San Damiano, il docufilm di Gregorio Sassoli e Alejandro Cifuentes trascina lo spettatore nel cuore delle strade attorno alla stazione Termini. Protagonista e guida è Damian, senzatetto polacco di trentacinque anni, che apre le porte di un racconto fatto di violenza, fragilità e legami inattesi. Con sguardo discreto, la macchina da presa accompagna nella sua “casa” ricavata su una torretta delle mura aureliane, e dentro un microcosmo umano da cui solitamente si distoglie lo sguardo.

I registi hanno elaborato un linguaggio cinematografico nato dall’incontro diretto con i protagonisti, restituendo un ritratto della Roma invisibile: un mondo feroce e insieme profondamente umano.
Il 4 ottobre 2025, in occasione del Romaeuropa Festival, le musiche originali di San Damiano saranno eseguite dal vivo da Cosimo Damiano e intrecciate con immagini inedite di Sassoli.
In questa intervista, realizzata in collaborazione con Average Italian Kid, i registi raccontano il lungo processo creativo dietro il film: due anni di immersione nella vita di Termini, tra scelte estetiche e sfide narrative. Un percorso fatto di crudo realismo che trasforma lo schermo in un luogo vivo e imprevedibile.

SM: Come hai/avete affrontato le riprese in un contesto così delicato come quello dei senzatetto a Termini? Damian è stato il vostro “Virgilio” ma anche la vostra scorta?
GS: È tutto successo in modo molto naturale, prima abbiamo fatto i volontari con Sant’Egidio, poi abbiamo iniziato a scrivere un film di finzione ambientato alla stazione e una sera, per caso, abbiamo conosciuto Damian. Le prime cose che abbiamo girato insieme sono stati dei video musicali, poi è stato lui a proporci di fare un “reportaggio” sulla sua vita. Da lì non ci siamo piu fermati e con lui ci siamo addentrati nella realtà di Termini. Sicuramente la nostra vicinanza a Damian ha fatto sì che le persone che incontravamo fossero ben disposte nei nostri confronti.
SM: Guardando San Damiano non si percepisce la macchina da presa. Sappiamo che Damian fa delle riprese con il suo cellulare, ma anche voi avete utilizzato anche smartphone o altri strumenti per rendere tutto più realistico?
GS: Abbiamo usato delle telecamere della dimensione di una macchina fotografica professionale, un setup agile ma comunque presente. Il rapporto che si è instaurato con i protagonisti ha fatto sì che la telecamera sparisse.
SM: Dal punto di vista estetico, come hai/avete costruito il linguaggio visivo di San Damiano? E quali sono stati i vostri riferimenti artistici (influenze di cui vi siete resi conto anche dopo aver concluso il film)?
GS: Non c’è stata una scelta a priori. il nostro approccio è stato concreto, pragmatico. Il linguaggio visivo è figlio del rapporto che si è creato con ciascuna persona che ha partecipato al documentario. Noi ci siamo immersi in questo mondo, e così anche il linguaggio visivo è immersivo, quasi un punto di vista “da dentro”. La nostra prospettiva si è ribaltata tant’è che, in modo naturale, i passanti – i “normali” – sono diventati “gli invisibili” sullo sfondo di questo racconto.

SM: Roma non è uno sfondo ma un personaggio in San Damiano. Come appare attraverso gli occhi di chi vive ai suoi margini?
GS: Più che Roma, direi che Termini è diventata un personaggio. E anche qui si vive un ribaltamento: un luogo che viene usato dai più per transitare, diventa invece “casa” per altri. Anche la Roma da cartolina – poco frequentata da chi vive a Termini – viene vissuta in modo diverso: la gente è abituata a buttare le monetine nella Fontana di Trevi, mentre Alessio va lì per raccoglierle. Di nuovo, prospettive ribaltate.
SM: Come sei/siete cambiati durante e dopo questi incontri? Cosa Damian ha “scoperto” di voi?
GS: Per noi c’è un prima e un dopo questo film. Fare questo film ci ha letteralmente “ribaltati” e fatto riconsiderare tutto di noi, della vita in generale, ci ha fatto rendere conto di quali sono le cose veramente essenziali. Damian spero che abbia trovato due amici su cui contare.
SM: Benché Damian sia un personaggio incredibile – istrionico, a suo modo manipolatore, ironico, che non vuole essere compatito -, non c’è comunque il rischio che puntare la macchina da presa su quel mondo di esclusi metta lo spettatore di fronte a un ricatto emotivo? Come lo avete affrontato in caso?
GS: Non ci siamo posti troppi problemi su come lo spettatore avrebbe percepito il film, abbiamo voluto restituire nel modo più onesto possibile quello che abbiamo visto e vissuto noi, la nostra esperienza, le tante emozioni contrastanti, e i nostri interrogativi.

SM: Per te/voi Il cinema ha una funzione di denuncia o di racconto fedele della realtà – ammesso che questa distinzione abbia senso?
GS: Nel momento in cui metti una telecamera di fronte a qualcuno, la questione della fedeltà alla realtà diventa nebulosa. Ma non è importante, quel che conta è la “verità” che viene rivelata dal modo in cui una persona sceglie di mostrarsi di fronte alla telecamera. Preferisco il termine “cinema verità” piuttosto che “cinema del reale”. La denuncia viene di conseguenza.