Qualche sera fa con una mia amica stavamo parlando di relazioni, e lei a un certo punto, ispiratissima, ha coniato il termine perfetto per parlare di – e dissacrare – quel genere di rapporti che si consumano in modo perlopiù digitale: le ha rinominate le “cose nel telefono”.
La definizione più perspicua di questo fenomeno potrebbe suonare come: le cose nel telefono sono “surrogati di presenza“, ovvero quelle persone, in stato di perenne latenza, che sono state per un po’ nella nostra vita fisica e che poi si sono poi rincantucciate nel virtuale. Osservano, visualizzano, likano, lasciano tracce, scompaiono, ricompaiono – a volte commentano, a volte digitano degli stanchi «Ehi, come va?».
«Se ci pensi, è davvero il termine perfetto per descriverli: perché questi se ne stanno là e là vogliono restare, pensare di (ri)portare le cose nel reale è troppo impegnativo, invece così non gli costa nessuno sforzo.»
È il genere di situazioni che farebbe molto ridere – e per fortuna, a volte, fa ridere davvero tanto – se non fossero, in un altro senso, estremamente serie.
Una ricognizione simil-filosofica: perché?
Basta una ricerca con le parole chiave giuste per intercettare fior fiore di studi sull’esperienza delle vittime di ghosting e orbiting. Molti di questi, ad esempio, affrontano il tema delle relazioni digitali a partire dai digital e media studies o dalla psicologia sociale: in particolare, un paper di un team di ricercatori dell’Università di Castilla-La Mancha mostra che, nel campione analizzato, chi ha affermato di aver usato app di incontri e ha subìto fenomeni come il ghosting, ha poi a sua volta iniziato a esserne artefice.
Digitando le stesse keyword su Facebook o Instagram, imperversano i profili di sessuologi e psicoterapeuti che propongono all’utenza social diversi contenuti motivazionali per uscire dallo stallo di una relazione-non-relazione, ma non è raro imbattersi anche in contenuti come testimonianze dalla forte componente autobiografica.
D’altro canto, per non prescindere da una cornice socio-politica, come si può non ricomprendere questo paradigma di rapporti mordi-e-fuggi dentro il più grande gioco del capitalismo neoliberista che sembra condurci sempre di più verso un consumismo dei rapporti a basso impatto energetico?
Tutto questo, però, non ci fa avanzare di molto nella conoscenza analitica del fenomeno; o meglio, questo insieme di conoscenze non va certo disconosciuto, ma per inquadrare l’esistente si può indugiare su altri paradigmi che partano dalle definizioni minime e fondamentali. Ovvero si può ragionarne a partire da un punto di vista filosofico.
Esiste, ad oggi, una precisa e particolareggiata tassonomia delle modalità relazionali online: non ci troviamo di fronte solo a ghosting e orbiting, ma anche a fenomeni come l’haunting e il breadcrumbing.
In questo senso, è più raro trovare chi si occupa della nuova relazionalità digitale analizzandola come uno degli ambienti in cui siamo, a tutti gli effetti, agenti morali (e come sempre, esistono le fortunate eccezioni).
Come scrive T.W. Adorno in Minima Moralia: «L’idea dell’importante s’ispira a criteri organizzativi, l’idea dell’attuale si commisura alla tendenza oggettiva di volta più potente […]»; per converso, si può affermare che il potere di un intendimento filosofico si rinvigorisce nell’essere inattuale, nel basarsi su un modus cogitandi estraneo a criteri di urgenza e modernità, in quanto: «È essenziale, al pensiero, un momento di esagerazione, un trapassare oltre le cose, un liberarsi dalla gravità del puro fatto […]». Ecco come l’ipotesi di scavo filosofico mostra la sua fruttuosa specificità (anche) nel comprendere un fenomeno tutto contemporaneo come la nuova relazionalità digitale.
Partendo dal presupposto che «Nessuna innovazione tecnologica ha cambiato così tanto il nostro senso del presente e della contemporaneità» e che c’è, nello smartphone, una «componente animista» poiché esso «contiene in potenza la presenza altrui», come si legge in Surrogati di presenza di Franco La Cecla, antropologo dei media, sarà banale forse ripetere che non possiamo permetterci di prendere sottogamba ciò che accade al nostro sé digitale, un sé che esiste sempre di più (a scapito di? accanto a? al posto di?) quello real-fisico: «Televisione, fotografia, Internet non sono scomparti specifici ma l’orizzonte generale dentro cui si iscrive oggi la vita quotidiana».
Esiste, ad oggi, una precisa e particolareggiata tassonomia delle modalità relazionali online: non ci troviamo di fronte solo a ghosting e orbiting (neologismo che indica il rimanere nell’orbita della persona a mezzo social, monitorando gli aggiornamenti senza impegnarsi in vero approccio, come messo in evidenza da Laura Carrer); al ghosting, infatti, può succedere il cosiddetto haunting: le persone sparite riappaiono, ancora una volta senza preavviso o spiegazione, tramite pigri tentativi di connessione.
Questa pratica si chiama anche breadcrumbing ed è l’atto di “lanciare briciole d’attenzione” che potrebbe indurre qualcuno a credere che questa stessa attenzione social corrisponda a un interesse caratterizzato da progettualità e coerenza, mentre risulta perlopiù un impegno sufficiente a mantenere l’altro là, all’occorrenza.
Tra app di incontri, chat aperte che pulsano senza scopo, amici di amici conosciuti su Facebook, estranei che si apprezzano vicendevolmente le stories su Instagram, non possiamo più lontanamente pensare a una società in cui il potenziale incontro amoroso, sessuale, affettivo con l’altro avvenga completamente in analogico.
Se non succede a noi in prima persona, succede agli amici e alle amiche, a chi abbiamo intorno, ai conoscenti: l’altro in sé e per sé fuori dall’ambiente digitale non esiste.
Purtuttavia, si può affermare che alcuni modi di avere a che fare con gli altri sono precipui degli ambienti digitali stessi e più raramente si danno altrove. Come se, sotto traccia, serpeggiasse l’idea che questi ambienti sono meno veri perché incorporei.
Virtuale, però, non è il contrario di “reale”; ne è una piega. Come scrive Pierre Lévy nel suo Il virtuale (R. Cortina Editore, 1995): «La parola virtuale proviene dal latino medievale virtualis, derivato, a sua volta, da virtus, forza, potenza. Nella filosofia scolastica virtuale è ciò che esiste in potenza e non in atto. Il virtuale tende ad attualizzarsi, senza essere tuttavia passato a una concretizzazione effettiva o formale […] Il virtuale non si contrappone al reale ma all’attuale: virtualità e attualità sono solo due diversi modi d’essere».
Nell’impianto del filosofo francese, “virtuale” è da intendersi come uno dei poli che costituisce il quadrato ontologico dei modi dell’essere, ma se ce ne serviamo per meglio comprendere gli ambienti digitali e riportiamo il concetto di “virtuale” al suo etimo, si nota come virtualità di per sé non significhi “minore realtà” rispetto a un ambiente fisico.
La premessa sociale condivisa, però, sembra essere un’altra: ovvero che il virtual-digitale ha di per sé meno valore del real-fisico. Da questa concezione scaturisce tutto un apparato comportamentale che poniamo in essere rispetto all’Altro nella sfera digitale e, di conseguenza, ci poniamo nella situazione come soggetti di moralità sui generis.
Fare ghosting, sparire, riapparire, rintanarsi nel digitale, mantenere una presenza “in potenza” – tutto questo significa negarsi alla possibilità del confronto su perché una frequentazione, una relazione, un incontro non siano andati a buon fine.
Figure dello Spirito: l’Agente Morale Alleggerito
Per schematizzare quanto basta – ma in modo non indebito, si spera –, come agenti morali noi siamo il crocevia tra la tradizione di pensiero occidentale che, da Platone in poi, ha “ipotizzato” l’altro a partire da sé – per il principio di identità – e, in epoca recente, la concezione dell’ambiente digitale come “meno vero”. L’incontro con l’Altro può non essere semplice, ma nelle sfere digitali questo Altro-sentimentale che ci fa difficoltà, sempre annullabile e riducibile a icona, sembra un po’ meno vero. E noi un po’ meno responsabili se non ci comportiamo bene; quando succedono episodi del genere, incarniamo la figura di quello che, con una battuta, si potrebbe definire come “agente morale alleggerito”.
Alleggerito da cosa? Dalle conseguenze delle proprie azioni, ovviamente: in questi ambienti digitali, l’agente morale sembra attraversato due volte da un soggettivismo esasperato che può sfociare in solipsismo, al centro di una spirale in cui l’istanza di alterità viene nullificata nella sua possibilità di sollevare un problema, un dilemma, un dubbio di natura etica. Da cui è alleggerito, per l’appunto.
Fare ghosting, sparire, riapparire, rintanarsi nel digitale, mantenere una presenza “in potenza” – tutto questo significa negarsi alla possibilità del confronto su perché una frequentazione, una relazione, un incontro non siano andati a buon fine. C’è in questo senso un tema di (mancata) responsabilità e si pone, pertanto, un tema etico.
Nel Novecento il tema dell’alterità che ci interpella e ci ri-guarda è stato oggetto di analisi di molti pensatori, soprattutto di matrice esistenzialista; se, ad esempio, all’umanesimo dell’essere, nel suo impianto teoretico Lévinas contrappone l’umanesimo “dell’altro uomo”, in L’essere e il nulla Sartre scriverà che «Io sono quel “me” che un altro conosce»: l’Altro è una presenza con cui il soggetto entra in contatto attraverso la fenomenologia dello sguardo.
Inizialmente concepito come mero oggetto, quando il soggetto si rende conto che anche l’Altro lo guarda – e non solo è guardato – questa certezza entra in crisi; l’altro esiste, è un soggetto, e chiede riconoscimento e responsabilità.
Seguendo questa suggestione, nell’ambiente digitale accade che l’altro può ritrovarsi a non essere soggetto ma solo oggetto, reificato nello sguardo di chi non vive una relazione di responsabilità verso lui (/lei). In poche parole, online ci comportiamo come agenti morali alleggeriti.
Al netto di decretare se questi siano schemi comportamentali giusti o di dirimere se esistano situazioni in cui sia sensato attuarli, il fatto è questo: quando facciamo ghosting oppure orbiting, l’Altro proprio non lo vediamo, nel senso che scegliamo di non vederlo.
Vittime del bias che consiste nel concepire il virtuale come meno reale, attraversati da un profondo solipsismo, ci muoviamo dentro una cornice morale sui generis, alleggeriti nel fare spallucce e dirci che, in fondo, se non ci si comporta bene non si paga pegno nel digitale.
Cadiamo nell’errore di pensare che le relazioni che nascono, progrediscono e/o muoiono sugli schermi dei nostri smartphone siano ontologicamente più lievi (leggi: meno reali, meno vere) e non possano arrecare grossi danni né far molto male. Finché non capita a noi: ed è quello il momento in cui cambia tutto e scatta la voglia di capirci qualcosa di più.