La rassegna multimediale di Romaeuropa Festival “Digitalive”, torna al Mattatoio di Roma dall’11 al 13 ottobre 2024 e l’intelligenza artificiale sarà parte del programma. Lo sarà nei temi, come ad esempio in Waluigi’s Purgatory, l’opera del duo di artisti dmstfctn ambientata in un teatro 3D che racconta la vicenda di un’intelligenza artificiale intrappolata in un purgatorio riservato alle AI che hanno trasgredito durante il loro addestramento. E lo sarà come strumento, come nel caso di Nicola Ratti e il suo Automatic Popular Music, con brani composti quasi unicamente da suoni generati da automatismi programmati su dei sintetizzatori modulari.
Siamo parlati dal linguaggio
Secondo molte persone, il recente sviluppo di arte creata con l’intelligenza artificiale ci costringe a riconsiderare cosa significhi l’esperienza estetica. Ad esempio alcuni artisti che sperimentano con le IA, si domandano: chi nell’arte apprezza lo sforzo e il lavoro umano, cosa farà se l’opera è il prodotto di una macchina?
Anche la bottega rinascimentale delega alcuni automatismi alle tecnologie dell’epoca, che oggi ci sembrano forse basilari, come squadra, compasso, pantografo, camera oscura
Un dubbio con radici secolari, basti pensare alla Fontana di Duchamp, che ha esplicitato la separazione tra il lavoro manuale e la prassi artistica. Non c’è un abisso concettuale tra l’artista rinascimentale che delega parte del proprio lavoro ad assistenti di bottega e chi lo delega a una macchina. Certo, da una parte c’è sempre un agire umano, ma non dobbiamo neanche dimenticare il lavoro di chi utilizza le IA, che può essere reputato trascurabile solo da chi ha scarsa conoscenza del mezzo. In fondo anche la bottega rinascimentale delega alcuni automatismi alle tecnologie dell’epoca, che oggi ci sembrano forse basilari, come squadra, compasso, pantografo, camera oscura, apparecchi per la stampa, tornio… il supporto macchinico insomma esiste da secoli, se non millenni, sebbene si sia sempre più potenziato. Nessuno mezzo, nemmeno il più “tradizionale” – come chiamiamo quelli nati prima di noi e a cui siamo già abituati – è del tutto controllato dall’autore e ogni tecnologia possiede necessariamente una sua indipendenza. Nella pittura ad esempio, l’artista può gestire lo strumento solo all’interno dei margini di possibilità delle tecniche pittoriche e non controlla certo ogni interazione tra colore, pennello e tela. Anche se il pittore sceglie le proprie tinte, queste scelte, oltre che essere influenzate dall’opera di altri artisti e mode visive, devono sottostare a cause tecniche, economiche e produttive. Nonostante l’apparente controllo, il fotografo affida buona parte del processo alla macchina fotografica, che interpreta la luce e l’ombra in modi che possono sfuggire al suo controllo diretto. Lo stesso vale per la scultura: l’interazione tra scalpello e pietra può produrre risultati imprevisti, dovuti alla struttura e alla resistenza del materiale. Ogni colpo può rivelare una venatura nascosta o causare una frattura imprevista, introducendo elementi di casualità nel processo creativo. Persino nella scrittura l’autore non ha mai un controllo totale; le parole sono influenzate dalla cultura dell’epoca, dalle letture precedenti, dalle convenzioni linguistiche. Siamo parlati dal linguaggio più di quanto non lo parliamo e l’apporto del singolo a questo bene collettivo, sebbene possa divenire di grande importanza, è senz’altro minore di quello che la forma vivente linguistica impone su chi scrive. Mentre scrivo dalla mia tastiera, non sto forse delegando la mia grafia a una macchina?
Non alla portata di tutti
Affidare parte della propria prassi creativa a tecnologie con un margine di automazione dunque non è una novità, e i più curiosi e avanguardisti tra gli artisti non hanno subito grandi scosse nell’inserire le AI nel proprio lavoro. Non appena si abbandona l’illusione antropomorfa e si investiga senza pregiudizi il lavoro dei tanti creativi che usano queste tecnologie, si troverà sempre una lunga catena di decisioni e atti indiscutibilmente umani.
L’atmosfera però non è tale da garantire una ricerca libera da pregiudizi. In alcuni ambienti si stilano liste di proscrizione di artisti che usano le AI, si fa cancellare conferenze o premiere per le reazioni violente, giornali di settore fanno clickbait pur di compiacere i gruppi anti-ai… la bolla dei ferocemente contrari è prevalentemente composta da fumettisti e illustratori, amatoriali come professionisti, ma sebbene non rappresenti la totalità del mondo creativo è una bolla grande, rumorosa e spesso aggressiva.
La battaglia in corso però non è tanto per ottenere IA pubbliche e di libero accesso ma si divide tra la difesa degli interessi di grandi copyright holders e quelli delle big tech.
Sarebbe però superficiale ignorare molte delle critiche che vengono poste, perché questi strumenti non sono esenti da problematiche etiche, come ad esempio la raccolta indiscriminata dei dati al fine di creare software per il profitto privato. È un punto problematico anche per chi (come chi scrive) crede che il copyright abbia perso efficacia nel suo ruolo di protezione degli autori e diffusione della conoscenza. Anche in un’ottica pubblica e collettivistica su dati e AI, infatti, è impossibile ignorare che poche aziende rilasciano al pubblico software open source, dunque liberamente utilizzabili e modificabili dal pubblico. La battaglia in corso però non è tanto per ottenere IA pubbliche e di libero accesso ma si divide tra la difesa degli interessi di grandi copyright holders e quelli delle big tech. Al netto dei leciti pareri discordanti, è avvilente vedere persone che si definiscono creative aggredire chiunque provi a fare sperimentazione culturale con questi nuovi strumenti. “Le Ai fanno schifo, non entreranno mai nella prassi creativa!”, dicono, ma se qualcuno le usa (o sembra che le usi) ecco che si scaglia l’anatema. È comune travestire il proprio conservatorismo con “non sono luddista ma” – e nel “ma” c’è il sottinteso che le intelligenze artificiali non devono essere potenti né alla portata di tutti: “Costruitevi i vostri dataset, pagateli!”, così la sperimentazione sarà innocua e la farà solo un’elite danarosa.
Non fa “tutto il computer”
Nel frattempo però molti creativi le adottano, seppur in silenzio e con cautela, perché se dici di averle usate sei un traditore e se lo nascondi un vigliacco. È una fase che ricorda inevitabilmente la ricezione della fotografia e il cui esito prevedibile è un futuro in cui questo strumento, abbandonato l’hype eccessivo e il terrore, sarà adottato in varia misura dalla maggioranza, probabilmente anche dalle persone che oggi lo criticano. Se ci affidiamo alla statistica aneddotica, l’impressione è che le persone più ostili alle AI provengano dalla categoria che un tempo si definiva “arti applicate”. Designer, illustratori, tendono a essere molto più ostili degli artisti da galleria, che hanno accolto lo strumento per lo più con curiosità. Se diamo valore a questa impressione, uno dei motivi è che le AI non minacciano in alcun modo l’arte, che come dicevamo ha digerito l’assenza di manualità e la delega all’automazione da secoli, ma più l’artigianato nella sua versione digitale, in cui il prodotto ultimo è da fruire su schermo o al massimo in stampa, quindi pre-processato digitalmente. Si potrebbe quasi dire che l’artigianato digitale sta alle AI come un tempo i vedutisti stavano alla fotografia, perché in alcuni lavori la nuova tecnica ha già distrutto la necessità di un apporto manuale. Questo non significa che l’abilità manuale perda di valore, anzi, ci saranno ambiti come l’artigianato non digitale in cui verrà molto probabilmente valorizzata dall’esistenza delle AI, ma non è più necessaria. Se voglio creare un’immagine efficace, non devo più possedere una tecnica manuale e spesso neanche complesse strumentazioni: non stupisce dunque che molte persone che possiedono questa abilità sentano a rischio il proprio vantaggio. Non tutti però, perché c’è chi si è accorto che le abilità pregresse consentono un uso più efficace e ibrido delle AI, che vengono di conseguenza viste come un potenziamento e non un depauperamento. Per quel che riguarda la mia esperienza di docente di questi strumenti, mi sono accorto di come dopo un anno di corso studentesse e studenti usino queste nuove tecniche a modo loro, stilisticamente riconoscibile e spesso ibridato con le prassi tradizionali, con buona pace della squadra “fa tutto il computer”.
Se si vuole capire un nuovo strumento, infatti, le avanguardie artistiche che lo utilizzano sono sempre un osservatorio privilegiato.
Le intelligenze artificiali sono già entrate nel mondo dell’arte, sebbene per lo più nei contesti legati alle nuove tecnologie e al digitale, ma siamo ancora all’inizio. Gli strumenti accessibili al grande pubblico hanno ancora dei grossi limiti che in pochi riescono a eludere, ma se il futuro sarà un po’ più libero e open source, ci sono ottime probabilità che vedremo nascere delle opere molto interessanti. Sono dunque molto curioso di vedere cosa hanno da proporre gli artisti del Romaeuropa Festival “Digitalive”, sia come utilizzo che come riflessione sul mezzo. Se si vuole capire un nuovo strumento, infatti, le avanguardie artistiche che lo utilizzano sono sempre un osservatorio privilegiato.