Il primo risultato che mi restituisce YouTube quando digito “how to be a man” è un video composto da spezzoni di serie tv, film e cartoni animati con il voice over della versione anglofona e, se possibile, più minacciosa, di Francesco Migliaccio. Nel video, la voce tenebrosa afferma che per diventare uomini oggi bisogna seguire i suoi cinque consigli e non credere nell’esistenza della mascolinità tossica, che è un’invenzione delle femministe, ma forse anche dei poteri forti (per loro c’è un altro video). Il secondo risultato è un video che contrappone l’ideale dell’uomo “freddo” alla James Bond – che con il lessico medico popolarizzato dalle piattaforme definiremmo emotionally unavailable – all’uomo “caldo”, che riconosce le sue debolezze, di cui però non vengono forniti esempi. In un certo senso, essere uomini su Internet oggi si riduce a questo: qualcuno che ti dice cosa devi fare e qualcuno che non sa dirtelo, ma che spera troverai un modo per capirlo da solo.
L’autocontrollo
“Qualche anno fa mi sono reso conto di non sentirmi a mio agio rispetto a una serie di aspettative che il mondo aveva su di me e che anche io avevo su me stesso. Credevo fosse un disagio legato al mio lavoro o alla mia vita personale: alla fine ho capito di dover indagare il mio essere uomo”, spiega Claudio Nader, esperto in comunicazione e docente universitario. “Per noi è molto difficile capire che il fatto di essere maschi possa avere un impatto sulla nostra vita perché nella società gli uomini sono contemporaneamente onnipresenti e inesplorati”, afferma Nader, che per questo motivo si è avvicinato ai men’s studies, o studi sulla maschilità. Nati tra gli anni Cinquanta e Settanta, i men’s studies sono un campo di studi interdisciplinari che si occupa di indagare il genere maschile e i suoi cambiamenti nel tempo, nello spazio e nelle società. “Leggendo studi e ricerche ho avuto la conferma che le cose che sentivo non le sentivo solo io: da lì nasce l’idea di fondare l’Osservatorio Maschile, un contenitore sociale, filosofico e comunicativo che vuole lavorare in maniera collettiva sull’identità maschile”, afferma Nader, che attraverso l’Osservatorio oggi organizza letture, interviste e incontri di gruppo sulla maschilità.
Molti uomini non si riconoscono nei modelli maschili dominanti, che oggi si diffondono e consolidano anche grazie a Internet e ai social network.
Il disagio di cui parla Nader è comune a molti uomini che non si riconoscono nei modelli maschili dominanti, che oggi si diffondono e consolidano anche grazie a Internet e ai social network. “Uno dei modelli evergreen è quello dell’uomo che-si-è-fatto-da-solo-nonostante-tutto e che lo dimostra attraverso i soldi e il sesso. È il modello dei cantanti rap/trap e dei calciatori, che ci sembra diverso perché sono cambiati i mezzi di comunicazione ed è arrivato l’autotune, ma che in fondo è sempre stato così”, commenta Nader. “In una direzione simile va il modello del palestrato, che fa leva su una delle grandi aspettative che la società ha sugli uomini: occupare spazio. Il corpo diventa quindi uno strumento di autocontrollo e di affermazione, un modo per testimoniare che, in caso succedesse ‘qualcosa’, saremmo pronti a proteggere o attaccare. Muscoli a parte, gli uomini hanno in realtà un rapporto parzialissimo con i loro corpi: la salute e la prevenzione, soprattutto in ambito sessuale, sono argomenti difficilissimi”, aggiunge. L’autocontrollo è anche centrale nel modello manager, rappresentato dal leader che grazie alle sue doti intellettive può (e deve) gestire altre persone e guidarle nella direzione ‘giusta’. “Il problema di questo modello è che quando le sensibilità cambiano, diventi subito inefficace. Il potere della gerarchia e la leadership aggressiva smettono di funzionare non perché tu sei più debole, ma perché non attecchiscono più”, spiega Lorenzo Gasparrini, filosofo, scrittore e divulgatore, che si occupa spesso di formazione aziendale. Infine, tra i modelli più diffusi resiste quello del playboy, spesso declinato nella sua versione più virale: quella del pick-up artist, o artista del rimorchio. “Andrew Tate, l’ex-kickboxer arrestato in Romania per traffico di esseri umani, stupro e associazione a delinquere nasce così, ovvero creatore di contenuti che insegnano ad altri uomini eterosessuali ad avere successo con le donne”, spiega Matteo Botto, ricercatore in sociologia all’Università di Genova e divulgatore.
Nonostante questi modelli siano vivi e vegeti, è impossibile trascurare l’impatto che il movimento #MeToo ha avuto anche sui paradigmi più radicati nell’immaginario maschile. “Storicamente agli uomini è stato chiesto di essere violenti, e la violenza veniva ripagata con il riconoscimento sociale. Ho l’impressione che il #MeToo abbia sdoganato una visione completamente negativa della violenza maschile e introdotto nella cultura popolare grandi questioni come il consenso e le forme meno conosciute di molestie, ad esempio il catcalling”, spiega Nader. Per Gasparrini, il #MeToo è andato anche oltre: ha segnato la fine dell’indifferenza sulle molestie. “Nessuno può più sottrarsi a questo dibattito, dire che non lo riguarda: è una posizione inaccettabile. Possiamo essere polemici o anche solo prudentemente curiosi, ma siamo comunque coinvolti”, afferma il filosofo.
Di per sé, però, neanche un movimento potente e capillare come il #MeToo è riuscito a fare emergere nuovi modelli maschili, al punto che nessuno degli intervistati afferma che esistano uomini che possano rappresentare una maschilità non patriarcale. “Certo, esistono gli uomini che si dichiarano femministi, ma che di fatto ripropongono un classico schema patriarcale: quello dell’uomo che vuole salvare la donna dagli altri uomini”, spiega Nader. “È un modello ambiguo, perché spesso si concentra sul mondo esterno, sulle altre persone, quando invece dovrebbe concentrarsi su sé stesso. In poche parole, riconoscere il maschilista che c’è in te, non quello di fronte a te”, afferma Gasparrini.
“Quel che rende inefficace tanti percorsi di autocoscienza maschile è che si concentrano sulla decostruzione. Ma se togli ogni certezza, ti senti perso. Serve equilibrio, ovvero costruire nuovi immaginari.”
In questo senso, secondo alcuni esperti, il #MeToo è stato un evento troppo recente e troppo esplosivo per portare alla nascita di nuovi modelli. “I modelli si fanno con il tempo, e la storia del femminismo lo dimostra. Oggi una femminista può identificarsi con persone molto diverse tra loro, da Margaret Thatcher a Frida Kahlo. Gli uomini invece possono solo prendere esempio da altri uomini, ma non hanno veri e propri modelli condivisibili su larga scala e sul lungo periodo”, spiega Gasparrini. Allo stesso tempo, “quel che rende inefficace tanti percorsi di autocoscienza maschile è che si concentrano sulla decostruzione. Ma se togli ogni certezza, ti senti perso. Serve equilibrio, ovvero costruire nuovi immaginari”, afferma Nader, che tra gli esempi maschili innovativi cita Fedez, Harry Styles, Timothée Chalamet, Damiano David, Mahmood e Ghali.
L’emancipazione maschile?
“Al di là delle polemiche, Fedez è un uomo di successo non convenzionale: lo era già, ma è diventato un uomo di enorme successo perché ha sposato una donna più potente di lui. Allo stesso tempo, è un padre e una persona che parla abbastanza liberamente della sua salute mentale”, spiega Nader. Altri personaggi famosi, come Styles, Chalamet e David, incarnano invece una mascolinità più vicina al mondo queer, soprattutto dal punto di vista estetico. Anche in Ghali e Mahmood Nader vede “l’espressione di esempi non bianchi, che aprono un nuovo spettro di possibilità identitarie, a partire anche qui dall’estetica”. Il pericolo di questi esempi, tuttavia, come sottolinea Botto, sta proprio nella loro natura esteriore. “Il modo di essere uomini cambia nel tempo, e cambia forma, ma lo fa per preservare il suo potere. Nei men’s studies esiste un termine per questo fenomeno: mascolinità ibrida. Ne è un esempio Rosa Chemical, che ha un’estetica sovversiva, ma che nei testi dà prova di grande misoginia”, spiega il ricercatore.
“Quale autonomia fa così paura, agli uomini, da continuare a tacere, a non inventare niente? A non produrre nessun discorso nuovo, critico, inventivo sulla loro stessa condizione? A quando l’emancipazione maschile?”
Nonostante la mancanza di modelli, sempre più uomini sono alla ricerca di un modo nuovo per relazionarsi con se stessi e altre persone. “Tempo fa sembrava che non ci fossero alternative. Oggi gli uomini si rendono sempre più conto del disagio che provano e cercano soluzioni per vivere meglio”, spiega Nader. Gran parte di questa ricerca si concentra sul rapporto con la sfera emotiva, e in particolare con la vulnerabilità. “Non è vero che gli uomini non sono in contatto con la loro parte emotiva: conoscono bene la rabbia e l’aggressività, ad esempio. Il problema è il rapporto con la vulnerabilità”, spiega Botto, che nelle sue ricerche si occupa di studiare le dinamiche degli incel, una specifica community online composta da uomini che discutono del proprio status di involuntary celibate, ovvero di celibato involontario. “La vulnerabilità è il motivo per cui molti uomini entrano nei gruppi incel: lo fanno perché non si riconoscono nei modelli maschili dominanti, legati all’estetica e al successo sessuale, cercano conforto su Google, poi su Reddit, Youtube e Telegram, in un tunnel che li radicalizza”, spiega il ricercatore, aggiungendo però che è sempre la vulnerabilità il motore che spinge alcuni a uscire da questi gruppi. “Chi ne esce lo fa perché è riuscito ad andare oltre se stesso, ha riconosciuto e accettato la vulnerabilità degli altri e abbandonato la convinzione che altre persone gli stiano portando via un privilegio che gli spetta”, spiega Botto.
“Quale autonomia fa così paura, agli uomini, da continuare a tacere, a non inventare niente? A non produrre nessun discorso nuovo, critico, inventivo sulla loro stessa condizione? A quando l’emancipazione maschile?”, si chiede la scrittrice francese Virginie Despentes nelle ultime pagine del saggio King Kong Theory. Ho fatto la stessa domanda agli uomini che ho intervistato per questo articolo, e ognuno mi ha dato una risposta diversa. Per Gasparrini, emanciparsi dal basso da un sistema gerarchico come quello patriarcale è relativamente semplice: basta uscirne. “Quando sei al vertice, invece, per uscirne devi cambiare il sistema, e per farlo ci vuole tempo. Stiamo mettendo delle buone basi”, afferma il filosofo. Secondo il ricercatore Matteo Botto, l’emancipazione maschile passa invece da qualcosa che va oltre l’essere uomo. “Nella nostra società, il genere è ancora una discriminante essenziale: la vera emancipazione arriverà quando il genere avrà lo stesso valore della lunghezza dei nostri capelli”, spiega il ricercatore. La risposta più concreta arriva infine dall’esperto in comunicazione Claudio Nader: “L’Osservatorio Maschile è nato nel 2023 e chiuderà nel 2053. Questa è la mia scommessa: vedere il mio progetto invecchiare male e rendersi inutile nei prossimi trent’anni”.
La mia scommessa, per quel che vale, è un’altra, e non si nasconde nell’ultimatum di Nader e del suo Osservatorio Maschile, ma in quel disagio che l’ha spinto a cercare risposte e in una riflessione che mi ha confidato sul femminismo: “Per quanto tu voglia essere un buon alleato, combattere per qualcosa che non è tuo non ti trasforma fino in fondo”. In maniera forse un po’ cinica, l’emancipazione maschile arriverà quando gli uomini vorranno vivere meglio per sé stessi, e non per il bene di altre persone: quando sarà per tutti, come lo è già per molti, una pura questione di qualità di vita.