In Cina esiste il fenomeno delle Grandi Dimissioni, la tendenza di rifiuto del lavoro che nel giro di due anni ha portato circa 50 milioni di statunitensi a lasciare il proprio lavoro? Le nuove generazioni abbracciano il “quite quitting”? A osservare i social media del paese sembrerebbe di sì. Anche perché la Repubblica popolare deve affrontare una commistione senza precedenti di tensioni internazionali e sfide interne. Una tra queste è l’alto tasso di disoccupazione giovanile (ne abbiamo parlato qui). La percentuale è cresciuta in brevissimo tempo, superando il 20% prima che le autorità ritenessero che l’unica decisione da prendere a fronte di record allarmanti fosse sospendere la pubblicazione dei dati in previsione di tempi migliori.
Negli anni l’Internet del paese ha veicolato una serie di discussioni che raccontano il rapporto tra cinesi e lavoro. Nulla ha potuto il cosiddetto “Great Firewall”, la grande muraglia virtuale che il Partito comunista ha costruito negli anni per “garantire la sicurezza nazionale”, bloccando fuori dal paese la maggior parte delle app e dei servizi non cinesi e promuovendo la nascita di un variegato ecosistema autoctono. Invece che appiattire il dibattito, gli sforzi censori hanno semmai costretto i netizen a scovare modi sempre più creativi per aggirare i controlli, approfittando dell’ampia scelta di omofoni di cui dispone la lingua cinese.
Se in molti casi gli utenti giocano al gatto e al topo con le autorità di regolamentazione del web (in particolar modo con l’orda di revisori che si occupano dell’auditing di miliardi di contenuti giornalieri), a volte il dibattito giovanile raggiunge i piani alti. Ad aprile del 2022 l’Ufficio informazioni del Consiglio di Stato aveva lanciato un appello ai giovani “della Cina nella Nuova Era”, affinché approfittassero delle “preziose opportunità di realizzare la loro ambizione e dimostrare il proprio talento, al contempo assumendosi la responsabilità di costruire un paese socialista moderno”.
Un invito che contrastava con il senso di sfiducia collettiva alimentato nelle settimane successive dalla mala gestione della crisi pandemica a Shanghai, i cui abitanti hanno dovuto soffrire due mesi di lockdown totale. Ma “già prima dell’impennata del tasso di disoccupazione e delle politiche Zero Covid i giovani della classe media urbana andavano maturando una visione del futuro non in linea con quella rassicurante del Partito”, spiega Diego Gullotta, docente della East China Normal University di Shanghai. Espressioni come tangping, 躺平 (letteralmente “sdraiarsi”) sono “una risposta diretta a una ingiunzione ideologica sistematizzata poi nel white paper del 2022”.
Espressioni come tangping, 躺平 (letteralmente “sdraiarsi”) sono “una risposta diretta a una ingiunzione ideologica sistematizzata poi nel white paper del 2022”.
Il tangping è solo uno dei tanti neologismi apparsi sul web cinesi negli ultimi anni. In un post pubblicato nel 2021 nella piattaforma Tieba, un utente raccontava di non avere un lavoro fisso da oltre due anni e di riuscire a campare riducendo al minimo le spese. In sostanza questa sorta di “manifesto” invitava i giovani a sdraiarsi, e fare a meno del superfluo: non consumare, non lavorare, non comunicare.
Un passo in più verso l’antilavorismo se messo a confronto con un altro termine divenuto virale sempre nello stesso anno. Una giovane di Shanghai aveva proposto di rispondere allo stress da lavoro “battendo la fiacca” e facendo il minimo indispensabile: un “quite quitting” in piena regola, che in lingua cinese era stato sintetizzato dall’espressione moyu, 摸鱼: si traduce letteralmente come “prendere i pesci” e deriva da un chengyu, un proverbio tradizionale composto da quattro caratteri (hunshui moyu, 浑水摸鱼: “catturare i pesci nelle acque fangose”) che riporta l’idea che in una situazione critica è meglio aspettare che si presentino le condizioni più facili, senza affaticarsi. Nel contesto lavorativo invita non solo ad accantonare ogni parvenza di ambizione, ma anche sforzarsi a svolgere di nascosto azioni irrilevanti pur di non lavorare.
Questi neologismi esprimono le difficoltà dei giovani di classe media, ma non riescono a raggiungere la profondità tale da disarticolare il discorso dominante orientato al mercato.
In Cina si è parlato talmente tanto di queste espressioni che i media internazionali le hanno interpretate come il preludio di una rivoluzione che avrebbe presto coinvolto l’intero paese. Più che essere davvero indicatrici di un movimento collettivo, le buzzword in questione sono semmai una reazione spontanea a problemi generazionali. Secondo il saggio “Disarticulating Qingnian” di Lili Lin e Diego Gullotta pubblicato per la rivista Made in China Journal, questi neologismi esprimono le difficoltà dei giovani di classe media, ma non riescono a raggiungere la profondità tale da disarticolare il discorso dominante orientato al mercato.
Va riconosciuto loro, tuttavia, l’aver occupato lo spazio dei discorsi ufficiali in più di un occasione. I media statali hanno prontamente reagito definendo il tangping come “vergognoso”. Imprenditori miliardari e altre personalità simili non si sono esentate dall’abbracciare la litania del “i giovani non vogliono più lavorare”. Ma quasi supplicando i diretti interessati: “Su chi altro possiamo contare per il futuro della Cina, se voi giovani vi sdraiate?”.
Il discorso è poi proseguito. Alle chiamate collettive lanciate dall’alto, millennial e gen Z hanno risposto con un nuovo neologismo: nel 2022 bailan 摆烂, “lasciar andare”, “lasciar marcire”, ha guadagnato in breve tempo popolarità sul web con il suo invito ad accettare di buon grado una situazione in deterioramento, rifiutando in partenza il tentativo di risollevarla. Ma pare di capire che questo approccio di isolamento e rifiuto totale delle dinamiche attuali venga meno nei giovanissimi, che hanno più strumenti per agire in senso proattivo.
Un post ha provato a spiegare questa sorta di dibattito generazionale chiarendo che se “i nati negli anni Settanta lavorano senza lamentarsi e quelli degli anni Ottanta sono dei veri yes man (servili, accomodanti, pronti a dire sempre di sì al capo, ndr)”, allora “i nati negli anni Novanta tentano di ricavare il meglio che possono da una situazione di crisi (un approccio che nella versione in cinese è descritto proprio con il termine moyu, “prendere i pesci”)”. I “nati nel Duemila”, invece, “sono quelli che dovranno colpire duro”.
Già nella prima metà del 2022 si è fatto strada un hashtag che non lascia spazio a dubbi e che in poche ore ha superato le 12 milioni di visualizzazioni: “I nati dopo il Duemila trasformano il luogo di lavoro” ha raccolto le testimonianze di chi, deciso a non accettare condizioni di sfruttamento a lavoro, ha fatto causa all’azienda o ha ridicolizzato il capo davanti a tutto il dipartimento. Il magico mondo dei meme, neanche a dirlo, ha risposto con prontezza.
Come si prospetta il futuro per le nuove generazioni? Accusate di arroganza e “incapacità di adattarsi e comunicare”, devono far fronte a un mercato del lavoro contratto dove avere un ottimo background universitario non sembra più avere l’importanza di un tempo. Una stortura descritta da un articolo divenuto virale proprio di recente: il 22 settembre scorso, al secondo posto tra i topic più seguiti del giorno, compariva: “Un laureato cambia titolo di studio con diploma di scuola superiore e riceve decine di richieste di colloqui”.
“Un laureato cambia titolo di studio con diploma di scuola superiore e riceve decine di richieste di colloqui”.
La storia è quella di un ragazzo lingling hou e del suo personale e doloroso percorso di ricerca di lavoro. Valutando vari annunci sui portali dedicati si è reso conto che la maggior parte “non sono adatti a lui” in quanto richiedono esperienze lavorative che lui, dopo quasi un ventennio passato sopra i libri, non può avere. Il ragazzo spiega che si accontenterebbe di un lavoro qualsiasi, e non si aspetta di prendere più di 3 mila yuan al mese (neanche 400 euro).
Preso dallo sconforto modifica il livello di istruzione eliminando ogni riferimento alla laurea. Il giorno dopo scopre di essere stato bombardato da richieste di colloqui di lavoro.
Le discussioni che nascono sul web, tuttavia, non sono autoreferenziali. Non si rivolgono solo ai giovani. Alcune denunciano le storture del capitalismo e le difficoltà dei lavoratori tutti. Qualche mese fa China Digital Times, sito che indaga il web cinese, ha dedicato un approfondimento al termine renkuang 人矿, nato dall’accostamento delle parole 人, persona, e 矿, minerale, e tradotto in inglese come “humineral”. Di che si tratta? Come si legge nel post-manifesto uscito a inizio 2023 su Zhihu, portale di Q&A simile a Quora, i renkuang sono tutti colori che vengono sfruttati dalla società e poi scartati una volta considerati inutili. Se sei un “miniera umana”, si legge ancora, “sei un mezzo, non un fine. Il lavoro della tua vita sarà dedicato alla realizzazione altrui, invece di perseguire i tuoi desideri”. Un processo che accompagna l’intera esistenza e che marchia il destino del popolo cinese, che come scherza un utente è al fianco del “petrolio saudita e al ferro australiano” nel podio delle risorse meglio sfruttabili dell’intero pianeta.
Il processo inizia già durante gli anni scolastici, che servono a “estrarre il tuo potenziale” e a “trasformarti in minerale”, pronto per essere utilizzato dal sistema. Alla fine è previsto, inevitabile, lo smaltimento. Il post, fatto sparire in breve tempo da tutte le piattaforme, non pecca di fatalismo. L’utente che ha scritto il post chiarisce che basterebbe che “le persone smettessero di alimentare la ruota della storia e le altre che si sono astenute non verrebbero schiacciate”.
Il discorso si lega a doppio filo al “dividendo demografico”, un termine tecnico che secondo il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (UNFPA) indica l’abbassamento del tasso di dipendenza, ovvero la riduzione di quelle fasce della popolazione (giovanissimi e anziani) che dipendono dalla popolazione in età lavorativa, e il potenziale di crescita economica che ne deriva. Un approfondimento fatto sparire dal web ma poi pubblicato in cinese sempre da China Digital Times, sostiene che il cosiddetto “miracolo asiatico” fonda le sue ragioni nello sfruttamento della manodopera a basso costo (quindi, nella miniera umana). Ad oggi, continua, i governi fanno in modo che i ricavi generati dal processo industriale vengano reinvestiti nell’espansione della produzione e non nel benessere collettivo. Se alcuni paesi dell’area come il Giappone stanno correndo ai ripari investendo nel welfare, secondo l’autore la Repubblica popolare cinese non ha ancora “sviluppato a pieno questa fase” e sta pagando le conseguenze di aver scavato troppo a fondo.
La disillusione giovanile nei confronti del futuro genera tendenze varie, online e offline. Una di queste vede il ritardo, se non addirittura il rifiuto, della maternità. Sempre più cinesi di città scelgono una vita DINK, acronimo che sta per double income, no kids, rifiutando un’esistenza assoggettata ai costi per l’assistenza all’infanzia e per l’educazione dei figli. E oltre ai giovanissimi che denunciano il proprio capo, ci sono anche quelli che organizzano feste di licenziamento per i propri amici, muniti di striscioni con su scritto “Bravo! Hai finito con questo lavoro di merda!”