11.12.2024

Romadiffusa: è possibile farla diventare città odierna?

Un progetto in cui la creatività ridisegna gli spazi urbani, la sperimentazione allarga le maglie della tradizione e oltrepassa i confini del vecchio turismo. E l’arte diventa strumento di comunità e rinascita. Intervista alle ideatrici Sara D’Agati e Maddalena Salerno.

Quando si parla di Roma, il rischio è sempre quello di rimanere intrappolati in una cartolina polverosa, un museo a cielo aperto dove la storia sembra pietrificare il presente. Ma c’è chi prova a scardinare questa narrazione: Romadiffusa è un movimento culturale e generazionale che restituisce contemporaneità a una città spesso raccontata solo per i suoi monumenti millenari. Un approccio che sovverte i codici del turismo tradizionale e rilancia l’identità urbana attraverso esperienze culturali che vanno ben oltre il classico tour dei monumenti: un monologo al ristorante, un concerto di pianoforte in strada, una mostra di quadri al biscottificio o al carrozziere, musica afro in un forno. Racconta una città viva, stratificata, punk, capace di sorprendere e riconnettersi con se stessa. Abbiamo incontrato le sue giovani founders e ci siamo fatti raccontare bene il progetto.

Romadiffusa sembra voler ridefinire il concetto di City Branding per Roma, spostandolo dal classico “marketing turistico” verso un racconto autentico e contemporaneo della città. Quali sono gli elementi chiave che volete mettere in risalto in questa nuova narrazione?

Il claim del progetto è “ROMA CITTÀ ETERNA ODIERNA” e nasce, appunto, con lo scopo di modificare la percezione di Roma come “museo a cielo aperto” ancorata soltanto a un passato grandioso, che fa fatica a rinnovarsi e a fare rete. Il nostro format vuole rispondere quindi a tre ordini di problemi: L’incapacità della città, fino ad oggi, di raccontarsi in chiave virtuosa e di produrre, come accaduto nelle altre città europee, un festival di richiamo nazionale e internazionale. La tutela degli spazi e delle realtà autentiche (biblioteche, alimentari, botteghe artigiani, piccole gallerie) minacciati dalla massificazione e dall’overtourism. Infine, il tema della difficoltà di Roma come città nel fare sistema: il settore pubblico dialoga poco e male con il privato, e quindi non esiste un coinvolgimento sistematico e virtuoso dei privati nella riqualifica del territorio.

La curatela cambia in base al quartiere di riferimento. Nei mesi precedenti al festival, mappiamo l’area di interesse bussando letteralmente ad ogni porta.

Allo stesso modo, esistono una miriade di gruppi ed associazioni che portano avanti progetti affini, o complementari, senza essere al corrente l’uno dell’esistenza dell’altro — artigiani ed esercenti condividono strade e quartieri senza interagire tra loro, i romani non conoscono intere aree della città. L’obiettivo di ROMADIFFUSA è offrire questo contenitore.

Il claim “Roma città eterna odierna” sembra un punto di equilibrio tra tradizione e innovazione. Come bilanciate questi due aspetti nella scelta degli eventi e delle location?

La curatela cambia in base al quartiere di riferimento. Nei mesi precedenti al festival, mappiamo l’area di interesse bussando letteralmente ad ogni porta, parlando con artigiani, ristoratori, esercenti, galleristi, individuando quei luoghi che mantengono un’anima autentica, che mettono cura in quel che fanno e non si sono appiattiti su logiche puramente commerciali. Per quel che riguarda i contenuti, invece, facciamo ricerca di artisti, musicisti, collettivi e realtà creativi sperimentali in Italia e in Europa, che possano dialogare con l’area e le location individuate, costruendo contenuti site-specific o portando il loro progetti nel quartiere di riferimento. Per i 4 giorni del festival, creiamo una sorta di tetris tra location e contenuti. Nel caso del Centro storico abbiamo giocato molto sul contrasto tra location storiche/barocche, e contenuti sperimentali. Abbiamo portato il live sperimentale di Jules Reidy alla Biblioteca Vallicelliana, che per la prima volta apre a un contenuto musicale, la performance di Antonina Nowacka nel cortile dell’archivio di stato Sant’Ivo alla Sapienza, il concerto di GOYA! in un antica litografia, il concerto dei Mnnqns a Palazzo Altemps. Abbiamo aperto uno spazio in disuso da anni di Palazzo Nardini e ci abbiamo portato la performance di Clara Cebrìan che, con il suo collettivo spagnolo, ha messo in scena un Amazon temporaneo dove ciascuno poteva ordinare un oggetto realizzato sul momento.

Nel caso di Parioli Punk, invece, l’obiettivo era portare scompiglio in quartiere percepito come alto-borghese e conformista. Per farlo, abbiamo portato ai Parioli contenuti che, altrimenti non vi avrebbero mai messo piede e, di conseguenza, un target diverso da quello che normalmente si muove nell’area. Da un collettivo queer afroamericano a Villa Balestra, la mostra di una fotografa anarco-femminista dentro la stazione Euclide. All’Hoxton è accaduto di tutto, dalla video installazione “Il Mio Filippino” di Lyric, alla performance pro-Palestina di Timoperformativo, a una band punk che si è lanciata sul pubblico a Pan Dan che aveva la testa di bambolotto a metà come reggiseno.

In che modo Romadiffusa contribuisce a creare una comunità più coesa? Avete notato un impatto diretto nella partecipazione o nel coinvolgimento delle persone nei quartieri in cui operate?

Assolutamente si. In fase di pianificazione del festival, organizziamo tavoli tra le varie categorie: esercenti, artigiani, ristoratori. Spesso realtà e persone condividono lo stesso quartiere senza interagire. L’organizzazione del festival è stata un occasione per alcuni di loro di collaborare. Per l’edizione di trastevere, ad esempio, sono stati gli esercenti stessi, in vista dell’incremento di partecipazione e, quindi, di guadagno, a organizzare una colletta dal basso per permetterci di rifare un edizione a Natale.

Portare i romani fuori dal proprio quartiere, modificare I flussi turistici per attrarre un turismo di qualità.

Allo stesso modo, formiamo gli artigiani nell’organizzare workshop e dimostrazioni per il nostro pubblico, che poi loro continuano a portare avanti tutto l’anno, oppure apriamo al pubblico location, tra cortili privati e palazzi storici, che altrimenti non avrebbero avuto modo di scoprire. In termini di partecipazione, il progetto ha un duplice scopo, quello di portare i romani fuori dal proprio quartiere, modificare I flussi turistici per attrarre un turismo di qualità, che non si limiti a fermarsi tre giorni, visitare il Colosseo e il San Pietro, mangiare il gelato e poi spostarsi a Venezia e Firenze.

Il team di Roma Diffusa è composto principalmente da giovani. Che ruolo giocano le nuove generazioni nel trasformare la percezione di Roma e nel costruire il suo futuro?

Un ruolo centrale. Noi founders siamo due giovani donne, il resto del team, in larga parte femminile, va dai 21 ai 30 anni. Uno dei problemi di Roma, o meglio, dell’Italia intera, è che i giovani sono tagliati fuori dai centri di potere, perciò il palinsesto e il racconto delle città è governato da altri. Fino a che non saremo noi a costruire l’agenda, politica, media, culturale, resteremo vittime o fruitori passivi. In una città in cui ci è stato detto che nulla è possibile, che niente può cambiare, un team di giovanissimi sta realizzando un progetto di richiamo internazionale con delle importanti ricadute sul branding della città e sulla sua percezione. Se porti 70.000 persone in strada per tre giorni, le istituzioni e i media sono costretti ad ascoltarti. Per troppo tempo noi giovani ci siamo lamentati di non avere spazio, ma lo spazio si conquista lottando, in pochi saranno disposti a cederlo spontaneamente. Quello che ci preme, è ribaltare la retorica cui la nostra generazione è stata abituata per giustificare la televisione spazzatura, la musica spazzatura e l’imbruttimento delle città. Ci siamo sentiti raccontare che questo è quello che vuole la gente, e perciò gli si dà ciò che è profittevole. Al contrario, noi vogliamo dimostrare che se alle persone si offre il bello, il poetico, la qualità, saranno pronte ad accoglierlo e così si può generare un circolo virtuoso.

Molti editoriali di testate illustri – dal New York Times al Telegraph fino a Le Monde – hanno dedicato articoli di fuoco sul degrado e la mala gestione cittadina. La cultura può aver un ruolo “risanatore” in tutto questo?

La cultura ha un ruolo centrale nel decostruire la percezione attuale. Non solo, ha un ruolo centrale nel riqualificare le città attraverso strumenti diversi da quelli utilizzati fino adesso. Basti pensare che siamo l’unica potenza occidentale a non avere un canale (ad eccezione di RAI international, con i suoi limiti evidenti) che parli al resto del mondo in lingua inglese. Tutto ciò che arriva all’estero, quindi è mediato da altri, noi non disintermediamo il racconto di noi stessi, e questo è un problema.

Il progetto Romadiffusa è esattamente questo: un progetto di City Branding, di riqualifica della città attraverso strumenti culturali.

Parlando nello specifico di Roma, volendo fare un paragone con Milano, che con il modello delle week ha costruito una sua narrazione contemporanea che, piaccia o meno e con tutte le sue criticità, attira un pubblico nazionale e internazionale interessato alle manifestazioni contemporanee della città, e quindi ad investire sul territorio. Roma, invece, non è ancora riuscita a costruire un palinsesto contemporaneo di richiamo internazionale e il progetto Romadiffusa è esattamente questo: un progetto di City Branding, di riqualifica della città attraverso strumenti culturali. Nei giorni del festival, in sostanza, il territorio stesso diventa un media che noi usiamo per modificare la narrazione della città. Portiamo romani e turisti a vedere loro stessi tutto ciò che esiste sul territorio.

In che modo Romadiffusa può essere un modello replicabile per altre città che vogliono valorizzare il proprio tessuto urbano e culturale, mantenendo però una forte identità locale?

Il format è stato pensato da noi per essere scalabile sul territorio nazionale. Roma è stata semplicemente il primo laboratorio (e anche tra i più difficili) che ci ha permesso di intercettare dei bisogni, delle città. Il format però è pensato per adattarsi a ciascuna città e alle sue specificità. Abbiamo già due nuove città in cantiere (spoiler!). La sfida è partire dalle criticità e dai bisogni di ciascuna città (alcune simili se pensiamo alle città d’arte – e quindi over-tourism, airbnbizzazione e il tema della sparizione delle realtà autentiche) o ad alcune città del sud se pensiamo all’incapacità di valorizzarsi, mettere a sistema e di attrarre investimenti.

Foto di Glauco Canalis, Maria Gaia Marotta, Artúr Ekler, Finn Lafcadio O’Hanlon, Ilenia Luzzara e Niccolo Berretta.

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