Quando lo scorso novembre ho sentito Elena Cecchettin pronunciare in una trasmissione televisiva in prima serata le parole patriarcato e femminicidio, ho pensato che mi ero sempre sbagliata. Ho avuto conferma di questo abbaglio nei giorni successivi, guardando le immagini del corteo romano del 25 novembre. In quei giorni, ho capito che c’era stato uno spostamento. Lentissimo, ma inarrestabile. Provocato certamente grazie ai partecipatissimi cortei femministi degli ultimi anni. Ma anche da un costante e continuo movimento di controinformazione svolto dal cyberfemminismo, principalmente attraverso i blog, tra la fine degli anni Duemila e i primi anni Dieci.
Femminismo a sud, Dumbles, Macerie, Ladyradio, Malapecora: questi sono solo alcuni degli spazi virtuali femministi in cui, in quegli anni, si discuteva di violenza sulle donne e sessismo, ma anche razzismo, specismo e nuovi fascismi, oltre a temi parzialmente inediti in Italia, come il sex work e il post-porno, cioè il porno femminista.
I conti della violenza
«Siamo state la prima generazione di femministe su Internet» afferma Claudia (nome di fantasia). Claudia e io ci siamo conosciute nel 2010 sulla mailing list del collettivo. In quel periodo io vivevo a Roma, mentre lei si trovava a studiare dall’altra parte dell’oceano. Alla fine delle nostre giornate, che coincidevano con fusi orari differenti, accendevamo i nostri computer e, a migliaia i chilometri di distanza, ci trasformavamo in attiviste di un blog femminista che contava centinaia di accessi al giorno. «Eravamo donne tra i 20 e i 40 anni, abitavamo in tutta la penisola. Alcune erano all’estero» mi ricorda. «Gestivamo una mailing list pubblica e una interna. In quella pubblica, venivano inviate decine di messaggi al giorno. Molte donne ci scrivevano per raccontarci le loro esperienze personali. Monitoravamo il linguaggio dei media, contavamo le vittime di femminicidio e ne diffondevamo i numeri in rete. La rete ci ha permesso inoltre di entrare più facilmente in contatto con altre esperienze: penso alle sex worker, ma anche al porno femminista».
Si trattava di una nuova doppia militanza all’epoca di Internet: non più, come negli anni Sessanta e Settanta, attività separata e parallela nei partiti e nei collettivi femministi. La linea di confine era adesso segnata dal binomio realtà/virtuale. Già nel 1985 le sociologhe Anna Rita Calabrò e Laura Grasso avevano evidenziato come la fine del movimento femminista degli anni Settanta avesse lasciato posto al femminismo diffuso. Un femminismo figlio del riflusso nel privato, ma che non è mai scomparso e a cui, con l’avvento di Internet, si sono affiancate altre pratiche come, appunto, i collettivi virtuali. Nel 2004, la sociologa Judy Wajcman sostenne che «le donne [stavano] reinterpretando le tecnologie come strumenti per l’organizzazione politica e come mezzi per creare delle nuove comunità femministe».
Si trattava di una nuova doppia militanza all’epoca di Internet: non più, come negli anni Sessanta e Settanta, attività separata e parallela nei partiti e nei collettivi femministi. La linea di confine era adesso segnata dal binomio realtà/virtuale.
Lo dimostra la storia della diffusione del termine “femminicidio” in Italia, giunto in Italia grazie all’opera di Barbara Spinelli, che lo riconduce all’interno di una lotta globale. Valentina Pappacena, presidente dell’associazione Valore Donna, sottolinea: «Quando nel luglio 2011 il Comitato CEDAW (Committee on the elimination of all forms of discrimination against women) ha chiesto all’Italia i numeri, il Governo non ha potuto fornirli perché non erano mai stati raccolti». Lo faceva tuttavia dal 2005 a Bologna la Casa delle donne per non subire violenza. In rete, un gruppo di attiviste aprì nel 2009 il Burqa blog, che forniva dati fruibili in qualunque momento da chiunque. Dal 2011, Barbara Spinelli coordina il Rapporto Ombra CEDAW, grazie al quale vengono forniti i numeri dei femminicidi raccolti in maniera autonoma. «L’Italia è stato il primo Paese europeo a ottenere una raccomandazione nei confronti del governo dove si evidenzia la responsabilità di Stato per gli omicidi di donne conseguenti a stalking e maltrattamenti» spiega la giurista. In rete, l’attività di raccolta dati viene portata avanti fino al 2015 dal Bollettino di guerra, un collettivo femminista che si occupava esclusivamente di contare ogni giorno femminicidi, stupri, violenza contro donne e bambine/i, fornendo così dati fruibili in qualunque momento da chiunque, oltre ad analizzare le parole degli articoli e i titoli scelti dai giornalisti per raccontare le uccisioni di donne in Italia.
Ma non ci si limita al conteggio. «L’attivismo digitale femminista ha reso il termine comprensibile a chiunque» spiega Eva (nome di fantasia), amministratrice di un blog femminista. «Ascoltavamo e pubblicavamo le testimonianze delle donne coinvolte in dinamiche di violenza. Questo ha ampliato la rete di empatia e ha reso indispensabile l’uso di parole che nominassero quel disagio. Le femministe sul web hanno usato parole chiave, inserendole in contesti di narrazione personale. Molte donne si sono identificate con le testimonianze pubblicate e hanno preso a usare un termine, prima di nicchia, con naturalezza».
Le femministe sul web prendono inoltre consapevolezza del fatto che la rete non è uno spazio “neutro”, cioè scevro da discriminazione di classe, di genere e razziste: per questo, molti di questi blog vengono aperti sulla piattaforma Noblogs che si appoggia al server indipendente Autistici/Inventati. Nato nel 2000, Autistici/Inventati è un collettivo che offre uno spazio dove poter «comunicare idee per cercare il cambiamento politico, condividere progetti e aiuti organizzativi, per riunirsi in gruppi, per aiutarci a conoscere altra gente nel mondo con i nostri stessi interessi e obiettivi». Nel loro libro, i fondatori di A/I affermano di essere figli dell’esperienza delle radio libere degli anni ‘70, passando per le più importanti pratiche di controinformazione, come Indymedia: lo spirito di A/I contamina l’attività degli spazi cyberfemministi che usano i loro server.
«L’Italia è stato il primo Paese europeo a ottenere una raccomandazione nei confronti del governo dove si evidenzia la responsabilità di Stato per gli omicidi di donne conseguenti a stalking e maltrattamenti»
Nuove parole esatte per vecchi fenomeni di violenza
«Internet aveva un aspetto diverso in quegli anni: non era ancora costituito da quelle grosse bolle centralizzate che sono oggi i social network» spiega Silvia Semenzin, ricercatrice in Sociologia Digitale presso l’Università Complutense di Madrid. «I blog avevano un aspetto più orizzontale. Era possibile fare una controinformazione più libera, sia per quanto riguarda i movimenti di liberazione sessuale che le comunità LGBTQ+. Su Internet le comunità si sono riscoperte, hanno trovato spazio».
Intorno al 2010, però, con la progressiva diffusione di Facebook in Europa, la presenza sui social media diventa imprescindibile. Claudia ricorda bene la traumatica transizione al social network di Zuckerberg: «Le nostre pagine venivano attaccate da squadre di misogini» racconta. «Aprivano decine di profili, segnalavano la pagina in massa e ci facevano chiudere. Non c’erano gli strumenti per far fronte agli attacchi. Nonostante la difficoltà di stare sui social, il tam tam di notizie ha permesso l’adozione di termini come femminicidio nel linguaggio comune».
Fu così che si passò dalle appena 10 occorrenze del 2008 sul sito di Repubblica.it, alla graduale diffusione del termine che, tuttavia, non fu accettato pacificamente, come dimostrano le perplessità di un lettore che nel 2013, all’indomani della ratifica dell’Italia della Convenzione di Istanbul, chiedeva all’Accademia della Crusca se fosse necessaria «una parola nuova per indicare qualcosa che accade da sempre».
Se il ruolo dei blog femministi nell’affermazione del termine femminicidio è innegabile, non lo è di meno quello giocato nella diffusione dei temi classici dell’intersezionalismo, seppur inizialmente solo nella cerchia più stretta del femminismo militante: «Scrivevamo e traducevamo di ecofemminismo e abilismo quando in Italia erano temi di nicchia» spiega Claudia. In linea con quel transnazionalismo che avrebbe caratterizzato le piazze femministe tra la fine degli anni Dieci e i primi anni Venti.
Il ruolo cruciale della controinformazione dei blog si può comprendere ricordando che, in quegli anni, le reti televisive erano la principale fonte di informazione disponibile e i social media erano pressoché ininfluenti. Il documentario “Il corpo delle donne” di Lorella Zanardo, una delle più importanti critiche avanzate al sistema di comunicazione dell’impero massmediatico berlusconiano, fu diffuso nel 2009 proprio attraverso il blog dell’attivista che, se certamente si colloca più vicino ai blog di protesta d’ispirazione grillina che a un blog femminista intersezionalista, dà la misura di quanto un contenitore del genere fosse potente.
Niente a che vedere, naturalmente, con il potere di Meta, l’impresa di Zuckerberg che raggruppa alcune tra le piattaforme più potenti del mondo. Undicesima persona più potente del mondo, con la sua idea di internet Zuckerberg ha completamente riconfigurato il modo di esprimere opinioni e, quindi, dissenso: «Oggi la controinformazione dei social è limitata per via delle architetture algoritmiche, che sono commerciali» spiega Silvia Semenzin «C’è una parziale censura del discorso».
Comunque, le attiviste digitali femministe non sono rimaste chiuse nelle loro stanze. Parallelamente al lavoro di controinformazione in rete, hanno preso parte ad altre forme di militanza, portando nelle piazze le nuove parole d’ordine: dalla rete Io decido nata nel 2014 sulla scia delle mobilitazioni spagnole in difesa dell’aborto, fino a Non una di meno, l’organizzazione femminista nata su ispirazione del movimento argentino.
Il declino dei blog come luoghi di controinformazione è stato un processo lungo, ma irreversibile, rimpiazzati dai social media dove i contenuti devono essere immediati per essere fruiti dal vasto pubblico della rete, pena l’oscuramento. Le lunghe e articolate riflessioni delle mailing list che, con Claudia e tutte le altre, portavamo avanti, sembrano non essere più adatte all’epoca delle grandi piattaforme.
Senza lo spazio di autonomia garantito dai server di Autistici/Inventati, tuttavia, è difficile immaginare che l’attivismo femminista digitale avrebbe avuto la possibilità di elaborare delle sue specifiche analisi e pratiche che, in futuro, avrebbero portato alla diffusione del termine “femminicidio”, ma anche di altri, come l’antispecismo. Certamente l’attivismo cyberfemminista è avvenuto alla vigilia dell’avvento dei social media che ne hanno facilitato la diffusione e alla ratifica della Convenzione di Istanbul nel 2013. Ma è stata l’ostinata autonomia di tempi, spazi e modi a garantire l’efficacia dell’azione, che ha mostrato i suoi effetti dirompenti quando Elena Cecchettin ha scelto di cambiare il racconto. Utilizzando le parole giuste e mettendo in atto la stessa mossa che ci spingeva a narrare, in un altro modo, quel “qualcosa che accade da sempre”.