Questo articolo è estratto da Dylarama, la newsletter settimanale a cura di Siamomine su tecnologia, scienza, comunicazione, lavoro creativo e culturale.
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Nelle ultime settimane, a seguito di una serie di approfondimenti e di letture sullo stato della creator economy, abbiamo realizzato due cose: la prima è che l’ipotesi del Web3 (o almeno la diffusione dei metaversi) potrebbe non essere così lontana, la seconda è che – se e quando sarà – i cosiddetti creator costituiranno la principale forza-lavoro che contribuirà a tirare sù questi mondi virtuali, dando vita a edifici, prodotti, skin e – ovviamente – ai nostri alter ego digitali.
Mettendo per un attimo (solo per un attimo, giuriamo) da parte il dibattito sull’impatto che un passaggio dall’Internet come lo conosciamo oggi a un’iterazione fondata su blockchain e tokenizzazione potrebbe avere sulle nostre vite, cioè mettendo da parte la critica al Web3 per se, in questo numero di Dylarama vogliamo dare spazio alle voci che vedono nel suo sviluppo la possibilità di rifondare Internet (e i suoi metaversi) su meccanismi di decentralizzazione in grado di restituire autonomia e controllo dello spazio digitale agli utenti.
Partiamo da un articolo intitolato The Web3 Renaissance: A Golden Age for Content scritto a quattro mani dalle esperte Li Jin e Katie Parrott per il bundle collaborativo di newsletter Every.
«If the pre-internet/web1 era favored publishers, and the web2 era favored the platforms, the next generation of innovations—collectively known as web3—is all about tilting the scales of power and ownership back toward creators and users.»
Secondo Jin e Parrott, infatti, il Web2 – quello in cui ci troviamo attualmente – ha storicamente tratto profitto dal lavoro dei creator, ovvero di ogni utente in grado di produrre contenuti creativi autonomamente generando interazioni e community, sfruttandolo però a favore dello sviluppo di una platform economy, dove sono appunto le piattaforme a nutrirsi di user-generated content, regolandone la visilibilità attraverso istruzioni algoritmiche e la monetizzazione attraverso il sistema di advertising.
La tokenizzazione porterebbe con sé la promessa di uno stravolgimento di questa dinamica: se è l’utente, infatti, ad avere la proprietà intellettuale dei suoi prodotti – siano questi contenuti, opere di digital art o brani musicali – e le condizioni di riproduzione di quest’ultimi, alle piattaforme resterebbe ben poco. Ovviamente, non è così semplice.
Secondo le esperte, infatti, affinché il Web3 possa dimostrarsi veramente a favore di una creator economy indipendente, alcune condizioni dovranno essere incorporate nel suo sviluppo e nella sua cultura sin dal principio.
Una condizione ha anche fare con l’ownership economy, cioè con le possibilità che il sistema di tokenizzazione offre di “possedere pezzi di Internet” anche se non si è una tech company. Lo spiega Jesse Walden, il Co-founder del fondo di crypto investimenti Variant in un articolo pubblicato sulla piattaforma:
«What I believe will pull this future forward is the fact that the business model enabled by NFTs is better for every stakeholder involved: creators, their audiences, and developers can all make more money in a marketplace built around true digital ownership.»
In poche parole, se oggi la creator economy permette agli utenti di guadagnare producendo contenuti grazie al contributo economico di fan e patrocinatori che pagano per ricevere un servizio in cambio (contenuti esclusivi, messaggi personali, gadget etc), secondo Walden l’evoluzione della ownership economy trasformerebbe i fan in speculatori e investitori, convertendo il semplice patrocinio nella possibilità di possedere un contenuto che nel tempo potrebbe acquisire valore e quindi beneficiare l’utente stesso oltre che il creator.
Secondo i suoi proponenti, l’ownership economy non riguarda solo la trasformazione del rapporto tra fan e creator, ma la possibilità di competere con grandi aziende e investitori per il possesso di prodotti e spazi digitali.
Un altro punto fondamentale evidenziato da Jin e Parrott, infatti, è quello che mette al centro la cosiddetta “community ownership”, la possibilità di possedere collettivamente asset digitali unici grazie a un intervento di investimento collettivo. Al centro di questo fenomeno ci sono le DAO (Decentralized Autonomous Organizations), cooperative digitali di utenti che si riuniscono per perseguire un obiettivo condiviso, utilizzando una blockchain per prendere decisioni in modo trasparente ed efficiente.
Le regole di ogni DAO, infatti, sono iscritte nella blockchain e rendono automatizzata l’organizzazione e la distribuzione delle risorse, mentre la community prende decisioni attraverso un sistema di governance condiviso. Oggi molte DAO coinvolgono artist e collectors nella costruzione di safe-places per la creazione di contenuti, ma anche per l’acquisto e la tutela di crypto art.
Un esempio è MUSE0, un esperimento di museo digitale interamente posseduto dagli utenti con l’intento di sfidare la cultura delle istituzioni museali IRL e promuovere le opere di un parterre di artist* molto ampio, sia dal punto di vista della rappresentazione che dei messaggi e degli strumenti utilizzati.
Un altro sistema decentralizzato è Mirror, una DAO che permette agli utenti di avviare campagne di crowdfunding per realizzare idee e tokenizzare le proprie creazioni (inclusi contenuti testuali come articoli e indagini) associandole a un artwork digitale per permettere agli utenti di collezionarne una versione e offrire il proprio contributo economico.
Infine, Friends With Benefits è uno dei primi esperimenti di crypto community associata a un social token che permette a tutti i membri di investire nella crescita della community, assicurando a tutti lo stesso status. Pensate se questo diventasse il modello dei futuri social network, dove invece di macro-contenitori come Facebook e TikTok a cui accedere gratuitamente pagando un “prezzo invisibile” ci saranno micro-community tokenizzate accessibili solo attraverso social token.
C’è anche la questione dell’Universal Creative Income: ne parla qui sempre Li Jin, ipotizzando il suo utilizzo come strumento per rendere i creator più indipendenti e migliorarne le condizioni economiche e psicologiche.
Accedere a un fondo economico destinato alla produzione creativa, infatti, permetterebbe agli utenti di sviluppare idee e linguaggi senza pressioni economiche e, quindi, senza dover accettare commissioni solo per profitto e senza l’ansia di dover partecipare in maniera competitiva alle creazione di contenuto sulle piattaforme. In poche parole, senza burnout.
La stessa Jin, però, sottolinea la pericolosità di un fondo gestito interamente da corporate come piattaforme o aziende fondatrici di un metaverso, perché metterebbe in discussione il carattere democratico di questa distribuzione, proponendo un modello a cui potrebbero aderire solo aziende molto grandi, con interessi di ritorno di investimento ben precisi.
Il punto allora è proprio questo: le promesse del Web3 – così come teorizzate oggi – sono davvero credibili? Esiste un futuro desiderabile dove saremo tutti creator e collectors, guadagnando dalla produzione di contenuti e, al tempo stesso, investendo criptomonete per accedere a prodotti, spazi digitali e social communities?
La prospettiva descritta da Jin e Walden è luminosa e promettente, ma (ora che è scaduto quell’attimo di cui parlavamo sopra) la loro visione oggi potrebbe assomigliare più all’ennesimo pitch tecno-entusiasta sulle possibilità “democratizzanti” delle nuove tecnologie, che a una proiezione coerente delle conseguenze di una ownership economy digitale in cui qualsiasi interazione è governata da dinamiche di investimento economico, incluse quelle comunitarie e sociali.
Sono i dubbi che si pone un articolo pubblicato su Real Life Magazine che mette in connessione la bolla del mercato immobiliare americano esplosa nel 2008 con le proposte dei sostenitori della ownership economy per evidenziare l’illusione che il ritorno a una logica proprietaria – camuffata da opportunità virtuali – possa davvero avvantaggiare la cooperazione comunitaria invece di creare una società in cui la cultura finanziaria sostituirà progressivamente il pensiero politico e l’iniziativa sociale.
«At the heart of cryptoeconomics is the promise to resolve the tension between two distinct models of ownership — on the one hand, as the privilege of the self-interested individual, and on the other, as a model for the communal governance of shared goods. In practice, an ambiguous mishmash of cryptoeconomic and “off-chain” governance strategies can result in these two ownership models being conflated, creating systems which promise to create communal wealth while delivering hierarchies as cruel and exploitative as anything you’ll find on Web 2.0 or in general.»
I discorsi di Jin e Walden intercettano un bisogno fondamentale, oltre che attualissimo, che è quello di rimettere l’utente al centro dei processi decisionali su cui si fonda il web, ma dobbiamo valutare accuratamente quali sono le proposte che ci avvicineranno a un simile futuro e quali, invece, rischiano di essere l’ennesimo cavallo di Troia verso un nuovo stadio di sorveglianza e iperlavoro.