16.10.2024

La grande bellezza del cafonal

Le foto di Umberto Pizzi, la visione di Roberto D’Agostino, l’estetica di Paolo Sorrentino e Francesco Vezzoli. E l’ultima parola di Corrado Guzzanti. Perché fin dagli anni ‘80 siamo attratti e scandalizzati dall’ostentazione del godimento? Il cafonal ci rivela l’infanzia di una cultura che teme più gli occhi della Madonna di quelli di Google.

Cos’è il cafonal?
Nel libro Political Fellini: Journey to the End of Italy Andrea Minuz scrive che è un termine di difficile traduzione: “Nell’immaginario italiano indica la sfarzosità insensata e priva di gusto di una moltitudine di manifestazioni della vita pubblica, politica e culturale, soprattutto a Roma.” L’enciclopedia Treccani evita una connotazione geografica e lo definisce sinteticamente: “Che esibisce con spontanea ostentazione manifestazioni di pacchianeria e cattivo gusto.”

Roma

Sembra che il termine sia una crasi tra il lemma “cafone” e la rivista Capital, punto di riferimento dell’immaginario yuppie degli anni Ottanta, che parlava di finanza, auto di lusso, trend e vacanze per i manager del periodo. Sicuramente è il titolo della rubrica fotografica di Dagospia, la rivista fondata più di venti anni fa da da Roberto D’Agostino, in cui il guazzabuglio capitolino  – di politici, imprenditrici, gossippari, monsignori e ballerine – viene immortalato durante gli eventi mondani. 

Nonostante Roberto D’Agostino affermi che il cafonal sia ormai nazionalizzato, crediamo che Roma non sia un’indicazione geografica neutra.  Tra le altre cose, ecco come Roberto D’agostino descrive la capitale quando gli chiedono la differenza con Milano: 

“Roma ti abbraccia, ti accoglie, ti fagocita. Guardi Bossi e i suoi della Lega: arrivarono da noi al grido di ‘Roma ladrona’, ma poco dopo, dopo qualche cena al Bolognese e una serata al Jackie O’, erano già tranquilli con qualche ragazzetta a gambe all’aria. È da qualche millennio che aspettiamo i barbari.”

Perché, in fondo, siamo già noi, i barbari? O forse perché i barbari capiscono di aver invaso un territorio in cui – al di là della vulgata (e di Virgilio) – non c’è nulla di veramente eterno, nulla di epico, nulla di solido, e chiunque provi a proporre un’etica artigiana “sabauda”, un’efficienza “meneghina” o qualsiasi altro valore più o meno spirituale viene immediatamente messo al suo posto con una battutina disincantata? Cafonal è un’estetica che ha Roma come epicentro antropologico. Una città che ha visto sorgere e crollare imperatori, papi e dittatori, e che si trascina avanti con il disincanto ironico degli anziani. La battuta spia di una malcelato senso di superiorità storico-culturale che i romani rivolgono a qualsiasi altro non-romano: “E comunque… quando voi scendevate dagli alberi, noi eravamo già froci!”

Uno dei primi a dare una dignità all’estetica Cafonal è stato il fotografo Umberto Pizzi (tra le altre cose, è con lui che D’agostino pubblica con Mondadori due libri sul tema) che ritrae il corteo grottesco di personaggi che affolla le serate romane. È un mondo narrato nel 2013 anche da Sorrentino ne La grande Bellezza, il film premio Oscar del regista napoletano, che sembra divertirsi come un turista nel ritratto dei suoi protagonisti, in bilico artistico tra iperbole e stereotipo

Francesco Vezzoli e il caso Montesi

Una ricognizione importante è stata sicuramente Party Politics, la serie di gigantografie a colori del 2019 con cui l’artista Francesco Vezzoli ha messo in luce un periodo storico – gli anni Ottanta – in cui la politica è diventata definitivamente spettacolo. Moana Pozzi accanto a Giuliano Ferrara, Sandra Milo, Gianni De Michelis, Vittorio Sgarbi, Raffaella Carrà, Giulio Andreotti e Valeria Marini, sono immagini tratte dall’archivio dei rotocalchi dell’epoca.

Probabilmente è come osservare un film di David Wark Griffith e non capirne più la grandezza tecnica perché ormai siamo assuefatti al montaggio alternato.

Circondate da cornici dorate, sono immagini dal chiaroscuro accentuato dalle quali emergono dettagli di bocche che mangiano e di occhi stralunati. Però, ecco, se le osserviamo bene: non fanno paura per niente. Nonostante il tentativo dell’artista di accentuarne il lato grottesco sono ritratti ormai entrati a far parte placidamente nel nostro panorama visivo. Probabilmente è come osservare un film di David Wark Griffith e non capirne più la grandezza tecnica perché ormai siamo assuefatti al montaggio alternato.

Per noi è naturale questa maniera di raccontare il mondo. Potremmo inanellare centinaia di servizi su feste peculiari, diverse scenette berlusconiane, diversi lamenti di comici sull’impossibilità di fare satira di una realtà già troppo parodistica. Per essere brevi, riguardo al nostro grado di assuefazione, citeremo solo questo post di Enrico Mentana: “Delicata e feroce, sarcastica e autoironica,” scrive il direttore del Tg LA7 riferendosi a Francesca Pascale che, a proposito del caso Boccia-Sangiuliano,  posta la foto del suo ex compagno Silvio Berlusconi con la scritta in sovrimpressione Dilettanti…

Ma se è vero che non sono così spaventose, allo stesso tempo non mi accoderei al panegirico dei tempi passati, sulla grandezza di politici che hanno spolpato l’Italia – che non si capisce perché debbano essere migliori degli attuali (forse è semplicemente cambiata la centralità politica del Paese nel contesto internazionale, ma mi rendo conto che qui il discorso è lunghissimo e minato) – o su personaggi dello spettacolo che hanno contribuito al depauperamento delle nostre facoltà cognitive e che fortunatamente non avevano ancora a disposizione i social media. 

Tra l’altro anche in tempi ancora più passati gli eventi mondani contenevano già la grammatica sociale che poi avrebbe fatto la fortuna dei paparazzi capitolini. Il caso Montesi è del 1953; anche in questo caso emergono feste ad alto tasso di stupefacenti, parlamentari, aspiranti attrici, faccendieri, soubrette. “È una storia vestita di nero, è una storia da basso impero. È una storia mica male insabbiata, è una storia sbagliata.” avrebbe cantato Fabrizio De Andrè a proposito della povera Wilma Montesi, una ragazza, figlia di artigiani, che muore molto probabilmente durante un party del guazzabuglio romano. Negli anni Cinquanta fu uno scandalo politico che fece tremare la Democrazia Cristiana. Sembra che fu proprio il circo mediatico attorno al caso Montesi una delle fonti de La dolce vita di Federico Fellini: l’ultima scena del film – la creatura marina ritrovata sulla riva – potrebbe alludere alla ragazza romana. E il celebre personaggio Paparazzo sarebbe stato ispirato proprio ai fotoreporter che rincorrevano i protagonisti della vicenda.

L’infanzia della cultura

In queste fotografie degli anni ‘80 c’è già tutto.

Il transito da una politica collettiva e austera a una più privata e clickbaiting. Da un sistema mediatico in bianco e nero al glitterato sistema Mediaset. Dalla riservatezza umile alla fiera ostentazione del parvenu. Fino al presagio dell’autorappresentazione social.  Quello che forse manca è la forza nascosta che è in grado di generare il cafonal. 

Provando a formare un elenco sommario delle sostanze antropologiche che mescolandosi danno luogo all’humus su cui germoglia la pianta cafonal:

  • La boriosità romana, l’arroganza di chi pensa di saperla lunga e non perde occasione per mostrarlo, per spiegarti come va il mondo. A te che al tempo – ricordatelo – sei stato una colonia.
  • Il compiacimento di essere osservati ai margini del potere e il sottile timore che l’occhio di bue cambi bersaglio. 
  • La fine dei grands récits, come teorizzò Lyotard, le grandi narrazioni politiche che immaginavano un progresso e un’emancipazione dell’essere umano.
  • Gli anni Ottanta e il cosiddetto riflusso, di cui sopra, che lascia la scena politica a personaggi narcisisti il cui fine è puramente edonista e di acquisizione di potere personale.
  • Lo sdoganamento di questo immaginario nei canali di diffusione nazionalpopolare.
  • Il naturale bisogno di modelli umani da imitare o da denigrare dopo il crollo delle chiese politiche (anche se qui bisognerebbe scrivere un trattato sul berlusconismo antropologico e… sul fallimento dell’anti berlusconismo moralista – ma, in qualche maniera ci penserà Corrado Guzzanti, come leggeremo più giù).

La forza nascosta, dicevamo, è il più piccolo stato del mondo, quella monarchia assoluta elettiva denominata Città del Vaticano. Se levassimo questo grande concime morale non credo che esisterebbe il Cafonal.

Come una ribellione adolescente che non ha il coraggio di mettere in discussione veramente le regole

Al di là del nostro giudizio sul cattolicesimo, al di là della fede genuina, credo che in Italia ci sia questa colpevolizzazione primordiale nei confronti del godimento. Una struttura emotiva profonda su cui si sono fondati i due grandi partiti fino agli anni ‘80: la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista. Compiamo gesti naturali dell’essere umano (che la saggezza degli antichi regolava per quantità, e non giudicava per qualità) –  scopare, ubriacarsi, denudarsi, ridere forte, essere una specie di carnevale – ma, in coscienza, li percepiamo come intrinsecamente sbagliati. Quindi li evitiamo o, soprattutto, li compiamo di nascosto. Come una ribellione adolescente che non ha il coraggio di mettere in discussione veramente le regole.Viviamo un godimento naturale come una trasgressione, lo ostentiamo come un’identità repressa e allo stesso tempo accettiamo una luce quasi genitoriale pronta a sanzionare i confini dello scandalo e del peccato. 

Il discorso sarebbe fin troppo banale se non avesse ripercussioni fin nelle più alte sfere della politica e se non fosse qualcosa che ottiene un’audience spropositata. E sì, Dagospia propone anche retroscena economico-finanziari, ma D’agostino non è Pecorelli, e non credo siano questi pezzi a trainare l’attenzione. Magari mi sbaglio, ma non credo che una rivista del genere possa avere i numeri e una posizione così rilevante in un contesto più laico quale la Germania o la Svezia. A chi scrive appare l’infanzia di una cultura che ha più paura di essere spiata dalla Madonna che da Google.

Un raffinato intellettuale come Marco Belpoliti nel libro Senza vergogna sembra riassumere in maniera impeccabile la filosofia Cafonal:   

“L’intento delle foto di Cafonal appare quello di svilire i personaggi raffigurati, di abbassarli, trasformarli, anche quando non lo sono – il che è raro –, in mostri. Si tratta di un modo per esporre la mancanza di vergogna quale efficace antidoto alla vergogna stessa. L’essere svergognati dei personaggi ritratti da Pizzi non funziona come una sorta di critica verso i loro atteggiamenti, alla loro palese immoralità; e neppure, al contrario, come un modo per avvalorare la loro stessa spudoratezza, la loro assenza di vergogna. Cafonal crea una sorta di terra di nessuno, insieme visiva e morale, quella della vergogna senza vergogna, in cui lo sguardo decisamente carico di sadismo del fotografo fa sì che gli scatti ottenuti siano la manifestazione del degrado generale della società italiana – un degrado che non finisce di finire –, e allo stesso tempo non contengano alcuna traccia di repulsa, di rifiuto.”

Vero! Mi verrebbe subito da esclamare. 
Eppure, dopo un po’ che leggo e rileggo questo passaggio, mi viene da sottolineare questi termini: “svergognati”, “immoralità” e “degrado”. Ho il sospetto di trovarmi di fronte alla lettura aristocratica, alla superiorità morale, all’intransigenza intellettuale che ha nutrito la cultura politica dell’antiberlusconismo e ha fatto la fortuna politica di Berlusconi.
E la vergogna è un sentimento prezioso per tutelare l’unione di una comunità oppure è una disciplina comportamentale per sanzionare azioni che non rientrano in una normalità stabilita da non si sa chi?

Ma trasformare in uno scandalo un botulino eccessivo, un travestimento ridicolo, una fetta di prosciutto all’aria o una narice dilatata, significa contribuire ad allargare l’orizzonte dell’impotenza.

Sebbene non mi piacerebbe avere troppo a che fare con i protagonisti di queste foto, credo che i mostri siano altri – ammesso che si possa definire in questa maniera qualcuno. È probabile che alcuni protagonisti del cafonal siano complici di una cultura politica regressiva. Ma trasformare in uno scandalo un botulino eccessivo, un travestimento ridicolo, una fetta di prosciutto all’aria o una narice dilatata, significa contribuire ad allargare l’orizzonte dell’impotenza. Non è questo il motivo per cui in questo Paese mancano gli asili nido, gli stipendi sono infimi e non ci sono biblioteche aperte di sera. 
In ogni modo, mentre facevo ricerche su Roberto D’agostino e scoprivo che era cresciuto nel quartiere dell’estrema sinistra romana, San Lorenzo (rimanendone del tutto immune), che aveva fatto l’impiegato in banca, poi il Dj in televisione (dove conobbe il “genio sottovalutato” di Gianni Boncompagni), il giornalista per L’espresso, l’opinionista televisivo, mi sono imbattuto in un video che ho visto da bambino e che ha fatto la storia della televisione italiana.

È il 1991, il programma L’istruttoria va in onda su Italia 1 condotto da Giuliano Ferrara. Dopo un breve alterco, Vittorio Sgarbi prende un bicchiere e getta acqua in faccia a un irriconoscibile Roberto D’agostino. Per tutta risposta, questi gli molla uno schiaffo in faccia. Nonostante tutti i presenti indossino completi in giacca e cravatta dai colori piuttosto austeri possiamo classificare filosoficamente il video come una scena di puro cafonal. Quello che mi ha colpito e a cui non avevo mai fatto caso finora, è un giovanissimo Corrado Guzzanti che se la ridacchia seduto su una poltrona più in alto di tutti (si trovava lì perché all’epoca faceva l’imitazione di Vittorio sgarbi).
Ho pensato che in qualche maniera fosse stato proprio lui a raccontare la grande bellezza del cafonal. È il 2002 quando va in onda la trasmissione Il caso Scafroglia.  E questa sorta di monologo
“Perché questo è un paese in cui nessuno ti prende sul serio, qualsiasi cosa fai sei un buffone. È così! Il nostro presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, si ammazza di lavoro, ha un piano preciso e lo persegue punto per punto… ma siamo sempre lì a criticarlo per una gaffe. Sta facendo a pezzi la democrazia, e noi stiamo lì a vedere che c’ha la verdurina tra i denti…. È un paese così, che non ti valorizza. Poi non ci lamentiamo se la gente va all’estero!” 

Questo articolo è frutto della collaborazione tra Siamomine e Average Italian Kid, che ha curato l’editing e la selezione fotografica. Average Italian Kid è un archivio che celebra l’italianità, selezionando e reinterpretando reperti di cultura pop e opere d’arte italiane.

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