12.02.2025

Piccola storia fandom: dalla cameretta alla performance social

Dieci anni fa mi girarono il video di una ragazzina disperata che, in lacrime di fronte al giornalista che la intervistava, chiedeva a Justin Bieber perché non avesse scelto Napoli come meta del suo tour. Si era sparsa la voce che Bieber fosse in città e lo zoccolo duro dei suoi fan, i belieber partenopei, si erano radunati sotto un albergo del lungomare per controllare se fosse vero. Bieber, però, non c’era. E figuriamoci. 

La ragazzina all’epoca aveva undici anni e, con la rapidità supersonica che solo Internet poteva e può garantire, fu catapultata suo malgrado nella piscina piena di cloro dei nostri archivi digitali, riuscendo a diventare – sto per scriverlo e di questo mi scuso con tutti e tutte – un meme vivente senza volerlo. Scrivo “suo malgrado” e “senza volerlo” perché dubito che la ragazzina fosse uscita di casa con la speranza di essere usata come citazione incredibilmente divertente da un gruppo di proto incel che, a tarda notte, bevono birre in lattina al parchetto del loro comune da quattromila abitanti e pontificano sul cosmo.

Un atto di fede solitario, senza protagonismo

Salto in avanti alla scorsa estate. Il mio feed, e quello di buona parte delle persone che conosco, è intasato dalle immagini provenienti dall’Eras Tour, la tournée mondiale di Taylor Swift che ha riscritto qualunque cosa si potesse riscrivere in fatto di live. Più della musica che non conosco affatto, dei record e dei primati che poco muovono le mie emozioni, per quel che ho visto e per quel che mi interessa, a prendersi la scena sono stati i suoi adepti. Sulle e sugli swifties si è scritto tutto, o quasi tutto, e io conosco troppo poco il loro mondo per aggiungere elementi all’analisi. Sono però uno che, come dice una mia amica, non sa fare altro che parlare “dell’esperienza umana in generale” (che è forse il complimento più bello io abbia mai ricevuto) e quindi di quello volevo scrivere più o meno, perché questa cosa del diventare fan di qualcuno, soprattutto fan accanito di artisti molto pop e molto internazionali, mi sembra una cosa umana che racconta qualcosa di chi siamo stati e di come siamo diventati.

Ho attinto dal mio vissuto tardo-adolescenziale, guardato video e scandagliato i fondali dei forum di beliebers e directioners, i cui ultimi aggiornamenti risalgono ai primi anni dieci, un’emozionante distesa di vanità e utopie, di domande sulla parte del corpo preferita dell’artista in questione (erano le labbra o il sorriso, di solito) o sulle cose che gli direbbero se lo incontrassero per strada. Sul forum dedicato a Chris Brown, cantante americano coinvolto in decine di questioni legali, si sprecano i commenti dedicati al suo cane (presumo, purtroppo, defunto nel frattempo). 

Ai tempi, il mito lo si sceglieva dal mazzo, quasi a caso, e si diventava fan di qualcuno fino alla monomania. Conosco persone che per anni non hanno fatto altro che parlare dei Tokio Hotel. La loro intera personalità si basava su quello. Si diventava fan per atto di fede, fascinazione e timore reverenziale, per un singolo sentito alla radio o per un accenno fatto da una compagna di classe più popolare. Nel segreto di camerette con i mobili in formica si ritagliavano i bordi delle foto apparse sui giornaletti e si preparavano collage da appiccicare sul diario delle medie o dei primi anni di liceo, in scenette che sembravano uscire direttamente dagli anni ottanta. Si organizzavano autobus e appostamenti all’uscita dei ristoranti, si fondavano fanpage e si scrivevano fanfiction: per esempio. Tra la fine degli anni zero e l’inizio degli anni dieci, mi sembra che essere fan non significasse immedesimarsi. Volevamo solo essere diversi da come eravamo. Schiacciati dal peso della conformazione a cui eravamo costretti, era la distanza ad affascinare. Più erano irraggiungibili, più i fan impazzivano. 

Migliaia di solitudini di provincia incomprese da parenti e amici, migliaia di anime sole che trovavano, in quella fissazione martellante, tutto ciò di cui avevano bisogno.

Guardandomi indietro, ho avuto l’impressione che gli idoli fossero innanzitutto dei boni, ancora prima di essere dei buoni artisti, boni di una bellezza sanificata e asetticamente candida, da tivù generalista, che mi è sembrata una cosa coerente con la visione di mondo che avevamo ai tempi e che ha plasmato i canoni artistici ed estetici tra la fine degli anni novanta e l’inizio dei duemila, specie in Italia. Sbav, si commentava un tempo nel linguaggio di internet sotto alle foto di Harry Styles appena sedicenne in costume, e lo scrivevano adolescenti in crisi ormonale o tranquille madri di provincia con problematici desideri escapisti. 

Abituati a vedere l’idolo come santino da venerare, rintanati in esistenze minori che mai avrebbero potuto competere con quella dell’artista, erano migliaia di solitudini di provincia incomprese da parenti e amici, migliaia di anime sole che trovavano, in quella fissazione martellante, tutto ciò di cui avevano bisogno, in un rapporto che era prima di tutto privato, una sorta di passo a due, e solo poi, molto distante, un evento di gruppo.

Dalla solitudine all’autopromozione social

C’era una buona dose di incoscienza latente, tipica di inizio millennio, che giustificava visioni e comportamenti parasociali ma non c’era, o così mi è sembrato, il vezzo di trasformarsi nei protagonisti della storia. Una mia compagna di classe, patita di Avril Lavigne, disse che per lei – anzi, per la sua felicità a voler essere precisi – sarebbe persino scomparsa dalla faccia della terra, si sarebbe dissolta nel nulla, tagliata i polsi  (ciao Emanuela, spero tutto bene). Nell’essere fan c’era un principio di devozione patetica – Leave Britney alone, per capirci –, devozione autodistruttiva e autoannullante, e qui mi tocca per forza citare il più famoso fanatico del nuovo millennio, Stan, così la faccio breve.

Non posso dire che questi aspetti non siano presenti adesso, nell’essere fan oggi, e quindi ecco qui un esempio tra un miliardo di esempi possibili. Però c’è qualche elemento aggiuntivo ed è – sorpresa sorpresa – legato al ruolo che hanno i social. Non entrerò quindi in questa sede nel potenziale politico di questi fandom che si identificano come parte di un’enorme comunità di visioni e di valori condivisi. Ne hanno scritto in tutte le salse, di questi seguaci ontologicamente progressisti e democratici, inclusivi e body positive, buoni buonissimi per fabbricazione, moralmente superiori. Non lo farò io. L’aspetto su cui più ho riflettuto passando ore a scrollare reel registrati ai concerti e fuori dagli stadi ha a che fare con il tema della performance. La disintermediazione ha dato più di un motivo per credere a chi ritiene di avere un filo diretto con il proprio divo di avere ragione, di avercelo realmente questo filo diretto, alimentando derive e atteggiamenti che sfociano spesso in atti al limite del persecutorio. Gli artisti sono relatable, la cifra stilistica odierna, sono come noi (amo noi): mangiano, vanno in bagno, escono sfatti per fare la spesa, si lasciano e soffrono. Ma non solo. È sorto un palcoscenico potenzialmente infinito in cui mettersi in mostra (so che non ci aveva mai pensato nessuno a questa cosa del palcoscenico, scusate).

Sono fandom che si identificano come ontologicamente progressisti, democratici, ma che sono, in fin dei conti, soprattutto performativi

Sprovvisto di imbarazzo e pronto a tutto, il fearless fan, o chi per lui, non è solo destinatario, non si limita a consumare i prodotti che gli si propinano. Sveste i panni del pubblico pagante – se fosse un articolo di dieci anni fa pubblicato su un giornale satirico con simpatie di destra avrei scritto (stra)pagante, con un acidissimo riferimento ai prezzi dei biglietti – e inizia a produrre, creare e diffondere contenuti, e non solo in funzione dell’artista che ammira, per propagare la sua aura, spingere un disco o promuovere un tour, ma per sé stesso, per dimostrare e per testimoniare al mondo di esserci e di valere qualcosa. Nascono da una costola dell’artista, un’emanazione del suo universo creativo, ma poi prendono vita a sé, come piccoli mostri incontrollabili che puntano a posizionarsi come agenti diretti, potenzialmente capaci di affiancare, se non addirittura sostituire, il proprio idolo online: metti che va bene questo video, metti che divento virale, chi lo sa, metti che questo duetto o questo stitch arrivano in tendenza.

Fan o influencer?

Essere fan può essere oggi un trampolino di lancio verso una celebrità, magari una piccola celebrità, ma a portata di mano. Con questo quindi non voglio dire che venderebbero la zia del proprio idolo per una cena di pesce ad Anzio ottenuta grazie a un #suppliedby, ma magari ci penserebbero su dieci secondi. Avvinti dalla speranza di notorietà che tutti noi perseguiamo sui social, che sia essere riconosciuti per strada nella città di merda dove abitiamo o farsi un nome all’interno della bolla professionale e/o culturale dentro cui galleggiamo a malapena, loro ci provano nell’unico modo che conoscono, esasperando la propria affiliazione. Non è un tentativo di sovvertire i ruoli, ma la speranza di trovare ognuno i propri spazi, di tentare la propria sorte autopromuovendosi, perché sui social c’è posto per tutti, almeno per qualche settimana a testa. Sono fandom, come scritto, che si identificano come ontologicamente progressisti, democratici, ma che sono, in fin dei conti, soprattutto performativi, come lo è ormai una certa forma di attivismo social che abbiamo imparato a conoscere. Che le due cose siano legate, poi, mi sembra evidente.

Vogliamo tutti aggiungere un pezzo alla storia, attivarci, autopromuoverci, tutti alla ricerca di una ridicola originalità che andrà di moda per una settimana

In conclusione, che cosa volevo dire? Volevo dire che è innegabile che ci fossero anche prima, i sosia e gli ossessionati e i fan che si consideravano più fan degli altri, ma non mi pare avessero velleità di imporsi nella scena. Si prendevano poco sul serio e soprattutto poco sul serio li prendevano gli altri. Ti capitava di averceli come compagni di classe o di incontrarne uno al baretto, vestito come Jim Morrison o Liam Gallagher, che si beveva la sua pinta in solitaria, eroico e ridicolo, e si accontentava di fare due chiacchiere sul migliore concerto dal vivo a cui avesse mai assistito. 

Non so se proverei a prendere poco sul serio qualcuno dei fan di Swift o dei BTS. Non so se prenderei poco sul serio lui (non ha a che fare con la musica, però). Volevo forse dire anche che, se le fosse capitato oggi, la ragazzina di Napoli avrebbe monetizzato la sua viralità e quindi, povera lei, è arrivata troppo presto: sicuramente. E poi volevo dire che mi pare che beliebers e directioners e compagnia cantante alla fine della fiera non avessero altro da dare al mondo che la loro devozione ossequiosa nei confronti di un idolo, la sola appartenenza atomizzata alla sua aura messianica, mentre adesso vogliamo tutti aggiungere un pezzo alla storia, attivarci, autopromuoverci, tutti alla ricerca di una ridicola originalità che andrà di moda per una settimana. Sono passati dieci anni da quel video e mi pare che io non sia riuscito a stare dietro a niente di quello che è successo. Nel frattempo, pure Bieber è ormai un poeta tormentato, Harry Styles non è più il ragazzino sbarbato e gira tra Porta Portese e la Coop di Orbetello come un tossico qualunque, Chris Brown sarà in carcere, forse no ma dovrebbe, anzi no, non lo so. Tutti i loro fan, adolescenti dieci o quindici anni fa, chissà che fanno. Qualcuno di loro potrebbe essere il vostro superiore: sbav.

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