I libri di vetta di ieri e oggi
Dopo una lunga salita, di forze solitamente non ne rimangono molte, soprattutto per i poco allenati: una volta avvistata una croce o qualsiasi altro simbolo che ci confermi che la vetta, sì, è proprio lì, l’obiettivo principale è raggiungerla, trovare un sasso dalla forma comoda e riprendere fiato guardando il panorama.
Eppure in questa routine d’alta quota, in tanti saltano un passaggio, ignorando una scatola in metallo o plastica un po’ vissuta, piuttosto che un piccolo nascondiglio tra i sassi posti a formare un ometto, al cui interno si trova un libro con diverse pagine riempite o da riempire.
Si chiamano libri di vetta e funzionano con lo stesso principio di quelli che almeno una volta abbiamo firmato a un evento speciale o in un luogo in cui abbiamo soggiornato. Ci si siede sullo stesso sasso dalla forma comoda adocchiato all’inizio, si tira fuori una penna sperando che il freddo non abbia provocato un suo ammutinamento e si trova uno spazio bianco in cui cominciare a scrivere.
Non c’è una formula prestabilita: c’è chi si tiene sul formale e si limita a giorno, mese, anno e una firma, c’è chi magari ha camminato da solo e si confida come se fosse un diario personale, c’è chi pensa a qualcuno/a che non è lì e lascia solo una dedica, c’è chi di parole in quel momento non riesce a trovarne e ne prende in prestito da altri o invece prova a esprimersi con disegni, c’è chi infine preferisce sfogliarne le pagine e leggere i messaggi lasciati dagli altri.
Chi sia stato di preciso a inventare questa tradizione non è dato saperlo, ma si sa invece che già dall’800 chi arrivava in vetta era solito lasciare, in contenitori di vetro o latta, biglietti da visita o pezzetti di carta con i propri nomi.
Alla fine dello stesso secolo, data la maggiore frequenza di questi messaggi, furono introdotti i libri più simili a quelli che conosciamo oggi, dal formato 15,5×11 cm e con rilegatura rigida che sopportasse sbalzi termici e umidità, nonché successivamente anche le prime cassette metalliche per poterne permettere una migliore conservazione. Numerose associazioni di montagna, tra cui il CAI – Club Alpino Italiano, si sono da sempre occupate nel recupero di quelli completi, per sostituirne con nuovi.
I libri di vetta raccontano di un rapporto diverso con una montagna che era ancora tutta da scoprire, conquistare e nella quale trovare quel gesto eroico che si andava cercando.
Dalle cime trentine, la SAT – la Società Alpinisti Tridentini – è riuscita a recuperarne ben 700 esemplari, che conserva presso la Biblioteca della Montagna – Archivio storico SAT. Tra questi, il più antico risale al 1878 ed è stato ritrovato presso le Pale di San Martino, ma come sottolineano sul loro sito, se si guarda alle montagne del mondo, ci sono ritrovamenti ancora più lontani nel tempo: uno dei primi libri di vetta di cui si ha notizia si trovava sull’Aneto (3404 metri), una vetta dei Pirenei, ed è datato 1857.
I primi libri di vetta non sono diversi solo esteriormente rispetto a quelli dei giorni nostri, che gran parte delle volte sono semplici quaderni. Agli albori dell’alpinismo, lasciare una traccia del proprio passaggio significava determinare chi era stato il primo a raggiungere una vetta, portando su di sé una grande visibilità utile a innalzare il proprio status o a trovare nuovi clienti, come nel caso delle guide alpine.
Ci raccontano di un rapporto diverso con una montagna che era ancora tutta da scoprire, conquistare e nella quale trovare quel gesto eroico che si andava cercando. Ci permettono di ricostruire una cronologia di quelle conquiste e di ricordarle nei vari anniversari: un’installazione temporanea e sostenibile di Ulla Hell a Sesto, in Alto Adige, nel 2019 celebrava i 150 anni dal 1869, anno in cui Paul Grohmann, Franz Innerkofler e Peter Salcher effettuarono le prime ascensioni alla Punta Tre Scarperi e alla Cima Grande, riportando su cubi metallici fissati ad assi di cembro le iscrizioni provenienti dai libri di vetta di quelle esperienze.
Oggi ci raccontano una realtà diversa, quella in cui ciò che poteva essere raggiunto, lo è stato da molto tempo e l’attenzione si è spostata sul come, quella in cui il nostro passaggio in un luogo vale solo se immortalato e condiviso sui propri profili social e non se trasformato in qualche parola su carta, quella in cui la montagna è diventata lo sfondo di un gioco in cui vince solo chi arriva in cima, quella in cui ci siamo trasformati in Pollicino contemporanei che lasciano dietro di sé tracce che non portano in nessun luogo se non in uno difficile da chiamare “naturale”, quella in cui i libri di vetta non sono altro che libri per gli ospiti.
E forse, proprio in base al nostro reale ruolo in questi ambienti e al cambiamento di significato che quelle pagine da riempire hanno vissuto nel tempo, potremmo anche cominciare a chiederci se hanno ancora una loro utilità, se non siano invece, assieme alle croci che continuano ad essere erette su cime già raggiunte, soltanto l’ennesimo segno del nostro desiderio di antropizzare le terre alte a fini turistici.