La storia è questa: un fotografo malese ha creato un’immagine con l’AI e l’ha diffusa sulle story di Instagram. In tre giorni è stata condivisa cinquanta milioni di volte. La peculiarità è il soggetto rappresentato: una vista aerea di un accampamento di tende ordinate di cui alcune di colore più chiaro formano la scritta All eyes on Rafah.
Rafah è una città palestinese nel sud di Striscia di Gaza che ospita una grande tendopoli di profughi: secondo le stime delle Nazioni Unite un milione e quattrocentomila persone ha cercato rifugio in quest’area dopo che era stata dichiarata sicura dall’esercito israeliano.
Come già avvenuto a Gaza con altre safe zone, il 27 maggio – due giorni dopo che la Corte internazionale di giustizia (ICJ) aveva ordinato di fermare l’offensiva su Rafah – Israele ha bombardato uccidendo 45 persone, tra cui molti bambini.
L’immagine è stata generata proprio dopo questo bombardamento.
È decisamente irreale: a Rafah non c’è un cielo azzurro e limpido con batuffoli bianchi di nuvole. In realtà, il cielo è grigio a causa del fumo delle bombe. Le tende non sono ordinate, il campo profughi è irregolare, ricolmo di detriti e materiali improvvisati, attraversato da feriti di ogni gravità.
Gli algoritmi di Meta non hanno rilevato immagini di natura violenta e probabilmente non hanno decodificato il testo costruito con le tende. Altrimenti avrebbero filtrato o sottoposto a shadowbanning il contenuto. Questo è stato sicuramente un fattore che ne ha permesso la viralità.
Tuttavia, al di là degli algoritmi, è stata anche questa rappresentazione tranquillizzante a renderla più condivisibile per molti utenti. Non tutti vogliono vedere le immagini reali di Rafah: il sangue, i cadaveri e la violenza diffusa. Questa condivisione incredibilmente ampia ha generato polemiche – e non parliamo di quelle di parte israeliana
Se partiamo da quest’ultimo punto, ben esemplificato da questo video TikTok, potremmo iniziare una discussione interminabile. È abbastanza evidente che questa forma di attivismo non produca un reale cambiamento. Forse, al massimo, un aumento di sensibilità o curiosità per quello che sta succedendo in Palestina (e comunque non è poco che il 28-29 maggio le ricerche di Rafah su Google siano schizzate in alto). D’altra parte non abbiamo bisogno di video che spiegano in maniera saccente come si è veramente militanti screditando qualsiasi altro impegno, blando o qualunquista che sia. A meno che non si ritenga che i 50 milioni di persone che stanno condividendo l’immagine credano di fermare il massacro in questa maniera.
C’è del posizionamento? Forse sì, ma forse c’è anche del posizionamento in chi addita l’altrui posizionamento. Certamente c’è chi ha una coscienza più allenata e compie scelte radicali mettendo in gioco più di un like. Chi rischia il lavoro o la fedina penale partecipando a scioperi e manifestazioni. Chi è parte di una rete di boicottaggio e chi studia le complesse relazioni storico-politiche per capire ancora meglio.
E forse è quello che tutti dovrebbero fare per sostenere le cause in cui credono. Ma sicuramente non serve attaccare milioni di persone comuni – non celebrità o influencer, là il discorso sarebbe ancora un altro – che provano (ingenuamente?) a mandare un messaggio, a sentirsi meno soli, a cambiare il frame su questa guerra – per adesso abbastanza partigiano per quanto riguarda i media-mainstream.
C’è del posizionamento? Forse sì, ma forse c’è anche del posizionamento in chi addita l’altrui posizionamento. Certamente c’è chi ha una coscienza più allenata e compie scelte radicali mettendo in gioco più di un like.
Per quanto riguarda il secondo punto: ci sono giornalisti e cittadini che rischiano la vita tutti i giorni per documentare la realtà sul campo, bisognerebbe diffondere le loro analisi e le loro immagini, senz’altro più crude, per avere un efficace impatto politico. È vero, sarebbe doveroso per chi ritiene necessario mostrare il massacro. Ma questa pratica più consapevole e più informata non viene impedita dalla diffusione dell’immagine di cui parliamo. Questa lato della questione dovrebbe ancora una volta farci riflettere su quanto sia complicato e controproducente l’utilizzo di uno spazio privato alla stregua di uno spazio pubblico di comunicazione. Le Big Tech ovviamente costruiscono un algoritmo in base a cosa è più profittevole o politicamente conveniente mostrare sulle loro piattaforme.
Invece, credo che se non fosse stata utilizzata l’AI per creare questa immagine non sarebbe cambiato nulla. Ovviamente questo episodio ci rende ancora più consapevoli di quanto sarà facile creare immagini fake e irradiarle con un click. Tra l’altro, per adesso, questa è l’immagine AI più virale di sempre.
Ma in questo caso non si tratta di un deepfake realistico ma della diffusione di una scritta realizzata con i pezzi di un accampamento: è decisamente improbabile ritenerla vera.
Sembra che All eyes on Rafah sia una frase pronunciata a febbraio da Rik Peeperkorn, responsabile dell’Organizzazione Mondiale della Sanità in Palestina, durante un’intervista a febbraio. È stata in seguito ripresa da associazioni umanitarie (Save the Children International, Oxfam, Jewish Voice for Peace) per attirare l’attenzione su Gaza e Rafah, che era una delle ultime destinazioni rimaste per i palestinesi sfollati provenienti da altre parti della Striscia.
Eppure, c’è qualcosa che ha contribuito a rendere così virale questa immagine.
Qualcosa che rivela chi siamo in questo momento.
Come abbiamo visto, non racconta nulla di ciò che sta veramente accadendo. Non assomiglia nemmeno a Rafah, il luogo in cui c’è quell’accampamento. L’immagine non pretende una Palestina libera, non critica l’invasione militare, non ci rende più visibili le atrocità e nemmeno amplia la nostra visione con un’analisi complessa. Sebbene siamo consapevoli che non stiamo cambiando nulla, è probabile che la sua condivisione ci procuri la sensazione inconscia di aver compiuto un’azione. E allo stesso tempo, l’immagine descrive benissimo la nostra immobilità: la visuale è aerea, a distanza di sicurezza, lo stile è edulcorato, quasi disneyano, ma soprattutto ci rivela che il massimo che siamo in grado di fare, per adesso, è puntare gli occhi.
In fondo, a un altro livello ancora, è come se fosse uno specchio della nostra coscienza. Perché sappiamo benissimo quello che avverrà. Sappiamo benissimo del prossimo massacro e sappiamo che, per adesso, non abbiamo la forza di fermarlo.
In fondo, l’immagine rivela la nostra impotenza.