La domanda con cui vengono accolti i fatti veicolati dai canali di informazione e la fotografia contemporanea è, spesso, la stessa: quello che vedo è vero o falso?
Si prenda, come è d’obbligo fare in questi giorni, il caso dell’attentato a Donald Trump dello scorso 13 luglio, candidato presidente degli Stati Uniti del Partito Repubblicano, durante la sua campagna elettorale in Pennsylvania. Sono tre le immagini diventate immediatamente virali: quella dove Trump, ferito, solleva il pugno mentre alle sue spalle svetta la bandiera USA (link immagine), a opera di Evan Vucci (prestigioso reporter dell’AP Press e già premio Pulitzer nel 2021 – link); quella di Anna Moneymaker (fotografa per Getty Images – link), in cui si vede solo il volto dell’ex presidente, accasciato e confuso dopo essere stato colpito (link immagine); e infine quella di Doug Mills (link), ex Premio Pulitzer anche lui, in cui si vede addirittura la scia del proiettile che da lì a pochi secondi avrebbe colpito il viso di Trump (link immagine).
È tutto vero?
Di fronte a queste immagini – considerate ormai vere e proprie icone pronte a entrare nella storia del fotogiornalismo, come si legge non solo in miriadi di commenti sui social web, ma anche su articoli online (link)- molti utenti stanno sollevando i dubbi leciti su alcune possibili modifiche digitali delle fotografie. Viviamo nel regno del dubbio da quando abbiamo iniziato a capire le potenzialità effettive dell’intelligenza artificiale applicata alla post produzione digitale, da quando sappiamo coscientemente che tutto può essere reinventato in modo così verosimile da non farci accorgere dell’inganno, della menzogna che si annida dietro ai pixel. Del resto, è una funzione alla portata di tutti: il riempimento generativo è qualcosa che chiunque possieda l’ultima versione di Photoshop può imparare a usare guardando semplicemente un tutorial online, potendo così iniziare a creare mondi del tutto coerenti con la realtà, ma che non esistono affatto, falsificando così paesaggi, volti, e qualsiasi altra cosa col minimo sforzo. Quanto può essere difficile mettere una scia di un proiettile, posizionare meglio la bandiera degli USA sullo sfondo del candidato redivivo in modo che componga una fotografia perfetta per il prossimo World Press Photo? Per nulla difficile, anzi, semplicissimo anche per chi nella vita non si occupa di fotografia.Da un anno circa, infatti, iniziano a comparire nuove regolamentazioni proprio in merito all’intelligenza artificiale generativa, che sia di testo o di immagini, e a questo proposito si può ricordare il comportamento della Cina sul controllo di questo settore (link).
Quello che poteva sorgere, e che sorge tuttora di fronte a eventi come l’attentato a Donald Trump, è un altro tipo di dubbio, diventato ormai di secondo grado, ma che suona allo stesso modo del primo: è tutto vero?
Dunque, a prescindere dal fatto che le immagini in questione siano o non siano state davvero modificate, è interessante mettere in rilievo quella che, d’ora in avanti, pare essere diventata la prima domanda con cui si accoglierà il mondo dell’immagine di informazione: è tutto vero? Si pensi ad altre immagini, quelle di Ron Edmonds scattate in occasione dell’attentato mosso contro Ronald Reagan il 30 marzo 1981, in cui John Hinckley Jr. sparò sei volte contro il presidente statunitense fuori dall’Hilton Hotel di Washington, DC (link). Chi avrebbe potuto pensare che quelle immagini fossero false? False, intendo, da un punto di vista interno dell’immagine, di contenuto: nessuno si sarebbe potuto davvero domandare se, ad esempio, il corpo della tal persona fosse realmente caduto in quella data posizione, o se davvero i fatti si fossero disposti così come li si vede nelle fotografie. Quello che poteva sorgere, e che sorge tuttora di fronte a eventi come l’attentato a Donald Trump, è un altro tipo di dubbio, diventato ormai di secondo grado, ma che suona allo stesso modo del primo: è tutto vero? Domanda, in questo caso, non tanto riferita al contenuto dell’immagine, quanto al fatto in sé, alla sua autenticità storica. Lo spettatore è portato a prendere una posizione di scetticismo sulla ipotetica o presunta messa in scena del fatto che la cronaca intende comunicare. Anche nel caso recente di Donald Trump in molti si sono posti questa seconda domanda, dando il via a numerose teorie alternative a quella narrata dai media di informazione (non sarà mica un teatrino costruito ad arte? E da chi?) generando fiumi di opinioni e ipotesi più o meno documentate su cui il dibattito è tuttora aperto.
L’inquadratura da premio World Press Photo
D’altronde, la storia degli attentati a grandi capi di stato o candidati tali è molto ampia, ma per quanto riguarda il nostro discorso potrebbe partire da quello avvenuto nel 1934, a Marsiglia, che costò la vita ad Alessandro I di Jugoslavia, in visita in Francia. Questo, infatti, fu il primo attentato filmato in diretta della storia (link). E il documento video, come accade ancora, fu usato dalla cronaca internazionale, specialmente statunitense, per veicolare informazioni talvolta totalmente errate riguardo all’accaduto, generando delle vere e proprie fake news. Non è certamente un tema soltanto attuale: già Michele Smargiassi nel suo libro Un’autentica bugia: la fotografia, il vero, il falso (Contrasto, 2009) ricordava il caso, risalente al 2000, in cui un’immagine di reportage dell’intifada palestinese, scattata a Ramallah e in cui si vede un ragazzo in kefiah con le mani alla testa per proteggersi e una fionda, venne totalmente stravolta dalla redazione del giornale per cui sarebbe stata pubblicata (Il Manifesto) togliendo un uomo nell’atto di lanciare dei sassi che si trovava sullo sfondo e dando il falso titolo La caccia di Nazareth (luogo molto più noto rispetto a Ramallah al pubblico occidentale) per rafforzare l’idea che il giornale intendeva sostenere. Ma è allo stesso tempo interessante notare come la fruizione dell’immagine di cronaca contemporanea si stia saldamente impostando su dubbi sempre più radicati nello spettatore: un dubbio rivolto al contenuto dell’immagine, uno alla realtà dei fatti, che formano la doppia elica del DNA del sospetto contemporaneo rispetto al mondo dell’informazione. Il criticismo generale pare così essersi inasprito a seguito delle insidie avanzate dal mondo dell’AI, e non solo dalla possibilità di orchestrare a piacere le vicende da parte della politica e dai media.
Ma un secondo aspetto è stato di non poco conto nella vicenda dell’attentato di Donald Trump e le relative immagini divenute ormai oggetto di commento quotidiano: il modo in cui queste immagini sono state percepite nel loro intrinseco potere estetico e comunicativo all’interno del processo storico presente e futuro. Tutti, a quanto pare, hanno davvero eletto le immagini che abbiamo citato sopra (di Evan Vucci, di Anna Moneymaker e di Doug Mills) icone del nostro tempo, pronte a inserirsi nell’album delle immagini della storia contemporanea che sarà da narrare ai posteri. L’impatto visivo dell’immagine, a prescindere dallo scetticismo con cui la si coglie, può essere colto su vastissima scala secondo criteri si direbbe universali. L’unica certezza, nonostante l’alone di dubbio che circonda il fatto e queste immagini, pare rimanere unicamente il successo che otterranno nel futuro, il loro potenziale effettivo di simboli di un certo periodo storico. La percezione estetica di un’immagine è un’esperienza che, potremmo dire, riesce a superare la presunta falsità del fatto che rappresenta o del modo in cui viene raccontato. Allo stesso tempo, il fatto che sia stato anche assegnato idealmente, e sempre all’unanimità, il premio del World Press Photo alle fotografie citate (sulle pagine social si è creata una vera giuria critica), significa anche che lo stile del reportage contemporaneo e, soprattutto, di quello portato in auge da uno dei concorsi fotografici più prestigiosi al mondo, possiede ormai categorie definite e perfettamente riconoscibili. Tutti sanno distinguere un’immagine che ha le carte in regola per finire nella storia e per essere premiata internazionalmente: non ci sono sorprese per gli occhi dei contemporanei.
Cenerentola
Una terza considerazione nata dall’episodio di Donald Trump verte sulle differenze di modalità dell’espressione del dissenso e la loro comunicazione. Nelle ultime settimane hanno visto la luce due pubblicazioni che appartengono ad ambiti differenti. L’aspetto rilevante è che entrambe vertono sul tema del dissenso civile e rappresentano il tentativo di antologizzare i moti di rivolta più importanti – ma a volte meno noti – che hanno avuto luogo nel corso (prevalentemente) degli ultimi due secoli su scala internazionale. Una concomitanza che non deve essere casuale in questo arco storico. Uno dei due libri è W la Libertad – Fotografie di protesta (a cura di Federico Montaldo e Luciano Zuccaccia), edito da Postcart, in cui viene tracciata una storia fotografica dei movimenti di resistenza popolare contro autorità politiche ed economiche; il secondo è Grido, non serenata, una breve antologia poetica curata da Erri De Luca e pubblicata da Crocetti Editore che cuce un percorso attraverso quegli autori che hanno portato su carta la volontà di rivoluzione verso il potere costituito. Due libri differenti e speculari, curiosamente pubblicati quasi contemporaneamente e accomunati da un medesimo effetto di sensibilizzazione. La storia recente della ribellione di massa, che fino a qualche settimana fa trovava una riflessione diretta nella situazione dilagante di manifestazioni e rivolte legate al conflitto in atto israelo-palestinese, trova in questi giorni un contraltare opposto nell’attentato a Donald Trump, messo in atto da un singolo individuo. La figura dell’attentatore in questo caso si contrappone alla massa, l’identità dell’individuo/colpevole all’anonimato della moltitudine. L’odio verso un rappresentante del potere trova una narrazione in cui il popolo è sostanzialmente escluso e in cui invece sorge, come punta di un iceberg, l’estrema volontà di chi vuole contrapporsi alla figura eletta come obiettivo da colpire.
Nelle immagini delle rivolte popolari il concetto di distruzione acquisisce un carattere del tutto diverso. In quel caso, come sappiamo, il protagonista è il popolo, il soggetto che incarna la volontà di ribellione, e la violenza che mette in atto è qualcosa con cui possiamo anche identificarci. D’altronde, ciò che le immagini di questo tipo ci dicono è: il popolo sei anche tu. Siamo chiamati a prendere atto di quanto sta vivendo la propaggine della casta a cui apparteniamo. Quindi, le azioni che compie il popolo, qualunque popolo, è qualcosa che potenzialmente ci riguarda in prima persona.
Nel caso delle immagini dell’attentato mosso da un singolo cittadino, il protagonista diventa automaticamente la vittima, il soggetto colpito: la notizia non è più la rabbia, ma le sue conseguenze quando portata all’estremo, il pericolo che corre chi ne diventa il bersaglio. E la retorica del politico ferito acquisisce subito la dignità di simbolo. L’intoccabile (Donald Trump, in questo caso) scopriamo che può essere fatto sanguinare da un’azione umana e, sebbene ferito, non cede al dolore o allo sconvolgimento, ma continua a portare in alto l’onore della patria (immagine di Evan Vucci).
Una Cenerentola colpita a sangue perde la sua scarpa prima di essere tratta in salvo dalla sua schiera di guardie. Questa è un’immagine che, nella sua totale essenzialità, racconta più di quanto il volto combattivo dell’ex presidente possa fare.
Sebbene aleggino i dubbi di cui si parlava sopra in merito all’autenticità del fatto in sé e a quella delle stesse immagini che lo rappresentano, non esiste a quanto pare un vero impedimento per prendere parte (emotivamente, ideologicamente, politicamente) a quello che ci viene mostrato.Forse però è sfuggita un’ultima immagine, davvero simbolica, in merito all’episodio di Donald Trump. Ѐ di Jabin Botsford (link), e mostra solo una scarpa abbandonata al centro del palco su cui si stava tenendo il discorso (link immagine). Trump, nella concitazione del momento, non è riuscito a rimettersi bene le scarpe prima di essere trasportato al sicuro dagli agenti di sicurezza. Una Cenerentola colpita a sangue perde la sua scarpa prima di essere tratta in salvo dalla sua schiera di guardie. Questa è un’immagine che, nella sua totale essenzialità, racconta più di quanto il volto combattivo dell’ex presidente possa fare. E per quanto la minaccia della falsificazione dell’AI sia sempre alle porte, una fotografia di questo genere difficilmente offre materiale per essere modificata. Una scarpa, il tappeto rosso del palco, la bandiera sfocata sullo sfondo attaccata alle transenne degli spalti. La folla già in movimento per scappare o comunque andare via dopo la fine traumatica del comizio, disattenta a quel piccolo particolare. In un articolo apparso su Il Foglio di Isaac Arnsdorf (con le immagini di Botsford), vengono riportate le parole catturate dai video e dai giornalisti presenti sul posto (link) nei momenti successivi all’attentato:
[…]
- “Fammi mettere le scarpe”, dice Trump, mentre gli agenti lo sollevavano.
[…]
- Aspetta, ha la testa insanguinata.
- “Lascia che mi metta le scarpe”, dice di nuovo, mentre gli agenti lo circondavano.
Ma la scarpa è rimasta lì.