trovo preferibile l’impegno a utilizzare l’AI in modo responsabile, consapevole e artisticamente interessante, così come promuovere e sviluppare un’alfabetizzazione visiva che permetta di analizzare con accuratezza le immagini. Penso inoltre che prima di fare proclami altisonanti si debba prendere in considerazione l’insegnamento della storia dell’arte e della tecnologia.

A titolo di esempio, cercherò di sintetizzare alcune obiezioni sollevate da chi detesta quest’arte de-generata. Ted Gioia, nel suo articolo The New Aesthetics of Slop, parla di un’esplosione di materiale superficiale e dozzinale, creato facilmente grazie a piattaforme digitali e algoritmi generativi. Secondo lui, questa proliferazione di “slop” – che si tratti di immagini, testi, musica o altri media – ci starebbe trascinando verso un appiattimento generale, premiando la quantità al posto della qualità e normalizzando la mediocrità. Parallelamente, in AI: The New Aesthetics of Fascism, Gareth Watkins ipotizza che tali strumenti favoriscano una sorta di estetica autoritaria, in cui immagini patinate e standardizzate esprimono un immaginario semplificato e gerarchico, affine alle retoriche di estrema destra. L’idea alla base è che la meccanizzazione della creatività, nutrita dai dati provenienti da un contesto già intriso di pregiudizi, finisca per replicare e potenziare narrative discriminatorie o populiste.

Questi giudizi dipingono l’AI come un mezzo inevitabilmente alienante, estetizzante in senso regressivo e politicamente reazionario.

A queste due principali obiezioni se ne aggiungono altre più sottili, spesso presentate come corollari di una supposta meccanizzazione creativa. La prima è la mancanza di autenticità, secondo cui l’AI sopprimerebbe la mano dell’artista, rendendo il risultato asettico e impersonale. La seconda è l’automatismo come forma di decadenza estetica, basata sulla convinzione che la facilità con cui si producono testi o immagini equivalga a un’assenza di sforzo creativo genuino. Infine, la questione dei bias, secondo cui gli algoritmi, essendo addestrati su dati già intrisi di pregiudizi, finirebbero per amplificare narrazioni discriminatorie o populiste – a vantaggio soprattutto delle destre estreme. Considerati insieme, questi giudizi dipingono l’AI come un mezzo inevitabilmente alienante, estetizzante in senso regressivo e politicamente reazionario.

Argomenti simili a quelli che oggi alimentano il timore di un’estetica de-generata dall’AI avevano già fatto capolino nel XIX secolo, quando le fotografie iniziarono a diffondersi come mezzo accessibile alle masse. Charles Baudelaire, in un celebre commento al Salon del 1859, scriveva parole molto dure sulla fotografia, definendola “il rifugio di tutti i pittori mancati, troppo poco dotati o troppo pigri per completare i loro studi”. Questa posizione riassumeva la paura che l’invenzione di Daguerre potesse trascinarci in un mondo di brutte copie meccaniche, abbandonando la ricerca del bello autentico. La storia ci ha mostrato come la fotografia, lungi dal distruggere la pittura o dallo svilire l’arte, abbia dato vita a una serie di linguaggi artistici autonomi e ibridati. Certo, Baudelaire aveva ragione quando temeva che la nuova tecnologia avrebbe causato un’inondazione di opere di cattivo gusto – lo vediamo tutt’oggi – e lo stesso accade e accadrà con le IA. Ma con ogni mezzo creativo è inevitabile che la media della nostra produzione sia di bassa qualità.

Nessuna tecnologia può definirsi neutrale, perché assorbe e si modella all’interno di precisi contesti sociali, politici ed economici. È vero per l’IA ma anche per la pittura e per la fotografia, spesso strumentalizzate per finalità pubblicitarie o propagandistiche. Storicamente, l’ampiezza d’uso dei nuovi media è risultata sempre molto più ricca di quanto i detrattori iniziali fossero disposti a concedere e condannare l’intelligenza artificiale perché alcuni ne fanno un uso propagandistico o triviale equivale a rifiutare la stampa nel suo complesso a causa di volantini politici o poster di regime. Se c’è un principio che la storia delle innovazioni tecniche ci insegna è che la vera rivoluzione sta nella pluralità di utilizzi: esistono sì gli abusi e le distorsioni, ma esistono anche le sperimentazioni virtuose, l’ibridazione con altri media, la nascita di generi nuovi. Le AI, pur con i loro limiti e difetti sono strumenti estremamente flessibili, in grado di supportare processi creativi in campi diversi: dall’arte digitale alla ricerca scientifica, dalla composizione musicale alla didattica. Non possono essere liquidate dal giudizio sommario di chi, di fatto, non usa né conosce il mezzo.

La riproducibilità tecnica dei bias

Un altro punto centrale nelle critiche all’AI riguarda la presunta mancanza di autenticità, come se queste tecnologie generassero immagini o testi senza autore. Si dipinge il processo come una sorta di pulsante magico, capace di sfornare innumerevoli copie prive di una visione artistica. Ma questa lettura dimentica quanto l’agency umana sia l’unica in campo. Proprio come il fotografo sceglie l’inquadratura, la luce, l’istante dello scatto – plasmando l’opera ben oltre la semplice pressione di un pulsante – allo stesso modo chi lavora con i generatori AI deve costruire il prompt e, soprattutto, intervenire sulle numerose opzioni e parametri che i software mettono a disposizione.

Non si tratta soltanto di scrivere una manciata di parole e attendere un output: gli artisti che operano con strumenti come Stable Diffusion, Midjourney o altri sistemi, sviluppano oltre al prompting (che è tutt’altro che semplice) competenze specifiche su image prompting, referenze stilistiche, fine tuning, steps, CFG scale, editing locali, retexture, sulla scelta del modello generativo adatto allo scopo e molto altro. C’è poi chi integra con materiali personali, chi esegue correzioni in post-produzione, chi ibrida strumenti tradizionali (disegno, pittura, collage) con passaggi di elaborazione AI… tutto ciò rende l’opera finale spesso indistinguibile da una realizzata con tecniche convenzionali, sebbene i critici si accorgano solo di quelle mal riuscite. Pensare che la rapidità di generare immagini accettabili equivalga ad annullare l’apporto creativo umano significa confondere l’automazione di alcuni passaggi con l’eliminazione del processo stesso. È vero, le AI possono partorire contenuti in pochi secondi, ma la differenza tra un’opera banale e una di qualità risiede proprio nella sensibilità e nella competenza di chi ne governa il flusso. 

Un capo d’accusa meno ingenuo contro la creatività con AI ruota attorno al tema dei bias. In questa visione, poiché i modelli sono addestrati su dataset che riflettono pregiudizi e ineguaglianze, i loro output non potrebbero che replicare – se non amplificare – tali storture, finendo per servire interessi autoritari o discriminatori. È vero infatti che se non si è consapevoli dei bias le IA possono replicarli senza accorgersene – li hanno imparati da noi, come molti critici sembrano dimenticare. Ogni dato è di per sé un “bias”: anche senza l’ausilio di un algoritmo, qualunque comunicazione umana e qualunque corpus di testi o immagini trasmette una prospettiva parziale, derivante dal contesto personale e culturale in cui è immerso e da cui è nato. Il punto dunque non è tanto la presenza di questi bias (che esisteranno sempre), ma la nostra capacità di notarli, modificarli e limitarne gli effetti.

Se l’estrema destra sembra abile nello sfruttare l’AI per finalità propagandistiche, non è perché quest’ultima abbia un’anima fascista.

Se ci troviamo davanti a modelli chiusi, sviluppati da grandi aziende che non forniscono informazioni sui dataset o sulle modalità di addestramento, risulta a volte complicato intervenire per correggere gli output. Non è affatto impossibile, anzi, in alcuni casi è molto semplice, soprattutto con software come Midjourney che offrono un alto livello di personalizzazione delle opzioni. Ma è senza dubbio una sfida per chi lavora con IA. Esistono inoltre progetti open source, dove chiunque abbia le competenze e i mezzi può personalizzare, filtrare o fare fine tuning su set di dati più adeguati ai propri scopi, epurandoli dai bias sgraditi per inserire… i propri. 

I bias presenti però non sono tutti di destra, tutt’altro. Se l’estrema destra sembra abile nello sfruttare l’AI per finalità propagandistiche, non è perché quest’ultima abbia un’anima fascista; più semplicemente, alcune forze politiche non si fanno scrupoli nel cavalcare strumenti emergenti con logiche virali. La sinistra (o qualunque altra area culturale) potrebbe fare lo stesso, anziché rinunciare a priori e condannare un intero mezzo. Tanto più che, paradossalmente, molti contenuti esplicitamente razzisti o discriminatori incontrano filtri e censure nei sistemi AI commerciali, rendendo niente affatto facile la loro riproduzione. Di fronte a chi vorrebbe gettare via il bambino con l’acqua sporca, accusando l’AI di alimentare retoriche intolleranti, possiamo ribattere che la strategia più lungimirante è proprio imparare a padroneggiare questi strumenti. 

Heidegger, la scuola di Francoforte e altri scettici

Una parte di queste critiche all’AI sembra affondare le radici in un sospetto verso la tecnica che, se da un lato è tipico di alcuni filoni della sinistra novecentesca (ispirati soprattutto alla Scuola di Francoforte), dall’altro richiama, per vie traverse, le riflessioni di Heidegger sul carattere totalizzante dell’apparato tecnologico. Adorno e Horkheimer coniarono il concetto di industria culturale per denunciare i meccanismi di manipolazione dei mass media e la riduzione dell’arte a merce. Heidegger, dal canto suo, con la nozione di Ge-stell (l’“impianto”, o “dispositivo” che incastra l’essere in una visione meccanica) descriveva la tecnica come una forza totalizzante, capace di trasformare il mondo e l’essere umano in semplici risorse.

Queste riflessioni continuano a esercitare il loro influsso, ma rischiano di degenerare quando vengono riproposte senza considerare l’evoluzione del contesto storico, sociale e tecnologico. Dopo tutto anche i grandi filosofi hanno detto sciocchezze colossali; per Heidegger la macchina da scrivere era un esempio paradigmatico di come la tecnica moderna alteri l’essenza dell’uomo e il suo rapporto con l’essere e la verità: “La macchina da scrivere strappa la scrittura dal dominio essenziale della mano, cioè dal dominio della parola” – affermazioni invecchiate male, dato che macchine da scrivere e computer sono qui da un po’ e la produzione intellettuale umana non è stata “strappata dal dominio della parola”, qualunque cosa significhi. 

Il limite di certa sinistra, in questo senso, risiede nella tendenza a una condanna radicale della tecnica, intesa come fonte di ogni alienazione. In questo modo si dimentica la tradizione hacker e libertaria, che da sinistra ha rivendicato il libero accesso ai codici, la condivisione della conoscenza, la possibilità di intervenire sui mezzi di produzione digitale e non. Invece di rifiutare la tecnica una sinistra coerente con i suoi ideali di emancipazione dovrebbe reclamare maggiore trasparenza, aprire i dataset, spingere per modelli open source, per corsi di formazione e laboratori diffusi.

Se ripercorriamo le vicende di ogni innovazione tecnologica, dai primordi della stampa alle macchine fotografiche, dalle sperimentazioni del cinema fino all’avvento della computer graphic, notiamo un copione simile: da una parte, i catastrofisti che vedono nel nuovo mezzo la fine del “vero” talento o della “vera” arte; dall’altra, gli entusiasti che proclamano l’avvento di un’epoca radiosa. In realtà, come mostra la storia dell’arte e della comunicazione, questi opposti non colgono la complessità di una tecnologia che può essere declinata in modi molteplici.

Imparare lo strumento

Le intelligenze artificiali generative non fanno eccezione. Nonostante quel che sostengono i critici è palese che siano strumenti capaci di versatilità estrema: possono alimentare la propaganda, certo, ma di qualunque tipo e schieramento. L’inquietante video dell’impero capitalista di Trump su Gaza, ad esempio, era nato come video satirico ed è stato poi ricontestualizzato astutamente dal presidente. Altri video satirici fatti con AI, come quello in cui bacia i piedi a Musk, non erano così facilmente disinnestabili. Rimanere impigliati nella narrazione di un’“AI Slop” populista o fascistoide significa dimenticare che ogni medium nasce ibrido, erratico, costantemente riplasmato dall’uso effettivo che ne fanno le persone. È il motivo per cui non dovremmo relegare l’AI a strumento del nemico, bensì rivendicarne l’apertura.

È proprio per contrastare i monopoli privati sulle piattaforme AI, infatti, che sostengo con convinzione le soluzioni open source, a mio parere il modo migliore per contrastare sia il controllo monopolistico che i bias algoritmici. Offrendo un’alternativa al software a pagamento delle big tech —addestrato peraltro su dati collettivi—l’open source può bilanciare l’influenza delle corporation con uno strumento aperto al pubblico. Sebbene personalizzare soluzioni open source richiede risorse e competenze, non c’è paragone rispetto allo sforzo necessario per creare queste tecnologie da zero. Non si tratta di una soluzione perfetta, ma al momento è la strategia più promettente—di gran lunga preferibile rispetto a rifiutare l’IA in toto.

L’estetica kitsch non nasce con le IA ed è trasversale a qualunque credo politico, perché è legata a un’educazione all’immagine poco approfondita.

Le obiezioni mosse da critici come Ted Gioia e Gareth Watkins portano con sé molteplici errori. Confondono anzitutto arte con produzione visiva – nemmeno la destra estrema ha mai spacciato questi materiali per arte: è propaganda, e leggerla con le categorie dell’arte è un errore logico non indifferente. Confondono inoltre le responsabilità umane con quelle del mezzo tecnologico, con la cocciuta miopia di chi non vuol vedere i casi in cui lo strumento è usato come mezzo di propaganda contraria. Infine, scambiano l’uso amatoriale del mezzo a una corrente artistica. L’estetica kitsch non nasce con le IA ed è trasversale a qualunque credo politico, perché quando non è espressione di un gusto personale (privo di bandiere) è legata a un’educazione all’immagine poco approfondita. Poco approfondita come, verrebbe da dire, la ricerca di questi critici, che sembrano ciechi ai moltissimi artisti che usano le IA con tutt’altre estetiche e contenuti. Ma sono certo che pur di confermare la loro tesi direbbero che è tutto “slop”, nonostante le palesi diversità qualitative.

Piuttosto che usare la scusa dello “slop” per giustificare a posteriori la nostra paura e avversione sarebbe meglio imparare lo strumento, appropriarsene e deviare il suo sviluppo verso lidi che ci sembrano più congeniali. L’alternativa è concedere un ennesimo vantaggio ai propri avversari solo per assecondare i nostri pregiudizi. Watkins scrive che: “Le nostre armi più efficaci contro l’IA, e contro la destra che l’ha fatta propria, potrebbero non essere gli scioperi, i boicottaggi o la forza della dialettica. Potrebbero invece consistere nel rispondere “cringe”, “fa schifo” e “sembra una cagata.”. Che dire: se questo è il piano, Trump ha senz’altro le ore contate.

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