22.10.2024

Intervista a Daniele Manusia: giornalismo sportivo, scrittura, Ultimo Uomo

Sui motivi per cui bisognerebbe avere uno sguardo letterario, evitare la pigrizia, tentare prospettive inedite e schivare dinamiche di potere, se vogliamo raccontare lo sport. E, soprattutto, arricchire la nostra vita. Questo e altro con lo scrittore e fondatore del sito di approfondimento sportivo Ultimo Uomo.

L’appuntamento è “Dar Ciriola”, un locale famoso per i suoi panini con dentro qualsiasi cosa. L’aria mantiene l’afa dell’estate anche se è stata pulita da una notte di pioggia, la prima dopo due mesi di sole rabbioso. Il locale è sulla zona di confine tra Malatesta e il Pigneto, tra un quartiere che mantiene ancora la sua anima popolare e una zona decisamente gentrificata, anche se questa definizione potrebbe risultare un po’ pigra. Per l’appunto, “pigro” è uno degli aggettivi ricorrenti di Daniele per descrivere un certo tipo di sguardo. 

La nostra conversazione durerà circa un’ora e sarà interrotta da almeno quattro Ciao Danie’! un vincete lo scudetto quest’anno, eh? – due Come stai? Lo sai che…

Daniele è alto, i capelli lunghi raccolti in una coda – di un brizzolato che tradisce gli anta -, gli occhi azzurri e un viso che definirei decisamente bello se non temessi di incorrere in una perversa forma di body shaming al contrario. In ogni modo, in quella lontana epoca di inizio settembre la CEO della As Roma è Lina Souloukou, l’allenatore è Daniele De Rossi, il cielo è ancora blu e intero, ricordate?

SM: Mi sapresti raccontare un aneddoto legato alla fondazione di Ultimo Uomo che sia anche rappresentativo della volontà culturale dietro il progetto?

DM: Ecco, mi ricordo che quando abbiamo iniziato con l’Ultimo Uomo un amico mi disse una cosa a cui ancora ogni tanto penso: “È inutile! Perché volete parlare di una cosa di cui ognuno pensa di sapere già tutto.” Ed effettivamente alcune figure professionali o para-professionali che girano intorno al mondo del giornalismo sportivo sono quelle che provano a dirti cose che tu non puoi sapere. Non ti offrono un ragionamento personale ma ti dicono: “Io so perché io conosco, io sto in certi giri…” E le persone a volte si fidano perché questa figura conosce l’ambiente. E ci sono tutta una serie di modi per costruirsi questo genere di reputazione. A noi non è mai interessato e non l’abbiamo mai fatto. Crediamo che il nostro lavoro sia altro.

SM: Per esempio…

DM: Per esempio i punti di vista sono tutti diversi. Se leggo un articolo di Brian Phillips su Messi non è che mi racconta una storia che io non conosco, o che non sta già nel libro di Guillem Balagué su Messi, ma quel modo di scrivere di Brian Phillips, il suo punto di vista, apre una porta su quel personaggio: è quello che fa la letteratura. E poi c’è il piacere di leggere riflessioni su una cosa che ci sta a cuore, che può essere uno sport che amo o qualcosa che non conosco. Per questo alla fine ci fidiamo di chi scrive e sentiamo un legame più intimo, più sfaccettato. E secondo me quello che le persone vogliono è arricchire la propria vita. Non saperne di più. Tutto questo dà maggiore valore a qualcosa che già conosci. Questo è quello che noi vogliamo fare.

Ecco, forse un approccio che un po’ manca in Italia, a livello culturale intendo, è fare le cose insieme.

SM: Quali erano i vostri riferimenti all’inizio?

DM: C’erano tante cose che ci piacevano, parliamo più o meno di dieci anni fa. Per esempio Lacrime di Borghetti, un sito molto bello con un approccio ironico-nostalgico, facevano delle rubriche molto divertenti. Era molto di nicchia e voleva restarlo. C’era Futbologia che aveva un tono letterario, quasi filosofico. E anche Crampi Sportivi, che a un certo punto ha diretto Emanuele Atturo e poi Marco D’Ottavi. In lingua inglese c’era Grantland, fondato da Bill Simmons, che era un ottimo riferimento perché all’inizio con Timothy Small noi facevamo anche articoli di cultura generale. Poi senza dubbio c’era Zonal Marking, il blog di Michael Cox, che faceva delle analisi. Ma anche in Italia c’era Emiliano Battazzi e Fabio Barcellona che le facevano su altri siti, per tifosi di una determinata squadra. Insomma c’erano cose sparpagliate che abbiamo provato a riunire, tutta una serie di persone che ci piacevano e che hanno creato Ultimo Uomo, nel tempo, facendolo cambiare. Ecco, forse un approccio che un po’ manca in Italia, a livello culturale intendo, è fare le cose insieme.

SM: Qual è un elemento che definisce il vostro tipo di scrittura?

DM: Guarda, anche quando lavoriamo con un autore nuovo è importante che nei suoi articoli dia un contributo anche a livello di personalità. Che non è proprio un attributo che si tende a valorizzare nel giornalismo. Una volta ho scritto un pezzo su una squadra di calcio romana per un quotidiano nazionale, e ricordo che mi dissero: qui l’uso dell’io lo concediamo solo a grandi penne. Per noi invece, a parte l’utilizzo dell’io durante la scrittura, che può esserci o meno, è importante il punto di vista personale – che invece è sempre presente anche in una situazione di estrema neutralità del racconto, anche semplicemente elencando fatti e informazioni in un certo ordine. Poi ci sono gli aspetti della personalità che ognuno ha e che non vanno nascosti, erosi come se il giornalista fosse un’entità astratta. Banalmente, se io sono un tifoso della Roma perché non lo dovrei dichiarare?

SM: Anche se, per esempio, nel vostro podcast La Riserva, a volte parlate quasi con senso di colpa della Roma per paura che vi accusino di preferirla, diciamo così, il tutto è molto divertente però…

DM: Sì, ma in realtà a me, a noi, viene molto difficile andare fuori fuoco per questo motivo, perché a forza di studiare, leggere, guardare, conoscerle queste squadre, questi giocatori, un po’ l’aspetto del tifo sfuma, anche quando sono solo e guardo la partita per me è impossibile tifare contro o addirittura insultare l’avversario. Per esempio la Lazio ha comprato Boulaye Dia, io ci ho fatto un pezzo, è un giocatore che mi piace anche come persona. Posso volergli male se segna contro la Roma? Rosicherò cinque minuti–

SM: Mhhhhh…

DM: Vabbe’ un quarto d’ora, ma non di più, sennò c’hai altri problemi! È bello dedicare la propria vita a una squadra di calcio, ma dev’essere un di più, non qualcosa che ti impedisce di vedere. E di apprezzare un altro essere umano che gioca in una squadra di calcio che non ti sta simpatica.

SM: Non pensi che il frame attraverso il quale guardiamo il calcio sia un po’ povero, fatto di gossip, di persone che sanno cose – come hai detto prima-, di sedicenti esperti?

DM Sì, in parte. Ma non direi mai che non dovrebbe esistere. Per me il problema è la pigrizia, non il gossip in sé, che va anche bene, l’importante è dare anche altro: analisi, riflessioni sulla maniera in cui un giocatore difende, statistiche, comprendere chi è–

SM: Come si è evoluto il vostro modello di business?

DM: Abbiamo fondato Ultimo Uomo con Timothy Small nel luglio del 2013. I primi soldini li abbiamo fatti con i branded content. Abbiamo attirato l’attenzione di Alkemy che ha acquistato e finanziato per diversi anni la rivista credendo molto nell’idea che si potesse sostenere l’editoria digitale con il branded content (oggi sappiamo che non funziona esattamente così), poi hanno venduto Ultimo Uomo a Sky. Per farla breve, però, né noi né Sky avevamo un’idea su come la rivista potesse evolvere insieme. Anche se loro ci hanno permesso di crescere – hanno avuto coraggio, per dire – alla fine ci siamo separati e siamo diventati indipendenti. Quindi abbiamo provato a fare un test con gli abbonamenti: vediamo se i lettori ci premiano… e per ora va bene. Cresciamo sempre di più da dieci anni a questa parte, sia in termini di visite, di utenti unici, sia di crescita economica.

SM: Adesso siete sostenibili?

DM: Già qualche anno fa pensavamo alla possibilità degli abbonamenti ma prima avresti dovuto investire in un paywall, una cosa che all’epoca era molto costosa. Oggi esistono piattaforme che lo rendono più praticabile, abbiamo STeady per Ultimo Uomo, Patreon per la Riserva, e va bene. Ma non immaginarti stipendi come quelli di una volta… noi paghiamo tutti ma stiamo attenti a non spendere troppo e, ovviamente, lo scopo non è arricchirci. Ce la facciamo anche perché ogni redattore, ogni collaboratore, crede che sia importante contribuire a un discorso sportivo diverso, che non ci si può limitare a contenuti di pura aggregazione o di pura provocazione. Tra le altre cose, credo che in Italia si paghi ancora la distinzione tra il cartaceo e il digitale e quest’ultimo viene ritenuto un investimento intangibile. Ma ovviamente è una considerazione senza senso, ci sono moltissimi numeri per parametrare quante persone leggono un articolo digitale. Mentre si vive del mito delle copie dei giornali che magari non vengono lette o vengono comprate dalle aziende…

SM: Per finire, quali libri stai leggendo in questo momento?

DM: Guarda, io sono un grande fan di Roberto Bolaño, adesso sto rileggendo la raccolta di racconti Puttane Assassine. Poi una serie di libri di cui lui ha parlato nelle interviste, tra cui alcuni di Rodolfo Wilcock e Borges. Un libro sportivo molto bello, con cui l’autore tra l’altro vinse il Pulitzer: Giorni selvaggi di William Finnegan. Inoltre un libro per crescere mia figlia senza “ucciderla”, di pedagogia, I no per amare di Jesper Juul. E poi che altro? Ecco, un libricino bello di una piccola casa editrice Timeo, si chiama Storie dell’arte contemporanea, racconti scritti da un curatore sul mondo dell’arte, molto interessante.

Le illustrazioni di questo articolo sono firmate dall’artista Arunas Kacinskas, che sarà il prossimo ospite della nostra nuova rubrica “Art Crush”.

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