Cosa è Internet? E cosa è diventata? Le appassionate discussioni sulle enormi potenzialità della rete sembrano lasciare sempre più spazio a dibattiti su come proteggersi dai suoi rischi. La percezione che le piattaforme di intrattenimento più note propongano ormai un’accozzaglia di contenuti ridondanti e spesso pericolosi e che la loro pervasività abbia effetti dannosi sulla salute mentale (soprattutto per bambini e adolescenti) è sempre più diffusa. A fine marzo la giornalista Serena Mazzini ha depositato alla Camera la prima proposta di legge italiana che punta a regolamentare lo sharenting, vale a dire l’esposizione dei minori sulle piattaforme da parte dei genitori. Preoccuparsi per le sorti di Internet e l’incolumità degli utenti significa per forza di cose chiamare in causa le responsabilità delle grandi società che ne gestiscono i servizi, come Google, Apple e Meta.
Capitalismo della sorveglianza
“Partiamo da un presupposto: Internet è un’invenzione fantastica”, ci dice Valerio Bassan, strategist e giornalista che sul tema cura da tempo Ellissi, una newsletter dedicata a “quello che succede all’intersezione tra media, business, tecnologia e strategia digitale”, come si legge qui. “Quando per lavoro mi sono iniziato a occupare di modelli di business dei media in modo approfondito, ho capito che il problema in realtà era ben più grande e riguardava i modelli di business della rete”.
È da tempo che le menti più eccelse del mondo del giornalismo si scervellano nella ricerca di modi per salvarlo. Il paywall (la barriera d’accesso a certi contenuti informativi, previo pagamento. Bassan ne parla in questa puntata di Ellissi) è stato pensato per offrire una via concreta per il sostentamento economico delle redazioni, ma contribuisce a restringere l’accesso all’informazione di qualità lasciando incontrastata la diffusione di fake news.
Ma sopra, o attorno, a tutto questo prende forma un tema denso e pregnante, che riguarda la forma che Internet ha assunto ai nostri giorni. La rete è diventata una «infrastruttura tecnologica multistrato che mira a succhiare quante più informazioni sensibili possibili, con l’obiettivo di renderci sempre più “utenti” e sempre meno “persone”», ha scritto Bassan in Riavviare il sistema. Come abbiamo rotto Internet e perché tocca a noi riaggiustarla, (sì, Internet andrebbe reso in italiano al femminile in quanto traduzione di “rete”, net), il suo primo libro uscito nel 2024 per Chiarelettere editore.
I social ci fanno davvero stare bene? Che impatto hanno sulla vite degli adolescenti? O ancora: in che modo grandi piattaforme di e-commerce come Amazon hanno influenzato le dinamiche di mercato?
“Riavviare il sistema risponde all’esigenza di affrontare la questione nel momento storico in cui ci troviamo”, commenta l’autore: “In particolar modo durante la pandemia abbiamo capito che senza la rete non funzioniamo come società. Di pari passo con la crescente attenzione verso tematiche di impatto sociale come il collasso climatico e la privatizzazione della sanità,abbiamo iniziato a porci domande del tipo: i social ci fanno davvero stare bene? Che impatto hanno sulla vite degli adolescenti? O ancora: in che modo grandi piattaforme di e-commerce come Amazon hanno influenzato le dinamiche di mercato? Stiamo maturando sempre maggior consapevolezza su una tecnologia data troppo spesso per scontata e che è invece una casa fragile, con fondamenta e muri traballanti. Questo grazie anche a scandali come Cambridge Analytica e ai lavori di ricerca di Aaron Swartz e Shoshana Zuboff”.
La professoressa Zuboff ha coniato l’espressione “capitalismo della sorveglianza” (su cui ha scritto questo testo indispensabile) per intendere il sistema di potere in cui le grandi piattaforme di Internet, che controllano ogni aspetto dello spazio online, si servono degli utenti per colmare la loro incessante fame di dati. Le informazioni che più o meno consapevolmente regaliamo alla rete vengono così scrutate, analizzate e dirottate per definire strategie commerciali e generare ricavi.
In alcuni casi sono state anche determinanti per dirottare l’opinione pubblica, come dimostra l’emblematico caso che ha coinvolto la società di consulenza britannica Cambridge Analytica. Un’inchiesta giornalistica coordinata dal quotidiano britannico The Guardian e altre testate rilevò che la società aveva messo le mani sui dati di 87 milioni di utenti di Facebook, la maggior parte residenti negli Usa, per creare contenuti politici polarizzanti al servizio delle strategie dei repubblicani per le presidenziali del 2016, poi vinte da Donald Trump. Non un bug, una falla, ma l’esatta dimostrazione delle possibili conseguenze di un modello di business estrattivo capitanato da Big Tech sempre più pervasive, che raccolgono informazioni e le mettono a disposizione di attori con fini tutt’altro che nobili.
Non un bug, una falla, ma l’esatta dimostrazione delle possibili conseguenze di un modello di business estrattivo capitanato da Big Tech sempre più pervasive, che raccolgono informazioni e le mettono a disposizione di attori con fini tutt’altro che nobili.
Ma nella storia di Internet, che Riavviare il sistema racconta con dovizia di particolari, sono esistiti anche progetti nati dalla volontà di condividere conoscenza e contrastare lo sviluppo che ha condannato la rete a limitarsi dentro i “recinti privati” dei grandi colossi della tecnologia. Quando si parla dell’idea di Web come bene comune non si può non commemorare Aaron Swartz e le sue battaglie per indirizzare l’onda tecnologica dei primi anni Duemila verso idee di trasparenza e diffusione libera della cultura e della scienza.
Un approccio partecipativo
Forum promotori di una visione comunitaria della rete emergono già negli anni Novanta, rappresentando un’eccezione per la fase del cosiddetto “Web 1.0”, dove Internet in sostanza si configura come una struttura piramidale e la creazione dei contenuti è appannaggio di pochi produttori. The WELL, una delle comunità online più longeve di Internet (che ancora esiste e si basa sullo stesso modello di business di allora), nasce per ospitare utenti desiderosi di uno spazio che sia al sicuro dalle brame arriviste dei mercati.
“Dopo esser passata da progetto militare ad accademico, nella fase della commercializzazione Internet entra nelle case delle persone”, spiega Valerio: “Al contempo si scatena una battaglia di visioni contrapposte. Per semplificare, troviamo da una parte quella di John Perry Barlow, attivista per i diritti digitali e teorico del cyberspazio, per cui Internet è un non-luogo, indefinibile e senza confini, da sperimentare in maniera libera e anonima. Dall’altra c’è Al Gore, che prima ancora di diventare vicepresidente degli Stati Uniti si riferisce alla rete di sistemi di comunicazione digitale come a una “information highway”. Il progresso di Internet viene osservato attraverso la lente delle opportunità commerciali e la metafora è chiara: concepire il Web al pari di un’autostrada, un misto di investimento pubblico e privato, che chiede un pedaggio e monitora le persone che l’attraversano.
La metafora è chiara: concepire il Web al pari di un’autostrada, un misto di investimento pubblico e privato, che chiede un pedaggio e monitora le persone che l’attraversano.
I social media e le altre piattaforme che ci sembrano gratuiti in realtà non lo sono. E la colpa è tutta di quello che Ethan Zuckerman, inventore del primo pop-up e poi diventato attivista dei diritti digitali, ha definito il “peccato originale” di Internet. La pubblicità, come si legge nel libro, «ha democratizzato il Web, che se non avesse potuto monetizzare l’attenzione dei suoi utenti avrebbe impiegato molto più tempo a imporsi al pubblico». Ma ha anche condotto a un inesorabile processo che ci ha reso ignari partecipanti su base volontaria dell’arricchimento delle piattaforme, che sono state capaci di perfezionare questo modello di business e acquisire così un potere economico e politico gigantesco. “Per anni è stato impossibile solo pensare di regolamentarle, anche perché molte di queste società sono nate nella cornice neoliberista statunitense. Non c’era nessun interesse a limitare il loro potere e sono state lasciate libere di fare quello che volevano, compreso uccidere la competizione acquisendo ogni nuovo attore sul mercato”.
C’è anche una questione terminologica che si lega all’utilizzo volutamente improprio del termine “piattaforma”: “Usarla presuppone che l’azienda si ponga come facilitatrice di un servizio e che risponda alla richiesta mossa dall’utente. Delinea uno spazio online aperto e neutrale dove domanda e offerta si incontrano. Invece l’Internet che viviamo oggi è sempre più soggetto a intermediazione e sempre più centralizzato”, spiega Valerio. In sostanza, una tecnologia nata come una struttura decentralizzata è ormai soggetta alla centralizzazione dal punto di vista commerciale: soldi e potere concentrati nelle mani di pochi.
Riavviare tutto è davvero possibile? Non basterà spegnere e riaccendere, riflette l’autore nella parte conclusiva del libro: «Servirà aggiornare il software della rete più di una volta, risolvere un bug dopo l’altro». “Oltre alla premessa doverosa su quanto sia preziosa Internet, vale la pena aggiungere che non predico nessun tentativo idealistico di disconnessione, perché non credo che succederà mai né che sia davvero una soluzione”, commenta a noi l’autore: “Serve semmai dominare alcune dinamiche e combattere per risolvere le disuguaglianze che caratterizzano questo sistema, tra cui quelle di accesso alla rete”.
La prima necessità, continua Bassan, “è una presa di consapevolezza maggiore nel dibattito pubblico. Spesso la diamo per scontata perché abbiamo l’impressione che non abbia una ricaduta fisica, ma Internet non è qualcosa che semplicemente esiste. Questa semmai è la nostra percezione in quanto occidentali. I fronti bellici, invece, possono avere forti ripercussioni. Lo abbiamo visto di recente, con il taglio di cavi sottomarini che portano Internet nei paesi africani e che hanno messo offline intere nazioni”.
Le piattaforme di intrattenimento e quelle di e-commerce basano il loro funzionamento sull’esistenza di milioni di lavoratori della gig economy, di bassa manovalanza.
La rete ha confini fisici, sotto forma di server, data center e migliaia di chilometri di cavi transoceanici in fibra ottica che assicurano la connessione. Inoltre, le piattaforme di intrattenimento e quelle di e-commerce basano il loro funzionamento sull’esistenza di milioni di lavoratori della gig economy, di bassa manovalanza: rider e lavoratori della logistica, ma anche etichettatori e moderatori di contenuti (qui un sempreverde articolo scritto da Clara Mogno sulla sua esperienza come lavoratrice per Mechanical Turk, il servizio del colosso Amazon che subappalta i microlavori digitali – e sottopagati – a gig workers in tutto il mondo).
Valerio Bassan sostiene che è doveroso “chiedere alla politica di interessarsi a quello che accade alla rete”, portando a esempio i successi ottenuti con i nuovi regolamenti europei che prendono il nome di Digital Markets Act e del Digital Services Act. “Al contempo noi, in quanto consumatori, dobbiamo porci dei dubbi etici su come funziona e che conseguenza ha navigare. Nel libro scrivo che nell’ottica di entrare in conflitto con le piattaforme che ci vogliono creatori di contenuti, di recensioni e di acquisti, dobbiamo diventare invece destroyer”. In sostanza, ci si chiede di abbracciare piccole azioni di contrasto individuale nel processo di costruzione di azioni coordinate e di una presa di coscienza collettiva.
Il libro dedica spazio a sperimentazioni mosse da queste volontà. La più nota, probabilmente, è il cosiddetto Web 3, un filone teorico che propone di scardinare lo status quo accentrato delle Big Tech basandosi sulla blockchain, un registro digitale che funziona in maniera aperta, condivisa e distribuita. Ma negli ultimi anni sono emerse piattaforme leader che controllano una vera e propria industria, come nel fenomeno più eclatante associato a questo ecosistema, quello della criptovalute.
Rischi di tramutarsi in Crypto Bro a parte, restano aperti altri fronti di battaglia. L’interoperabilità è considerato da molti osservatori la tecnologia che potrà condurre al ripensamento dei modelli attuali. Prevede in sostanza di aprire alle collaborazioni inter-piattaforma, come dimostra il caso di Mastodon: no-profit, open source, interoperabile. O anche il progetto di Tim Berners-Lee (l’inventore del World Wide Web, per intenderci), che sta provando a risolvere i problemi della sua creazione. Come ci spiega Bassan, “l’ex ingegnere del CERN sta lavorando all’idea che le persone tornino a essere proprietari dei dati che producono. L’idea è quella di creare un database personale e di scegliere in maniera del tutto intenzionale a quale azienda garantire l’accesso, contrastando quindi l’idea che all’interno del perimetro della piattaforma le società che operano possano mettere mano su tutte le informazioni che desiderano”.
“Non credo che abbiamo bisogno di altre soluzioni tecnologiche a problemi tecnologici, anche perché diventerebbero appannaggio delle stesse aziende che stanno tentando di governare il metaverso”
“Io mi reputo un ottimista per quanto riguarda Internet e al contempo uno scettico quando si parla di tecno-soluzionismo: non credo che abbiamo bisogno di altre soluzioni tecnologiche a problemi tecnologici, anche perché diventerebbero appannaggio delle stesse aziende che stanno tentando di governare il metaverso, mettendoci sopra la propria etichetta. L’approccio che condivido è di tipo “protopistico”, prendendo in prestito un termine coniato da Kevin Kelly, ex direttore di Wired: diversa dall’utopia e dalla distopia, la protopia tende a un miglioramento incrementale, graduale e a lungo termine”.
Un’altra fase di Internet sembra essersi chiusa. Serve ripensare la tecnologia “per tornare a essere più liberi e avere l’opportunità di utilizzarla in senso partecipativo”.