Ricordate il famoso primissimo piano di Anna Karina che piange in sala in Vivre sa vie di Godard? È diventato una delle scene più iconiche della Nouvelle Vague.
«Ci sono alcuni attori la cui abilità deriva in egual misura tanto dal loro talento quanto dalla loro fisionomia. In passato ci sono stati Humphrey Bogart e Anna Karina. Oggi […] Greta Gerwig, con la sua figura snella e l’espressione ipnotizzante, appartiene a una categoria tutta sua» scrive LuÍs Azevedo, un video-essayist di Mubi.
Per i pochi che ancora non la conoscessero, Mubi è stata più volte definita “il Netflix dei film d’autore” o, più ironicamente, dall’Independent, «Netflix for people who want to stop just watching trash all the time». E in effetti la cineteca online, che vanta dieci milioni di utenti, sparsi in più di 195 paesi, è molto di più di una semplice piattaforma streaming. L’abbonamento non offre solo la possibilità di guardare i prodotti in cartellone, ma anche di commentarli (parliamo di brevi recensioni critiche oltre al semplice voto), di creare delle proprie liste tematiche e di seguire quelle degli altri utenti. L’idea alla base è quella di creare una alternativa allo “streaming generalista”: gli utenti di Mubi costituiscono una vera e propria comunità di cinefili, che possono confrontarsi tra loro, scoprire nuovi generi, leggere la critica. E proprio nella sezione “Notebook” della piattaforma sono disponibili innumerevoli video-saggi, l’ultima frontiera della critica cinematografica: parlano di cinema utilizzando i suoi stessi canoni stilistici, sono spesso molto brevi e mettono in luce una certa idea dell’autore su temi che possono essere trasversali a più film, o ancora mettono in risalto la recitazione idiosincratica di un attore con una carrellata delle sue interpretazioni salienti.
LuÍs Azevedo ha deciso di dedicare a Greta Gerwig un essay dal titolo Greta Moves: in un breve montaggio di scene di danza tratte dalla sua filmografia, l’attrice, sulle note di West End Blues di Louis Armstrong e di The Here And After di Jun Miyake, si trasforma in una Pina Baush di Wim Wenders.
I movimenti e l’espressione di Gerwig sono magnetici: potrebbe davvero essere la nuova Anna Karina. Ma non solo. Ha una lunga carriera di attrice e sceneggiatrice alle spalle. Conquista tutti, nel 2012, nel ruolo di Frances Ha, una ballerina ventisettenne di Brooklyn alla ricerca della propria strada, diretta dal compagno Noah Baumbach. Da dietro la cinepresa, con Lady Bird nel 2018, si guadagna due candidature agli Oscar per la miglior sceneggiatura e per la miglior regia. Il suo ultimo film, la rivisitazione del classico Piccole Donne (2019), è stato un enorme successo di pubblico e di critica.
Delineare un parallelo Godard-Karina e Baumbach-Gerwig sarebbe fin troppo facile. Greta non è semplicemente la musa e la compagna di Noah: scrive con lui ma anche da sola, è la protagonista attorno alla cui espressività il film si costruisce, ma anche la penna che guida quelle stesse esigenze espressive che nella pellicola si esplicano poi nel suo sguardo, nella sua posa, nei suoi movimenti e nelle sue danze. È molto più, insomma, di un volto iconico: in lei le anime di attrice, sceneggiatrice e regista convivono e si bilanciano perfettamente.
Potremmo alzare ancora di più la posta in gioco: è la rappresentante di elezione di un nuovo cinema autoriale al femminile che si è ritagliato uno spazio di tutto rispetto soprattutto all’interno del genere indie, le cui protagoniste sono una nuova generazione di talentuose autrici come Céline Sciamma, Lulu Wang, Desiree Hackavan, Eliza Hittman, Miranda July.
Gerwig va quindi oltre Karina, ma è pur vero che Frances Ha, a partire dalla scelta stilistica del bianco e nero, passando per i primissimi piani in pieno stile anni Sessanta, fino ai monologhi esistenzialisti è tutto un grande omaggio alla Nouvelle Vague.
Nella Nouvelle Vague, l’espressività di certi volti femminili giocava un ruolo cruciale, potremmo in qualche modo pensarlo come un genere “al femminile”. I registi più menzionati, però, sono sempre tutti uomini. Curioso come si ignori la presenza femminile anche dietro la macchina: la pioniera del genere è stata Agnès Varda, che non a caso Gerwig ‒ e non è la sola ‒ considera la sua maestra.
Greta Gerwig è la rappresentante di elezione di un nuovo cinema autoriale al femminile che si è ritagliato uno spazio di tutto rispetto soprattutto all’interno del genere indie.
La regista statunitense Lauren Wolkstein afferma su IndieWire: «Varda ha aperto la strada a tutte noi per raccontare storie di donne complicate e complesse come le loro controparti maschili. Le sue protagoniste femminili erano ribelli e non conformi». Miranda July la definisce la filmmaker della sua vita, Greta Gerwig dice che Agnès Varda è tanto brava quanto Godard, o Truffaut, o suo marito Jaques Demy: una precisazione che suonerebbe inutile, se non fosse che, nonostante l’Oscar onorario un anno prima della sua scomparsa nel 2018, agli inizi della sua carriera, il suo talento non le venne affatto riconosciuto. Il motivo è facile da intuire, e lo raccontava la stessa regista: «mi sono battuta perché le donne avessero ruoli tecnici e creativi come operatrici, scenografe. Per cui mi sono fatta la fama di femminista emmerdeuse».
I film di Agnès Varda affrontano i temi della maternità, dell’ecologismo, del femminismo; raccontano le relazioni umane da una prospettiva sempre sfaccettata e mai banale. È stata una delle prime, ed è anche grazie a lei se oggi possiamo godere di un certo sguardo femminile dietro alla cinepresa. Potremmo rintracciare nei suoi film quei prodromi “politici” dell’espressione di un cinema che prova a farsi spazio nell’ambito di una cultura che ha perlopiù prediletto prospettive e rappresentazioni maschili per il maschile, anche laddove i soggetti erano femminili (è ovvio che le donne nel cinema esistono dacché lo stesso cinema esiste, ma molto più raramente si trovavano dall’altro lato del set).
Per questo nascono iniziative come Girls on Tops. Si tratta di un progetto nato nel 2017 che vuole celebrare le voci femminili del cinema, rendendo delle vere e proprie rockstar le più grandi registe e attrici (contemporanee e non). L’idea viene ai fondatori Louisa Maycock e Jake Cunningham quando, con degli amici, guardano il film 20th Century Women di Mike Mills. Il film è ambientato nel 1979 e il protagonista, il giovane Jamie, indossa una maglietta dei Talking Heads. La sua coinquilina e, per una serie di curiose circostanze, anche improbabile “sorella maggiore” Abbie (sempre la nostra Gerwig) ha i capelli corti e rossi come David Bowie in The man who fell to the earth, indossa fuseaux verdi o viola, e una maglietta bianca strappata con stampato il nome di Lou Reed.
L’estetica delle t-shirt di Girls on Tops è esattamente questa: minimal, bianche, con in nero i nomi non di gruppi o cantanti, ma di registe, attrici, costumiste etc.
La maglietta col nome di Greta Gerwig è indubbiamente il loro pezzo forte: la indossa Timothée Chalamet nelle storie di Instagram e Tracy Letts alla premiere di Lady Bird al Toronto Film Festival del 2017.
In un’intervista a Marie Claire Uk, Louisa Maycock ha spiegato che il diffondersi di questi indumenti può creare un dialogo tra fan, permettere alla gente di scoprire queste artiste e dare un contributo alla valorizzazione del lavoro svolto dalle donne nell’industria cinematografica.
La questione di genere nell’industria cinematografica è un elefante nella stanza piuttosto imbarazzante. Anche le statistiche più banali ci mostrano quanto sia più difficile, ancora oggi, affermarsi nel mondo del cinema se si è donne.
Uno studio accademico redatto Center for the Study of Women in Television and Film della San Diego State University ha evidenziato come, tra i 100 film con il maggiore incasso usciti nel 2019, solo il 12% fossero diretti da donne. Un aumento comunque significativo rispetto al dato dell’anno precedente, nel quale erano solo il 4%.
Le proteste sono state tante, da quella “silenziosa” di Nathalie Portman alla cerimonia degli Oscar 2020, alla proposta di Alma Har’el di separare la categoria “miglior regista” così come già si fa per quelle di miglior attrice e miglior attore.
Anche in Europa e in Italia la situazione non è delle più rosee: i dati di Women in film, riassunti su fonte database Filmitalia – Istituto Luce Cinecittà, rivelano che nel decennio 2008-2018 tra i film italiani realizzati solo il 15% sono stati di registe, e tra questi, quelli selezionati ai festival solo il 16%. Al Festival del cinema di Venezia del 2019, il Mibact ha fatto sapere che i compensi, a parità di budget produttivi, sono per le donne inferiori dell’11%, e che i registi affermati che richiedono i fondi del ministero sono per la grande maggioranza uomini.
A Cannes, nel 2018, è nato Le Collectif 50/50 en 2020, con l’obiettivo di una composizione paritaria in tutti gli organismi del settore entro il 2020. L’ultima edizione del festival, causa Covid-19, non si è tenuta. Purtroppo dovremo aspettare il 2021.
Forse l’augurio migliore che possiamo farci è che in un futuro prossimo non ci sia bisogno della distinzione di genere, ma che si possa parlare semplicemente di brave e bravi registi. La questione di genere quindi non deve offuscare il valore dell’autorialità. L’autorialità, semplicemente, man mano che i tempi si fanno maturi, si può sempre più arricchire della prospettiva di genere, per creare nuovi canoni stilistici e nuovi personaggi.
Tra i cento film con il maggiore incasso usciti nel 2019 negli Stati Uniti, solo il 12% sono diretti da donne.
Rivoluzionaria, anche se da un punto di vista meno politico e più prettamente estetico, è stata anche l’opera di un’altra regista che ha fatto scuola: Sofia Coppola. Agli inizi degli anni 2000, Sofia si portava dietro l’ingombrante cognome del padre, ma ci parlava da donna cresciuta negli anni ’80-‘90, che ha ascoltato tutto il pop-rock indie che amiamo. Ha sbancato agli Oscar con un film con pochissimi dialoghi e moltissime luci, immagini e suggestioni, Lost in Translation (2003), nel quale perdipiù ha ritagliato addosso a Bill Murray quel ruolo da uomo silenzioso, dolce e amabile, che da quel momento in poi non avrebbe smesso di accompagnarlo per tutta la sua carriera. Ma l’operazione più sbalorditiva di Coppola è Marie Antoniette (2006), un film in costume dai colori pastello alla Wes Anderson, nel quale racconta un personaggio tra i più discussi e controversi della storia, rendendola una diva contemporanea. La Maria Antonietta-Kirsten Dunst di Coppola è un personaggio che non si era mai visto prima: è fancy, è pop-up, ascolta i Siouxsie & The Banshees, gli Strokes, i New Order, mangia pasticcini sulle note di I Want Candy dei Bow Wow Wow. È attualizzata ma a suo agio nel contesto storico, e finiamo con la stessa ambivalenza per adorarla e odiarla insieme.
Coppola è considerata una delle esponenti di spicco del cinema americano indipendente contemporaneo, un genere del quale dare una definizione netta è ovviamente difficile ma del quale, con una buona dose di approssimazione, potremmo individuare comunque un metro stilistico comune. I tòpoi dei film indipendenti vanno da un realismo lontano dalla retorica mainstream, talvolta persino molto crudo, accompagnato spesso da una recitazione mumblecore, all’inserimento della narrazione in una cornice patinata: fotografia pastellata, colonna sonora del genere musicale indie.
Mettendo da parte gli snobismi di chi lo ritiene capziosamente un genere per hipster finto-raffinati, arrivati a questo punto, possiamo chiederci perché oggi sempre più registe riescono ad esprimersi nei canoni di un cinema che si presta più di altri a raccontare non solo storie di formazione ma anche temi attualissimi come la scoperta della propria sessualità, l’aborto, l’abuso sessuale, la disforia di genere.
I tòpoi dei film indipendenti vanno da un realismo lontano dalla retorica mainstream, talvolta persino molto crudo, accompagnato spesso da una recitazione mumblecore, all’inserimento della narrazione in una cornice patinata: fotografia pastellata, colonna sonora del genere musicale indie
Se pensiamo a questi ultimi anni, non si può di certo ignorare la portata storica del movimento #metoo, che ha segnato nettamente un prima e un dopo nel mondo del cinema (il collettivo 50/50, non a caso, è nato subito dopo lo scandalo Weinstein). Ed è indubbio come una produzione indipendente possa comunque lasciare alle autrici un maggior margine di azione.
Quello che colpisce di queste pellicole è la potenza dei personaggi (e di riflesso delle loro ideatrici), la loro capacità di diventare un vero e proprio oggetto di culto. Insomma, se volessimo individuare un filone politico ed uno estetico, probabilmente ci accorgeremmo di come entrambi di fatto finiscano per convergere all’interno di un’unica narrazione.
Parlando della sua Lady Bird-Saorsie Roan, Gerwig dice: è una che si prende tutto, che vuole le cose, senza che siano gli studi di genere a insegnarglielo. Anche quando Céline Sciamma gira Tomboy (2011) non ci mette in maniera didascalica al corrente di cosa siano i queer studies, eppure riesce a raccontare con delicatezza, attraverso lo sguardo di un preadolescente, quanto possa essere comune e naturale a quell’età avere dubbi sulla propria sessualità o sulla propria identità di genere. Allo stesso modo, il tema è affrontato anche da Desiree Hackavan nel suo La Diseducazione di Cameron Post (2018). Hackavan gioca un po’ di più di suggestioni e retorica, ma riesce comunque a mantenere quell’equilibrio perfetto tra impatto sullo spettatore e delicatezza del racconto, a tenersi sempre prossima ai suoi protagonisti adolescenti e a farsi spazio con la cinepresa nel loro cono visivo.
L’edizione 2020 del Sundance Film Festival è stata caratterizzata da una fortissima presenza femminile, tanto da venire definita «l’edizione delle e sulle donne». Never Rarely Sometimes Always, il film vincitore del Dramatic Special Jury Award – categoria Neo-Realism – della raffinata Eliza Hittman, racconta il viaggio di una ragazza diciassettenne dalla provincia della Pennsylvania a New York per abortire. La critica ha osservato come il lavoro, pur essendo apertamente politico, riesca nel suo intento di essere realistico senza scadere nel melodrammatico o cedere a una facile propaganda (per quanto legittima).
Nessuno “spiegone”, insomma: impegno sociale e leggerezza sembrano sempre trovare in queste autrici il loro equilibrio da simbionti, prendere la forma della bottiglia di Klein, nella quale non c’è distinzione tra interno ed esterno, forma e contenuto.
«I’ve had lots of troubles, so I write jolly tales» la frase di Louisa May Alcott che Gerwig fa comparire in apertura del suo Piccole Donne. Da un lato c’è l’esigenza fortissima di portare sullo schermo storie complesse, nuove (anche laddove sono classici rivisitati), protagoniste prismatiche, che vivono nella contemporaneità e ne affrontano le contraddizioni anche e soprattutto nella loro condizione di donna. Dall’altro un canone stilistico vivace, del quale il pubblico che si identifica con la narrazione si compiace. La realtà è sullo schermo, il suo racconto è leggero (ma mai frivolo); noi, dal canto nostro, abbiamo le nostre nuove rockstar da ammirare, tanto nella finzione cinematografica quanto nella realtà.