30.10.2025

Il corpo, l’identità e il teatro sacro del tifo

Otto danzatori, cinquecento sciarpe e l'eco dei cori da stadio: lo spettacolo NON + ULTRAS di Moritz Ostruschnjak traduce in movimento la potenza tribale del tifo al RomaEuropa Festival. Ogni volta che vestiamo i nostri colori facciamo una scelta di appartenenza. E scopriamo di essere molti corpi in uno solo.

A metà Ottobre, nell’ultima gara di qualificazioni asiatiche per i Mondiali dell’anno prossimo, il Qatar ha staccato il suo biglietto per gli States (e per il Canada, e per il Messico) sconfiggendo, in maniera un po’ polemica, gli Emirati Arabi Uniti. Le scene della rissa finale dello stadio Jassim bin Hamad hanno fatto il giro dei social: centinaia di dishdasha, la tunica tradizionale dei paesi del Golfo, si agitavano dentro e fuori dal campo come la schiuma di uno tsunami, in una coreografia ipnotica. Da una parte andava in scena l’universalità della tensione, l’irriducibilità anche un po’ venefica del tifo; dall’altra, in una sfumatura un po’ più weird, una spersonalizzazione dell’individualità che si faceva massa. Il fatto che tutti i tifosi vestissero la dishdasha rimarcava ancor di più la divisione atleta-tifoso: eppure, allo stesso tempo, vedeva fondersi in un mélange le due opposte fazioni fino a farne un singolo grumo di riottosità tifosa.

Nell’ambito del Romaeuropa Festival, in una doppia replica al Teatro Vascello il 1 e il 2 Novembre, nella capitale arriverà uno spettacolo di danza contemporanea intitolato “NON + ULTRAS”, opera del coreografo tedesco Moritz Ostruschnjak, prodotto in collaborazione con il Muffathalle di Monaco e il Teatro di Friburgo. In questa performance i corpi di otto danzatori, di fronte a visual tambureggianti, usando più di cinquecento sciarpe recitano sul palco la lingua rituale, coreografica e piena di fervore della partecipazione ecumenica al tifo, inteso più come stato dell’anima che come happening.

L’esplicitazione estetica, depotenziata, distillata della violenza.

La potenza immaginifica della collettività in movimento, dei corpi che si mescolano, dell’iridescenza dell’incontro – e dello scontro – tra identità diverse è sempre contundente: potremmo dire che è ciò che rende il tifo così significativo, interessante, necessario da una prospettiva antropologica. Quel che fa Ostruschnjak, in fondo, non è che l’esplicitazione estetica, depotenziata, distillata della violenza di ciò che abbiamo provato guardando le immagini che provenivano dal Qatar, che nella loro contingenza belligerante conservavano, dopotutto, un impatto visivo quasi artistico.

A cosa apparteniamo

In “NON + ULTRAS”, dicevamo, ci sono i danzatori, ma anche le sciarpe: brandelli identitari che nel canone del tifo si fanno di volta in volta maschera, tappeto di preghiera, vessillo, arma. Simboli immarcescibili che sottolineano un’appartenenza, e che lo fanno ancor di più quando a farli sventolare è un corpo che si muove, casomai in maniera minacciosa. Perché oltre che difesa identitaria, quella del tifo è anche – e per certi versi soprattutto – una dinamica di affermazione. Quando una tifoseria si muove, sfila per le strade nemiche avvolta nei suoi colori, non sta soltanto riaffermando chi è, ma lo sta facendo in un territorio altro, che lacanianamente sta penetrando, violando, sottomettendo. Se sembra un concetto troppo guerresco, troppo machista, è perché lo è: la sfumatura violenta del tifo (spesso preponderante, e in tutti gli sport: basti pensare a quello che è successo qualche giorno fa all’accompagnatore dell’autista del bus che trasportava il Pistoia basket a casa dopo una partita a Rieti, ucciso da un sasso scagliato contro il parabrezza) sgorga da quella visceralità del tifo che ne è l’anima primigenia, primordiale: quella tribale. La stessa che, decotta della violenza, anima la Haka prima delle gare degli All Blacks, che fa muovere una moltitudine all’unisono durante un coro (di rivendicazione o di battaglia, cambia poco).

A rendere interessante il potere dinamico delle tifoserie, forse, contribuisce il suo aver esondato: cosa succede quando qualcosa pensato per essere circostanziato fuoriesce? Cosa succede quando il tifo (o meglio, le connotazioni identitarie e di affermazione del sé) comincia a farsi significativo fuori dagli stadi? Churchill diceva che gli italiani vanno alla guerra come fosse una partita di calcio e a una partita di calcio come se andassero in guerra: affermazione ancora valida, perdipiù se applicata alle tifoserie, oltretutto se sostituissimo guerra con protesta.

Bisogna capire qual è il mein sport, per capire qual è il mein team

C’è un frangente, in “NON + ULTRAS”, in cui in slowmotion – come nei momenti più topici –, sullo sfondo di cori da stadio ovattati, vessilli tra loro incompatibili si fondono disegnando scacchieri imprevedibili: che è poi quel che succede, in fondo, ogni giorno in quella complicatissima partita che è la quotidianità, la vita. In Argentina, ogni mercoledì, già da qualche mese, maglie, sciarpe, identità inconciliabili si liquefanno per dare vita a una lega metallica più resistente: divise di Boca Juniors e River Plate, di Rosario Central e Newell’s Old Boys, si stringono – anche fuor di metafora – in prima linea nelle marchas de los jubilados, le manifestazioni di protesta contro i tagli che l’attuale governo sta attuando sui pensionati. Corpi destinati allo scontro si trasformano in corpi incoraggiati all’incontro, pronti a disegnare coreografie inattese, sospinte da ideali che rispondono a dinamiche diverse. Il motto mein sport, mein team che compare in uno dei visual della performance è declinabile all’infinito: bisogna capire qual è il mein sport, per capire qual è il mein team.

La nostra sciarpa, il nostro corpo

Ogni volta che decidiamo di indossare una sciarpa facciamo una scelta politica, nel profondo: diventiamo un’idea itinerante, corpi che trascendono la corporalità per farsi eterei, aleggianti come un ideale. E nondimeno la dimensione fisica, tridimensionale, carnale perpetua la sua importanza. Avrete sentito parlare della partita fantasma giocata a Santiago del Cile nel 1973. Siamo nel pieno delle qualificazioni ai Mondiali del ‘74, Cile e Unione Sovietica si giocano il pass per la competizione iridata. Ma in Cile è andato in scena il golpe di Pinochet, l’Unione Sovietica si rifiuta di viaggiare a Santiago in segno di protesta ideologica, e i vertici andini decidono comunque di giocare quella partita. Ecco: in quella circostanza si riesce a fare a meno della presenza fisica degli avversari, ma non di quelli della tifoseria, perché la massa legittima l’evento, perché i corpi avvalorano la tangibilità. Non è un caso che quello andato in scena durante il COVID, quando era proibita la presenza delle tifoserie, per lunghi tratti ha assunto i connotati di qualcosa che non sapevamo identificare, la cui comprensione ci sfuggiva, semplicemente perché lo spettacolo sportivo non può prescindere dai corpi che sfidano corpi attorniati da altri corpi.

“NON + ULTRAS” è anche uno spettacolo sulla contraddizione in fieri tra isolamento e collettività.

I colori che vestiamo sono simboli ineludibili. Ma ci illudiamo che siano per sempre. E invece ogni giorno finiamo per uscire di casa con venti sciarpe diverse, siamo un fascio di sciarpe che cammina: abbiamo la sciarpa della nostra squadra, quella del nostro ideale politico, quella dei vegetariani, di chi ama guidare nel traffico e di chi odia i lunedì. La sciarpa con il nome della persona che ci fa battere il cuore. Qualcuna la sfoggiamo con più orgoglio. Di qualcun’altra ci vergogniamo. Alla fine della fiera siamo molti corpi, ma siamo sempre un solo corpo: è per questo che “NON + ULTRAS” è anche uno spettacolo sulla contraddizione in fieri tra isolamento e collettività, tra silenzio e sovraccarico di stimoli sensoriali, nel bel mezzo di qualcosa che non è più solo calcio.C’è un’altra scena, che proviene dalle recenti qualificazioni mondiali, forse l’avrete vista: per la prima volta alla prossima Coppa del Mondo ci sarà Capo Verde, che si è classificata vincendo l’ultima partita in casa. Dopo il terzo gol, il terzino quasi quarantenne autore del gol è corso verso la tribuna, togliendosi la maglia. Là ha trovato decine di tifosi, parenti, amici che – anche loro nudi di ogni maglia, o sciarpa – lo hanno stretto in un abbraccio. In quel nugolo di corpi che si rapprendeva mescolandosi e agitandosi, che ha poi invaso il campo, c’era tutta una spersonalizzazione, simile a quella vista in Qatar, che però, al contrario, sapeva gridare in maniera forte ed eloquente cosa significhi tifare, appartenere: essere parte di un nugolo primigenio di intenti, di natura, di destino. Essere cioè uno, senza rinunciare ad essere mille. E il suo contrario.

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