12.11.2024

L’illusione della memoria: ricordate il film Memento?

La fotografia è un inganno, un fatto, un’immaginazione. Da Italo Calvino a Christopher Nolan, analizziamo il ruolo delle immagini nel costruire o dissolvere la nostra idea di memoria e realtà.

Che la fotografia c’entri poco con la creazione della memoria l’aveva già intuito Italo Calvino nel suo racconto “Avventura di un fotografo”, redatto nel 1955.

In questo breve scritto Antonino, il protagonista, diventa portavoce di riflessioni più che mai attuali in merito alla funzione della fotografia e all’insensatezza del “momento fotografabile”:

«Basta che cominciate a dire di qualcosa: “Ah che bello, bisognerebbe proprio fotografarlo!” e già siete sul terreno di chi pensa che tutto ciò che non è fotografato è perduto [e che quindi bisognerebbe] vivere in modo quanto più fotografabile possibile, oppure considerare fotografabile ogni momento della propria vita.» 

Evidente profezia dei nostri tempi. 

Ricordi contro fatti

La fotografia, quindi, non crea una vera memoria, ma nobilita ciò che viviamo sganciandolo dalla linearità logica della storia, dal meccanismo di causa ed effetto grazie al quale si è manifestato.  

Un po’ più avanti, sempre Antonino si ritrova infatti a dover discutere con un paio di amiche che vorrebbero essere fotografate mentre giocano a pallone in acqua:

«Cosa vi spinge, ragazze, a prelevare dalla mobile continuità della vostra giornata queste fette temporali dello spessore d’un secondo? Lanciandovi il pallone vivete nel presente, ma appena la scansione dei fotogrammi si insinua tra i vostri gesti non è più il piacere del gioco a muovervi, ma quello di rivedervi nel futuro.»

Non solo momenti estratti dal loro flusso cronologico, ma anche inautentici quando ricercati intenzionalmente, “messi in posa”. 

Cosa registra, allora, una fotografia?

Esiste un intero film dedicato a questo argomento, anche se nessuno lo ricorda – a ragione – per questo motivo: il film è Memento, famoso capolavoro di Christopher Nolan del 2000. La storia è nota: Leonard (Guy Pearce) soffre di amnesia anterograda (non è in grado di trattenere i ricordi recenti) a seguito dell’uccisione della moglie, trauma che lo spinge a volerla vendicare trovando e assassinando il colpevole. Per fare ciò, così come per vivere nel quotidiano, Leonard fa fronte al suo disturbo adottando due tecniche differenti: coprirsi di tatuaggi per fissare le informazioni più importanti, e portarsi dietro una macchina fotografica Polaroid con cui scattare immagini istantanee a tutto ciò che può aiutarlo a orientarsi nella vita di tutti i giorni (le persone che incontra, cosa fa, dove alloggia, qual è la sua automobile, etc.). Sono dunque gli appunti scritti, fissi e perpetui, e le immagini altrettanto fisse a offrire a Leonard gli appigli con cui condurre non solo la sua vita, ma anche la sua indagine – come dice lui – sulle tracce dell’assassino. Ed eccoci al cuore della questione: Cosa crea Leonard con le sue fotografie? 

La memoria è un tradimento

La sua memoria o la materialità tracciabile della sua esistenza, i fatti che lo ancorano alla sua storia? Proprio su questo binomio, ricordi contro fatti, si articola un dialogo che Leonard intrattiene con Teddy, suo amico nella vicenda: 

L.: «Io cerco fatti, non cerco consigli.»

T.: «Non puoi affidare la vita di un uomo a degli appunti o a delle foto.»

L.: «Perché no?»

T.: «Perché i tuoi appunti potrebbero non essere affidabili.»

L.: «La memoria non è affidabile. […] Può tradire a volte. La polizia stessa arresta in base ai fatti, non ai ricordi. […] Ѐ così che si indaga. I ricordi possono essere distorti. Non sono la realtà. Sono irrilevanti rispetto ai fatti.» 

Leonard, con le sue polaroid e i suoi tatuaggi, vuole braccare i punti fissi di ciò che gli accade, e con quelli ricostruire una storia che abbia un senso e che possa spingerlo a continuare a viverla. Allo stesso tempo, le polaroid di Leonard rappresentano fatti senza storia, dal momento che non è in grado di formulare un criterio col quale collegarli. Sono paletti dati alle azioni del presente, sapere dove andare se si vuole mangiare o dormire, sapere quale macchina aprire, per orientarsi in una dimensione priva di linearità e di causalità. Non sono, quindi, ricordi.  

La fede di un uomo senza ricordi è riposta unicamente in ciò che c’è di inconfutabile (ma che spesso si rivela solo apparentemente inconfutabile).

La fotografia in generale non è mai un ricordo, l’abbiamo visto, bensì piuttosto un dato estratto dal flusso in cui è accaduto. Se viene a mancare chi possa di nuovo inserirle dentro un percorso logico e narrativo, ogni fotografia diventa la base di partenza per nuove, innumerevoli narrazioni. Attraverso Memento Nolan attiva una riflessione, a partire dalla struttura del montaggio, su questo scarto che si crea quando i fatti si susseguono senza poter risalire al loro significato, alla loro radice storica e cronologica. Infatti, seguendo il film, solo alla fine lo spettatore scopre la logica causale che lega gli eventi a cui assiste. Prima vengono i fatti, poi la storia. 

“Memory is treachery”, la memoria è un tradimento, è scritto indelebilmente sul braccio destro di Leonard. “Camera doesn’t lie”, la macchina fotografica non mente. 

La fede di un uomo senza ricordi è riposta unicamente in ciò che c’è di inconfutabile (ma che spesso si rivela solo apparentemente inconfutabile), e la macchina fotografica viene eletta da Leonard come unico mezzo in grado di tenerne traccia, registrare così come sono le cose che capitano. 

Una storia senza finale

Nell’introduzione di un suo famoso libro, “Meglio ladro che fotografo” (2007), Ando Gilardi, gigante della storia recente della fotografia, traccia una distinzione netta tra quella che lui chiama FF, fotografia fatalista, e ID, immagine determinista. «Spesso la fotografia fatalista (FF) viene confusa con l’immagine determinista (ID), detta altrimenti fotogramma cinematografico, dove ogni evento è determinato dagli eventi precedenti e successivi secondo un rapporto di causa ed effetto. Nelle fotografie fataliste, invece, gli eventi rappresentati, anche se prelevati dagli stessi oggetti, ovvero episodi, non sono legati da connessioni causali […]». 

La fotografia è di per sé il motore dell’invenzione, più che della documentazione (lo si è visto in un altro articolo), ed è molto più vicina all’irreale che al dato contingente. Leonard non fa un video di quello che vive, non si registra per poi rivedersi, non genera immagini deterministe. Vive, anzi, in un mondo fatto di frammenti scollegati, o meglio collegabili in talmente tanti modi da rendere impossibile capire quale sia il tracciato giusto, la realtà dei fatti a cui tanto aspira. 

Siamo dunque proiettati in un mondo in cui nulla è giustificato dall’evento precedente e in cui è impossibile prevedere quello successivo, perché la storia è ridotta a un accumulo di fatalità chiuse in se stesse. 

Per questo motivo Leonard vive una storia senza finale, e solo questo gli permette di volerla continuare, di avere un motivo per farlo. Ed è per questo motivo che potremmo dire che il vero, più latente interesse di Leonard sia sì riposto nella ricerca e ricostruzione dei fatti, ma di fatti legati a un significato costruito ad arte da se stesso, e quindi falso. Leonard vive nel suo mondo di immagini sconnesse, un mondo che Vilém Flusser definisce “magico”:

«Un tale mondo [quello delle immagini] si distingue strutturalmente dal mondo della linearità storica, nel quale nulla si ripete e tutto ha cause e avrà conseguenze. […] Il significato delle immagini è magico»

“Per una filosofia della fotografia”, 1983

La vita di Leonard si trasforma in un caso da risolvere, e i fatti, secondo quanto si vede, si trasformano in indizi, non in ricordi.

E così sono già due gli autori che premono sul tasto dell’assenza di logica narrativa come prerogativa fondante dell’immagine fotografica, e Memento pare chiudere un ciclo di dimostrazioni di questa tesi. La vita di Leonard si trasforma in un caso da risolvere, e i fatti, secondo quanto si vede, si trasformano in indizi, non in ricordi. Così come la fotografia, suo mezzo prescelto, è sempre indice di ciò che mostra, anch’essa un indizio che rimanda sempre ad altro. E l’indagine che seguiamo col protagonista del film è duplice: condotta sia per ricostruire la vita di tutti i giorni (dover scoprire da zero dove vive, o perché si trovi in un certo posto), sia per raggiungere la vendetta che si è preposto di ottenere. Oltre a cercare se stesso ogni pochi minuti, cerca il colpevole di un omicidio, aiutandosi con gli indizi/fatti/polaroid che recupera confusamente e che deve collegare ogni volta che la sua memoria a breve termine fa tabula rasa. Non è un caso che Teddy lo chiami scherzosamente “detective”: siamo di fronte all’antieroe della grande tradizione letteraria investigativa, all’anti-Sherlock Holmes, esempio massimo del razionalismo deduttivo, in cui ogni indizio conduce per forza di cose – della ragione, della logica, della memoria – ad altri indizi che, collegati insieme, formano il quadro narrativo di una verità nascosta. 

Con Leonard, il piano su cui viene condotta l’indagine è spostato su quello dell’irreale, del non risolvibile, dell’assoluta perdita di logica che possa portare a un risultato certo

Memento diventa, se vogliamo, la summa ideale di tanta riflessione teorica sulla fotografia, rivolta verso l’asserzione finale che la vita, quando fotografata, diventa una chimera lontana, che l’istantanea tutto è tranne che memoria. Forse, la traccia di qualcosa che non sarà mai più davvero ricostruibile.

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