Qualche giorno fa una persona mi ha detto che bisogna saper abitare il conflitto. Si stava parlando di relazioni, di conflitti esplosi e inespressi, una di quelle conversazioni che si fanno sui social anche tra semi sconosciuti — soprattutto fra sconosciuti — quando lo spazio digitale che stiamo occupando ci sembra una stanza abbastanza fertile da contenere riflessioni di questo tipo.
Sono rimasta a lungo a pensare alla scelta delle parole, mi sono annotata questa frase e ho continuato a pensarci anche nei giorni seguenti. Più ci pensavo più mi tornava in mente Donna Haraway, che nel suo Chthulucene, Sopravvivere su un pianeta infetto, esprime un concetto simile: staying with the trouble, stare con e nel problema, che per la filosofa femminista statunitense significa — all’interno di una visione legata all’attivismo politico — individuare il problema, rimanerci dentro e sciogliere dall’interno la matassa che noi stessi abbiamo creato.
Riqualificare il conflitto, l’errore, è un’attività essenziale per il nostro benessere individuale e collettivo. Il concetto di abitare questo conflitto — esterno o interno che sia — non si discosta molto dal concetto che Legacy Russell introduce in Glitch Feminism, portando la riflessione a un nuovo livello, intrecciando anomalie sociali e digitali.
Il testo di Legacy Russell (she/they) attivista, artista curatrice artistica statunitense, da poco edito in Italia per Giulio Perrone Editore, è un manifesto politico che riprende le fila del discorso cyberfemminista — arenato e in alcuni casi messo in dubbio dalle sue stesse fondatrici, come Donna Haraway — per tornare a riflettere sull’impatto che lo spazio digitale ha sulle nostre vite e sulle sue potenzialità politiche e di rappresentanza delle minoranze.
Internet e gli spazi virtuali a nostra disposizione non sono più qualcosa di meno reale, sono ormai in tutto e per tutto un’estensione di sé, una dimensione che ritorna a definirci cyborg in quanto profondamente rappresentati non solo dalla nostra immagine riflessa nello specchio, ma anche da quella delineata dentro lo schermo.
Cécil B. Evans, artista belga-americana il cui lavoro si sofferma principalmente su come le nuove tecnologie possano influenzare il nostro universo emotivo e il nostro modo di agire, nel 2017 disse «nella società odierna, in cui si fa la guerra con i droni e le relazioni romantiche iniziano online, non si può più fare distinzione tra il virtuale e il cosiddetto reale».
Il lavoro di Russell si concentra proprio su questa consapevolezza di fondo: Internet e gli spazi virtuali a nostra disposizione non sono più qualcosa di meno reale, sono ormai in tutto e per tutto un’estensione di sé, una dimensione che ritorna a definirci cyborg in quanto ormai profondamente rappresentati non solo dalla nostra immagine riflessa nello specchio ma anche dalla nostra icon, dal nostro nickname, dalla nostra immagine delineata dentro lo schermo.
Glitch feminism è intriso dell’esperienza di vita di Legacy Russell e inizia raccontando il momento che per lei — così come per tutti— ha segnato l’inizio di una nuova fase della vita, la creazione del proprio avatar digitale.
In un mondo in cui alcune generazioni sono definite native digitali, il ragionamento che Legacy Russell fa è lineare: se alcuni avvenimenti fisici e sociali per la cultura attuale segnano l’inizio e la fine di alcune fasi della nostra vita, il nostro ingresso nello spazio virtuale è uno di quei momenti per i quali c’è un prima e un dopo.
Con l’ingresso nello spazio che Internet offre per l’attivista newyorchese si apre una nuova fase di rivendicazione di sé e di emancipazione da quello che la società binaria impone di essere, nel suo caso una donna nera, cisgender, femme, queer, che a proposito di questo spiega: “Non potevo mettere tutte queste cose in standby; il mondo intorno non mi permetteva di dimenticare quegli identificatori. Online invece potevo essere tutto quello che volevo”.
Lo spazio online per Legacy Russell si trasforma dunque in una distesa di possibilità e di espressione, dove è possibile sia celare categorie che fuori — Away From Keyboard (AFK) — ci rendono oggetti, ricoperti di una “visibilità non voluta”; sia al contrario esprimere e manifestare quello che fuori purtroppo è ancora visto come qualcosa di strano, un’anomalia del sistema patriarcale ed eteronormato nel quale si vive.
Da qui il concetto di glitch, definito come “un errore, uno sbaglio, una falla […] un aspetto dell’ansia meccanica, la spia che qualcosa è andato storto”, che in questo contesto viene rivendicato: tutto ciò che nella corporeità della società binaria è tradotto come un errore, uno sbaglio nel sistema, grazie al digitale si trasforma nel glitch e dentro ad esso l’anomalia diventa espressione di sé, una rivendicazione della nostra molteplicità e della complessità che va oltre alle regole del binarismo di genere.
Immaginare oggi lo spazio virtuale come culla dell’attivismo e della lotta potrebbe far storcere il naso a qualcuno, avendo sotto gli occhi sempre più nitidamente le dinamiche che il digitale ha innescato nel discorso dell’attivismo, nel bene e nel male che ha generato.
Nell’affermare che il digitale offre l’opportunità di espressione, di scambio e di lotta collettiva il femminismo glitch non ignora i risvolti negativi che il cyberfemminismo delle origini e gli spazi digitali collettivi — al tempo come ai giorni nostri — hanno offerto ad alcuni e tolto ad altri.
Così come oggi si riflette sulle sorti dell’attivismo digitale, in molti casi diventato individuale e performativo, Russell sottolinea come anche a partire dagli anni Novanta l’emergente panorama cyberfemminista era principalmente bianco e di conseguenza “marginalizzava le persone queer, le persone trans e le persone di colore che volevano decolonizzare lo spazio digitale creando contenuti attraverso le stesse reti e gli stessi canali”.
Facendo tali premesse, il manifesto glitch non ignora le prepotenze bianche che ieri come oggi trovano spazio nella realtà virtuale; proprio premettendo ciò ribadisce invece come questa nuova sfumatura di femminismo digitale debba fondarsi sulle fratture dello schermo, sulla libertà di espressione e molteplicità di chi nel mondo lontano dalla tastiera non ha.
La prima immagine che mi viene in mente se penso all’esplorazione della mia stessa figura risale a quando avevo credo quindici anni. Prima di allora non ho un ricordo nitido del mio viso riflesso in uno specchio o in uno schermo, perché non mi interessava vedere l’immagine che mi veniva restituita perlopiù ne ero spaventata.
Un amico a scuola mi canzonava per questo, diceva che dovevo smetterla con questa storia dell’imbarazzo e farmi una foto al viso ogni tanto; una sera, mentre aspettavo che iniziasse un film in televisione, ricordo di essermi fatta una foto, per la prima volta il viso di una ragazzina poco nitida dentro un rettangolo sgranato.
Una volta immersi in un ambiente digitale lasciamo fuori una corporeità che possiamo decidere di non portare dietro; possiamo anche giocare nell’ambiguità di questo glitch, “rivendicare il nostro diritto alla complessità”, esasperare il corpo e il genere fino al suo smascheramento.
Il femminismo glitch, attraverso la voce di Russell, ci pone di fronte a una domanda: Internet dichiara l’inizio o la fine di un nuovo corpo? Secondo il manifesto il corpo, una volta inserito nel digitale, scompare e “crea uno spazio in cui costruire altre realtà”, si sgretola per farci indossare una pelle più fluida di quella che una società binaria ci impone in ogni piccola decisione.
L’artista e drag queen Victoria Sin (they/them), per citare uno dei tanti esempi artistici che Russell — in quanto artista e curatrice — riporta, grazie al mondo che il digitale offre loro “indossa il genere come una protesi”: Sin è una persona artista non-binary che nel contesto online e poi anche AFK veste il genere femminile come un’esagerazione, mettendo in scena “la rappresentazione socioculturale della femminilità esagerata” un vero e proprio “cliché genderizzato”.
L’operazione artistica di Sin non umilia il genere ma anzi, in linea con la riflessione femminista del manifesto, a un certo punto si spoglia degli orpelli del genere, struccandosi in diretta su Instragram o spogliandosi delle protesi che indossa, svelando i retroscena del corpo.Le dinamiche che si innescano sono infinite e intrecciate tra loro: una volta immersi in un ambiente digitale da una parte lasciamo fuori una corporeità che possiamo decidere di non portare dietro; possiamo anche giocare nell’ambiguità di questo glitch, “rivendicare il nostro diritto alla complessità”, esasperare il corpo e il genere fino al suo smascheramento.
Possiamo vestire il corpo come una protesi, come fa Victoria Sin, o rappresentare un anti-corpo, come fa Lil Miquela, it girl di Los Angeles famosa in tutto il mondo che nel 2018 — solo due anni dopo la sua ascesa — si è scoperto essere un robot creato da una società statunitense con lo scopo di creare “l’unione perversa tra l’attivismo e il capitalismo consumista liberale” ma anche mostrare la potenzialità di un non corpo che nonostante ciò sa essere catalizzatore identitario e collettivo.
L’interesse alla base del femminismo glitch di Russell è quello non di dichiarare con perentorietà se il corpo con il digitale muore o rinasce, bensì di innescare una riflessione su cosa il corpo — e dunque la percezione di esso, e dell’identità di genere, della sessualità — può diventare attraverso il digitale, espandendosi all’infinito, esaltando e difendendo soprattutto ogni manifestazione che sfida il binarismo.
Piattaforme come TikTok — con una percentuale così alta di utenti nati con e dentro alla realtà digitale — è esempio pratico delle riflessioni dell’attivista, che mostra come questi siano infatti molto più a loro agio a vivere il corpo e l’identità di genere con più libertà, abituati fin da giovanissimi a usare lo strumento virtuale come espressione accentuata di sé.
Chiamare glitch quello che in altri contesti verrebbe chiamato minoranza non è un capriccio estetico. Nonostante possa sembrare una minuzia, riformulare il lessico che usiamo per descrivere chi siamo, per noi stessi e per gli altri, e le categorie nelle quali rientriamo è un tassello essenziale della lotta, che passa con sempre più evidenza dalle parole che decidiamo di usare e rivendicare.
Ancora oggi, per esempio, spesso il linguaggio antisistema è tinto della violenza del linguaggio militare, figlio preferito della cultura patriarcale. In quest’ottica sostituire minoranza con la parola glitch è un buon modo di non porsi ai limiti, negli scarti di spazio, ma vivere dentro la complessità. Russell utilizza molti termini presi in prestito dal linguaggio tecnologico, parla di hackerare il sistema e di corrompere i dati, per distruggere alcune categorie stereotipate e ricominciare dalla distruzione.
Iniziare a introdurre nel lessico attivista riflessioni e termini che nascono come neutri nell’ambito tecnologico — o come nel caso della parola glitch sono già tinti di sfumature artistiche affascinanti e positive — non implica la deumanizzazione della lotta; al contrario, individuati gli errori cyborg del passato, invita a espandersi in un luogo nel quale già da anni espandiamo il nostro corpo e la nostra identità, chiamandoci meme viventi, raccontandoci già attraverso uno spazio e una lingua digitale.
Ci invita a fare quello che Legacy Russell dice a sé stessa, quando per la prima volta è consapevole della categoria di donna che le viene assegnata dall’esterno, e si sfida dicendo “sii vasta, continua a estenderti, autodefinisciti”.