Da quando i millennial non sono più così giovani, la loro condizione di perenne crisi è molto più evidente. Nati tra il 1981 e il 1996, rappresentano la prima generazione a cui è stata data una gigantesca attenzione mediatica.
Nativi digitali ma molto meno skillati della gen-Z, hanno studiato più dei loro genitori ma guadagnano molto meno, grazie a internet sono decisamente più informati ma il mondo attorno a loro cambia più velocemente.
Gli strumenti che ne hanno contraddistinto la giovinezza, come Msn-Messenger e i social media, li hanno resi iper-connessi, talmente immersi nel flusso di informazioni, dati e possibilità da esserne sopraffatti.Il virtuale spadroneggia sul reale: riunioni sostituite da call, dating app per superare i 6 gradi di separazione, telefonate e vocali infiniti al posto di una chiacchierata vis-à-vis.
Potenzialmente le persone potrebbero dedicarsi ad attività dal vivo per relazionarsi ma la tendenza è quella di scrollare Instagram, Tinder o Hey Vina! in un blando tentativo di ottimizzazione.
Mancata corrispondenza fra desiderio e realtà
La realtà è che nonostante la moltitudine di app, la concretizzazione in un incontro off-line è molto più difficile di quanto statisticamente si potrebbe pensare.
Al di là delle speculazioni sul perché questo accada è un risultato perfettamente in linea con il quadro generico di difficoltà.
Non sono solo le relazioni ad essere precarie, molti alla soglia dei trent’anni vivono a casa dei genitori o condividono un appartamento, hanno contratti a breve termine e zero (o poco) capitale da parte.
Per quanto riguarda le coppie, invece, il quadro migliora di poco, tendenzialmente scelgono di sposarsi o convivere molto più tardi delle generazioni precedenti.
Questo perché, perfino nelle condizioni più fortunate, poniamo il caso di soggetti con redditi medi, accedere ad un mutuo e mantenersi in alcune città è arduo, specialmente di fronte inflazione e caro prezzi.
Se fino a qualche tempo fa la domanda che doveva porsi una coppia era: “vogliamo dei figli?” o “quanti?”, oggi diventa “possiamo permetterceli?”.
Nonostante le molte possibilità, crisi, guerre e incertezze politico-economiche rendono questa generazione molto più ansiosa che trionfante.
Sicuramente rispetto ad altri scenari del passato che potevano essere altrettanto incerti è anche la consapevolezza a fregarli.
I boomer hanno avuto la crescita economica post-bellica, la generazione X l’età d’oro del capitalismo e la deregolamentazione. Alla generazione Y è toccato il capitale di rischio ma anche la crisi finanziaria del 2008, il declino della classe media, il problema dell’occupazione e il terrorismo.
I fatti sociali come gli stalli emotivi legati a dei traguardi personali contraddistinguono tutte le generazioni ma il disagio dei millennial sembra quasi essere immanente ed è la diretta conseguenza di uno scenario ben preciso.
Al di là delle condizioni endogene ed esogene che influiscono in maniera differente nella vita di ciascuno, i 30-e-giù-di-lì, molti millennial, se li erano immaginati diversamente.
Superata una certa età diventa frustrante non trovare una corrispondenza fra desiderio e realtà. In un mondo che ci chiede continuamente di cambiare è molto difficile stabilizzarsi.
Non è un caso che osservando i libri, le pellicole e le serie tv scritte o pensate da e per i millennial emergano sempre profili di persone in crisi a livello lavorativo, sentimentale e familiare, possibilmente tutto questo insieme.
Come scrisse in Vita activa Hannah Arendt: “le cose del mondo hanno la funzione di stabilizzare la vita umana, e la loro oggettività sta nel fatto che gli uomini, malgrado la loro natura sempre mutevole, possono ritrovare il loro sé, cioè la loro identità, riferendosi alla stessa sedia e allo stesso tavolo”.
Una volatilità esistenziale che si rispecchia in una società altrettanto incerta anche se antropologicamente siamo pur sempre mossi da un’atavica compulsione: cercare di imporre una narrazione alle nostre vite, specialmente per trovare un significato e provare a domare il caos.
Non è un caso che osservando i libri, le pellicole e le serie tv scritte o pensate da/per i millennial emergano sempre profili di persone in crisi a livello lavorativo, sentimentale e familiare, possibilmente tutto questo insieme, gravate anche dalle crisi nazionali e sovranazionali.
È il caso di Sally Rooney acclamata per aver saputo catturare accuratamente il nostro Zeitgeist.
I suoi personaggi hanno relazioni al di fuori delle facili etichette, sono assillati dai problemi macroscopici come da quelli più banali, provano la Slam poetry come il bondage, si scambiano lunghe mail sulla fine delle civiltà antiche, con domande come: “la produzione dell’arte è importante anche quando il mondo sembra stia andando verso l’autodistruzione?”.
Un romanzo come Queenie nasce dal bisogno di Candice Carty-Williams di trovare la propria voce, raccontando quanto può essere difficile farsi largo nel mondo del lavoro e delle relazioni e al contempo lottare per i propri diritti.
Ne Il mio anno di riposo e oblio Ottessa Moshfegh racconta di una giovane laureata d’arte senza nome che di fronte all’inesorabilità della vita aumenta la dose dei suoi farmaci per dormire un anno intero.
Niente grida più gen-Y che vivere con i coinquilini dopo i trenta, come spiega bene New girl. Sulle possibilità e i fallimenti dell’epoca delle dating app si interrogano rispettivamente The bold type e Broad city mentre il film La persona peggiore del mondo permette a Joachim Trier di inscenare idiosincrasie e narcisismi millennial.
Un crudo ritratto della generazione lo offre I may destroy you. Arabella è una scrittrice famosa per il libro Cronache di una millennial stufa che dopo una serata all’Ego death bar in seguito a uno spiacevole evento perderà la sua identità. Michaela Coel che ha scritto, interpretato e diretto la serie è riuscita a trasporre l’angosciante e arduo percorso di ricostruzione del proprio sé, affrontando temi e tabù, come il sesso consensuale, lo stealthing e il ciclo mestruale.
Il successo di queste narrazioni? Imitano il divario tra i giovani e il mondo che li circonda.
Ci sono dei tratti millennial in termini di scenario culturale e mood che consentono un’immediata riconoscibilità: l’incertezza esistenziale, l’auto-consapevolezza del disagio, la tensione fra la persona che vuoi essere e il ruolo che ti senti addosso.
Un fenomeno storico quanto mediatico che qualcuno, forse nel tentativo di sdrammatizzare, ha battezzato “millennial life crisis”.
I più “fortunati” forse si ritrovano a gestire una sola mancanza ma nella maggior parte dei casi in molti lamentano difficoltà economiche, un lavoro non sempre appagante (perfino se è quello desiderato) e relazioni sempre più difficili da mantenere.
Ci sono dei tratti millennial in termini di scenario culturale e mood che consentono un’immediata riconoscibilità: l’incertezza esistenziale, l’auto-consapevolezza del disagio, la tensione fra la persona che si vorrebbe essere e il ruolo che ci si sente addosso.
Serve il coraggio
Il confronto con il passato è inevitabile per tentare di individuare le matrici.
Pronti anche a rinunciare con molta più forza d’animo, o rassegnazione, ai sogni di gioventù, baby boomers e generazione X, terminati gli studi, con le dovute eccezioni, conducevano un percorso abbastanza lineare: un lavoro, probabilmente a tempo indeterminato, un matrimonio, l’acquisto di una casa, dei figli, perfino un partito politico di riferimento.
Oggi gli stipendi sono stagnanti e interi settori sono in crisi. Il costo di ogni prerequisito di un’esistenza sicura – istruzione, casa e assistenza sanitaria – è salito vertiginosamente.
L’ascensore sociale è bloccato e quelle opportunità che fino agli anni 2000 portavano a una vita da classe media sono fuori dalla portata della gen-Y e Z.
Dal lavoro alla rete di sicurezza sociale, tutte le strutture che ci isolano dalla rovina si stanno erodendo.
Una volta la crisi di mezz’età era generalmente la conseguenza della noia o il timore dell’invecchiamento più che la consapevolezza di non aver raggiunto determinati traguardi o la sensazione che il mondo intorno a te si stia dissolvendo (e non solo metaforicamente).
Da molti anni la fine degli studi ha costituito per i giovani l’inizio di un lungo precariato esistenziale. Stage mal pagati (o non retribuiti), contratti a breve termine, con conseguente impossibilità di ottenere una dimensione abitativa decorosa.
L’instabilità politica non si misura solamente con governi che cadono sempre più spesso ma anche con partiti che si sciolgono e moltiplicano quasi biblicamente e alleanze sempre più ballerine.
Conflitti bellici e minacce nucleari non aiutano “a mantenere alto l’umore”, specialmente dopo la Covid-19.
Il numero dei casi di depressione e disturbi legati all’ansia non cessa di crescere.
La crisi economica globale post pandemia ha aumentato le disuguaglianze sociali e la disoccupazione, e anche i più fortunati che hanno un contratto devono fare i conti con condizioni lavoro precarie, diseguaglianze di genere, salari bassi e alta competitività.
All’ennesima tornata di recessione la risposta, in larga parte di millennial, è stata però la “great resignation”. Un fenomeno che in Italia ha fatto registrare nel primo semestre del 2022 1.080.245 dimissioni volontarie, con un aumento del 31,73% rispetto al 2021. Alcuni hanno giustificato questi dati come una conseguenza della pandemia, altri ritengono sia l’inizio di un mutamento capitale dei paradigmi lavorativi.
Per la generazione che è invecchiata senza diventare adulta l’arma segreta è la propensione al cambiamento.
Le sfide del nuovo millennio non sono fugaci ma sistemiche, parafrasando Slavoj Žižek serve il coraggio per un cambiamento radicale.