10.10.2025

Come rimanere in vita: Marina Abramović

L'icona della performance art debutta con Balkan Erotic Epic. La sua storia - dalla madre comunista spaventata dal sesso fino al suo corpo-oggetto su cui infierire - rivela come “rimanere in vita”. I suoi spettacoli sono arte?

Rimanere in vita non è sopravvivere.
Questo potrebbe essere il claim di Marina Abramović se l’artista fosse un brand. L’esempio concreto più limpido e sanguinoso avvenne proprio in Italia: nello Studio Morra a Napoli, nel 1974, l’artista offrì il suo corpo a chiunque partecipasse alla performance Rhythm 0: “Ci sono 72 oggetti sul tavolo che possono essere usati su di me nel modo in cui desiderate. Io sono l’oggetto.”

Questa era la prima parte delle istruzioni. Sullo stesso foglio Marina Abramović dichiarò che si sarebbe assunta la responsabilità degli eventi. Tra gli oggetti a disposizione delle persone ci furono: miele, lamette da rasoio, sciarpa, spilla da balia, osso di agnello, spazzola, uva, vernice rossa, forbici, libro, martello, cappello, alcol, benda, rosmarino, pistola. 

Lei rimase immobile per sei ore. Inizialmente sobrio, il pubblico dopo un po’ di tempo arrivò a tagliarla con le lamette e a succhiare il suo sangue, a pungerla, a infilare un coltello vicino al suo sesso dopo averle divaricato le gambe, a puntarle una pistola carica contro la gola (si sviluppò una piccola rissa tra due gruppi in seguito a questo gesto).
“A ripensarci, penso che il motivo per cui non venni violentata fu che erano presenti le mogli.”

Persone normali – qualsiasi cosa voglia dire – possono compiere azioni crudeli se hanno l’approvazione di un’autorità in cui credono

Quando ho visto Rhythm 0 mi sono venuti in mente due famosi esperimenti di psicologia sociale:
1 – Nel 1971 il professor Philip Zimbardo coinvolse 24 studenti di Stanford, equilibrati e senza precedenti penali. Dovevano simulare la dinamica di una prigione, alcuni fecero i poliziotti, altri i detenuti. Doveva durare due settimane ma fu interrotto dopo sei giorni: protetti dal ruolo e dall’assenza di un controllo, gli studenti-poliziotto adottarono comportamenti sempre più sadici.
2 – Nel 1961 il professor Stanley Milgram organizzò un esperimento in cui alcuni studenti dovevano somministrare scosse elettriche ad altri studenti sotto la supervisione di un’autorità. I primi non sapevano che le scosse fossero finte e che i “pazienti” simulassero urla di dolore. Sotto suggerimento dell’autorità in camice bianco, i due terzi degli studenti “somministratori” proseguirono con le scosse fino alla dose quasi letale di 450 volt. Persone normali – qualsiasi cosa voglia dire – possono compiere azioni crudeli se hanno l’approvazione di un’autorità in cui credono.

Marina Abramović ha superato il confine dell’esperimento: il suo corpo fu veramente a disposizione di persone “normali” a cui era stata tolta la responsabilità delle azioni.
È incredibile, è inquietante, è rivelatorio.
Ma è arte?

Confesso che non ho la capacità di comprendere a fondo l’arte contemporanea, e le sue declinazioni sul corpo. Che se Marina Abramović si chiamasse Marcella Livori, per esempio, non ne capirei la caratura. Sarei come un lettore con poca autonomia di giudizio che afferma che un libro è complesso solamente perché pubblicato da Adelphi o che una macchina è performante perché prodotta da Mercedes. Spererei che nessuno mi venisse a chiedere il motivo del mio giudizio e mi lasciasse nella comodità della vulgata comune. 

Per esempio, confesso di non aver ben capito la grandezza artistica di un progetto iniziato nel 1983 e realizzato solo nel 1988 a causa dei sospetti e dei ritardi accuratamente kafkiani della burocrazia cinese. Marina Abramović e il suo compagno Ulay (nome d’arte di Frank Uwe Laysiepen) avrebbero dovuto sposarsi dopo aver percorso tutta la Grande Muraglia, partendo dalle opposte estremità.

Ulay non voleva cedere alla commercializzazione della propria arte, Marina Abramović si era stufata di incarnare lo stereotipo dell’artista povera, e così via

Camminarono per circa novanta giorni percorrendo una media di venti chilometri. In tutto, circa duemila chilometri a testa. Eppure quando si incontrarono a metà, al centro di un ponte di pietra a Shenmu, nella provincia dello Shaanxi, Ulay disse che avrebbe proseguito il cammino “per sempre”. Quindi non ci fu nessuna festa nuziale. Solo reciproche accuse e cause legali: Ulay non voleva cedere alla commercializzazione della propria arte, Marina Abramović si era stufata di incarnare lo stereotipo dell’artista povera, e così via. Insomma i cinque anni di preparazione all’evento li avevano cambiati.

Marina Abramović è serba, nata nel 1946 da due genitori che combatterono con i partigiani comunisti di Tito e in seguito ricoprirono incarichi di governo in Jugoslavia. In questi giorni debutta il suo nuovo spettacolo Balkan Erotic Epic. In un’intervista recente al magazine Dazed ha dichiarato: “Mia madre indossava sempre il doppiopetto. Anche in mezzo alla natura indossava il suo completo. Non riusciva mai a rilassarsi.“ Inoltre Danica Rosić credeva che il sesso fosse sporco e Marina Abramović dovette obbedire a un coprifuoco alle dieci di sera… fino all’età di ventinove anni.

Il nuovo spettacolo è una sorta di chiusura del cerchio. Ritorna in un luogo, la Jugoslavia e la sua famiglia, che non ha mai compreso appieno. Il prossimo anno compirà ottanta anni ed è pronta: “Ho bisogno di tornare indietro e fare pace con tutto, con mia madre, con il mio Paese, con tutta questa merda, perché ho un rapporto di amore-odio con loro. Ci sono state così tante cose che mi hanno fatto male. La mia infanzia è stata come il più grande incubo

Gli spettatori di Balkan Erotic Epic possono passeggiare e osservare a un’orgia cimiteriale con quaranta performer nudi (ognuno con uno scheletro come partner), vivere ancestrali rituali balcanici, vedere una donna a cui viene versato del latte sui seni per quattro ore di fila. E vedere anche il personaggio della madre, inizialmente disgustata da tutto ciò, cedere piano piano alla danza e perdersi in una danza nuda e lussuriosa sopra un tavolo.

Non cederemo alla stupida tentazione di una psicanalisi selvaggia sull’opera d’arte.
Però non si può non sottolineare una retorica leggermente usurata e un ressentiment un po’ fuori luogo da parte dell’icona mondiale della performance art. “Tutto ciò che è nuovo viene sempre criticato”, ha detto a Dazed e, riferendosi alle sue prime opere degli anni ’70, ha aggiunto che sono state “completamente distrutte dalla stampa… e ora sono tutte nei musei”. Poi, ancora, attribuendo erroneamente a Gandhi questa citazione, ha continuato: “Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono, poi vinci”.

La mia generazione mi irrita con la sua costante amarezza e critica verso tutto ciò che è nuovo

Eppure, verso la fine dell’intervista, intuiamo che probabilmente ognuno di noi – anche chi non comprende a fondo le sue performance, come il sottoscritto – dovrebbe fare esperimenti con la sua vita o creare qualcosa. Per rimanere in vita.
Quando le domandano come fa a produrre delle opere che sembrano senza tempo, anche cinquanta anni dopo le sue prime performance ufficiali, e come fa ad affrontare questo periodo oscuro, risponde così: “La mia generazione ha smesso di esibirsi, ha smesso di pensare. Ormai ripete se stessa […] Onestamente? Sono una delle poche ancora in vita. È pazzesco. I miei unici amici hanno la metà dei miei anni, perché la mia generazione mi irrita con la sua costante amarezza e critica verso tutto ciò che è nuovo, progressista. La vita è un miracolo, è meravigliosa. Dobbiamo esserci e viverla”.

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