23.12.2024

Squid Game 2: la trama, il gioco, il talento visionario di Hwang Dong-hyuk

Come un gioco per bambini si è trasformato in una distopia specchio del capitalismo contemporaneo? Squid Game è fenomeno globale che unisce critica sociale, estetica pop e narrazione avvincente. Dai giochi mortali ai record mondiali, scopriamo perché questa serie ha segnato un’epoca.

“45,6 miliardi sono un gioco da ragazzi”.

Un uomo in tuta verde, per terra, trascinato da un uomo in tuta rosa. Una scatola col nastro rosa. Sono le immagini di esordio della prima stagione (2021) della serie sudcoreana dei record Squid Game. Il tradizionale “gioco del calamaro”, nei vicoli delle città coreane fa divertire i bambini con la sua aggressività e le semplicissime ma efficaci e immutabili regole. Si struttura a squadre che si attaccano e difendono attorno ad un calamaro disegnato per terra. In molti paesi è un gioco diffuso. In Italia è Un due tre stella (che è la storpiatura infantile di “Un due tre stai là” poi divenuta ufficiale tanto da far perdere il nesso logico). Nella serie, l’altra immagine ormai iconica, è l’inquietante bambola gigante (il cui design si basa su Younghee, noto personaggio femminile dei libri scolastici coreani degli anni ’70 e ’80) che cantando introduce il primo dei giochi mortali. 

“A cosa saresti disposto per estinguere i tuoi debiti?” Possiamo riassumere Squid Game con questa frase. È l’immaginifica storia in cui 456 concorrenti (persone che per vari casi della vita, hanno fallito e sono in gravi difficoltà, affogati nei debiti) mettono a rischio la loro vita in una località sconosciuta, segreta, accettando misteriosi inviti a partecipare a un crudele gioco di sopravvivenza, con un montepremi di 45,6 miliardi di won (32 milioni di dollari su per giù al cambio di oggi). Chi perde, viene eliminato. Solo uno sarà il vincitore. E di qui fioccano gli enigmi e le domande che attendono risposta.

Influenze e Iconografia

Dai giochi di sopravvivenza di Hollywood come The Hunger Games, ai giapponesi Battle Royale e Alice in Borderland (sempre di Netflix), corrono le somiglianze. Ci passa pure il film (da un libro) giapponese As the Gods Will (2014), che pure inizia con un gioco mortale molto simile a quello del calamaro. Il regista Hwang fa notare che il suo copione precede il manga ed è stato concepito originariamente nel 2008, comunque ispirandosi ai fumetti e ai live games di cui è un grande appassionato. C’è l’arte surrealista, con Magritte preso a piene mani. C’è il film culto The Cube

Non serve scomodare ucronie o distopie orwelliane. Ci siamo già dentro. Cosa c’è di nuovo, quindi?

Il cinema e la tv da anni scodellano narrazioni distopiche, società dominate da governi totalitari (Hunger Games, Maze Runner, Insurgent) o improbabili utopie (Ember, Ender’s Game) per giustificare queste competizioni disumane. Ma a Squid Game non serve proiettarsi sul futuristico o sul fantasy, avendo già come base storico-sociale sia il recente passato delle dittature militari, sia il presente competitivo e selettivo della Corea del Sud. Dopo che già da decenni la gente comune partecipa volontariamente a reality e survival, mettendosi alla prova in situazioni fra le più stravaganti e umilianti, non serve scomodare ucronie o distopie orwelliane. Ci siamo già dentro. Cosa c’è di nuovo, quindi?

Squid Game ha una trama avvincente e pure un po’ furba. Ci illudiamo di aver capito dove vada, ma la strada presa si affolla di deviazioni, sorprese, rientri,  intrighi e colpi di scena. Certo, i giochi mortali come trama narrativa non se li è inventati Squid Game. Ma il gioco è la sommatoria di elementi vincenti. Le scenografie di Chae Kyung-sun, che visualizzano il ricordo del regista di Las Vegas, al confine fra realtà e finzione, al concetto stesso del gioco come riproduzione della vita. I costumi con le iconiche maschere della sua collaboratrice Cho Sang-kyung sono fondamentali. Gli interni, invece di essere oscuri sono al contrario invasi da un’agghiacciante luce solare, con stanze colorate e scale infinite. I colori pop, come se tutto fosse di plastica e plexiglass, come se Murakami rileggesse Escher e per goderne a noi dessero gli occhiali 3D (non a caso, verdi e rossi).  

Questa iconografia, con le tute e le maschere diventate leggendarie, erano già evocati nel 2012 nel video Fantastic Baby del gruppo K-pop Big Bang, dove il clima distopico si nutre di citazioni (come Akira di Otomo). Squid Game è disegnato, anche graficamente, per impressionare le retine. Graficamente aspro, segue senza pietà i giochi brutali, dai ritmi sincopati e strazianti, che eliminano i concorrenti e ci impediscono di affezionarci troppo (caratteristica anche di Alice in Wonderland). Altro punto forte: la stagione è di soli 9 episodi, rilasciati tutti insieme. Non si divaga troppo, si va dritti allo scopo, con intensità narrativa e un ritmo coinvolgente, anche se ogni episodio dura fra un’ora o di più, contravvenendo alla prassi dei k-drama (che di solito sono composti da puntate di circa mezz’ora). I personaggi sono davvero interessanti, le loro storie ben costruite, i caratteri approfonditi per darci il contrasto con le imperscrutabili e schematiche personalità dell’élite. 

Hwang Dong-hyuk riflette come la libertà di scelta e d’arbitrio sia un’illusione, perché non c’è giustizia in un sistema truccato da gruppi di potere senza volto. La vita è un gioco, un capriccio di privilegiati.

Su questo si costruisce una tensione sempre efficace, un tifo inevitabile per alcuni giocatori (grazie alla recitazione volutamente esagerata, come fossero personaggi di manwha d’azione), anche quando la ragione interna alla narrazione ci dice: ne sopravvivrà uno solo. Hwang Dong-hyuk riflette come la libertà di scelta e d’arbitrio sia un’illusione, perché non c’è giustizia in un sistema truccato da gruppi di potere senza volto. La vita è un gioco, un capriccio di privilegiati. Che questo avvenga grazie allo spettacolo, ai colpi di scena che mozzano il fiato, al succedersi di regole inviolabili che conducono all’inevitabile tragedia, è solo uno dei pregi dell’abile costruzione narrativa. L’altro, concerne i rapporti crudelmente necessari che si creano fra i giocatori, per mera sopravvivenza o tattica del momento, più che per complessa strategia politica. È una micro-società quella che si viene a creare e a distruggere nell’arco della durata di ogni puntata, con alleanze e slanci emotivi, sentimenti che esplodono, durezze e fragilità che gli spettatori percepiscono come plausibili e che seguono con la speranza che non vengano distrutte troppo presto.

Il regista

Un passo indietro è necessario, per meglio comprendere il successo e il fenomeno di Squid Game. Che è un’opera d’autore, prima che il successo di una piattaforma globale. Hwang Dong-hyuk è l’autore di The Fortress (uscito nel 2017 e vincitore di molti premi), Miss Granny (2014, successo di botteghino in tutta l’Asia) e di Silenced. Stimato e premiato sceneggiatore, ha preso lo spunto proprio dal gioco che giocava da bambino, come simbolo della società coreana contemporanea, malata di competitività. Così, ha pure immaginato personaggi per i quali i giochi siano familiari, anche se declinati su un livello di crudeltà e lotta per la sopravvivenza che sposta il senso del gioco in una più profonda riflessione sul significato stesso di vivere la vita dentro una perenne competizione. 

La prima bozza della sceneggiatura è databile 2008-2009, pensata per un film ma ritenuta poco plausibile, troppo violenta e negativa, grottesca nelle sue implicazioni narrative. La storia stessa nasce da un momento di difficoltà finanziarie personali del regista, costretto a vivere con la madre e la nonna e a vendere perfino il suo computer portatile per sbarcare il lunario. I primi due episodi gli costano sei mesi, ma sono quelli fondamentali per l’architettura della serie. Quando, nel 2019, il mondo è devastato dalla pandemia e dai lockdown, la storia acquista un nuovo significato, attuale e riflessivo della situazione critica delle società avanzate. E il regista, diventato noto per alcuni buoni esiti di botteghino, la rimaneggia e la ripropone come serie a Netflix. Si capisce che la piattaforma si fida del prodotto, visto che sceglie di rilasciarlo tutto in una volta, cosa insolita per i K-drama, e subito con un buon doppiaggio in inglese. Di una cosa il regista è sicuro: “è stata la serie giusta per questo periodo storico”.

Il cast

Altro punto di forza delle serie tv coreane, sono attori e attrici che ormai anche l’Occidente ha imparato a conoscere, a storpiarne i nomi, ad apprezzarne le qualità interpretative oltre che estetiche. Lee Jung-jae (già attore in Chief of Staff e in film popolari come Il Mare e The Housemaid), è Seong Gi Hun, padre divorziato che per ottenere la custodia della figlia e ripianare i molti debiti, oltre a redimersi agli occhi della madre malata, decide di partecipare al gioco; Park Hae-soo (già visto in Prison Playbook) è Sang Woo, manager di una società di investimenti, amico d’infanzia di Gi Hun, è ricercato per frode verso i clienti; Wi Ha-Jun (è Hwang Jun Ho, visto in 18 Again e nell’horror Gonjiam: Haunted Asylum), Heo Sung-tae (già in Different Dreams e Racket Boys), è Jang Deok Su, un gangster in debito con degli strozzini filippini; Kim Joo-Ryoung (è Han Mi Nyeo, visto in When My Love Blooms). E poi Oh Yeong-su è Oh Il-nam, l’anziano affetto da un tumore cerebrale e protagonista “in negativo” della serie. Vincitore del Golden Globe per il suo ruolo, è stato riconosciuto colpevole di “cattiva condotta sessuale” da un tribunale sudcoreano, per aver toccato in modo inappropriato un’attrice nel 2017. Da menzionare la modella Jung Ho Yeon nel suo debutto come attrice, interpreta una profuga nordcoreana che vuol far emigrare la famiglia (ha registrato il provino proprio mentre lavorava a New York per la fashion week) e Anupam Tripathi (Abdul Ali, concorrente numero 199, un immigrato pakistano che vuol vincere per provvedere alla sua famiglia), che introduce il tema del razzismo, in particolare nei confronti dei lavoratori migranti, problema sociale diffuso in Corea del Sud. 

Il successo

«Sarà senz’altro la nostra serie non in inglese di maggior successo» ha detto Ted Sarandos, co-amministratore delegato di Netflix «e ci sono buone possibilità che diventi la nostra più grande serie di sempre». Per Netflix il successo di Squid Game è una manna, che conferma la tendenza a uscire dall’asfittica Hollywood e ad investire in ottime produzioni locali  (come La casa di carta, Lupin e Dark), con storie e strutture innovative, senza precedenti e senza essere copia di qualcos’altro di già visto. Variety ha scritto: «è sia universale che tipicamente coreana, è ben scritta, ben impacchettata e capace di creare la giusta empatia verso il suo protagonista». Non stupisce che quindi sia diventata la prima serie drammatica non in lingua inglese a ricevere nomination e premi in diverse categorie principali, oltre che ai Golden Globe anche agli Emmy Awards. Altri numeri significativi. Squid Game si è classificata al primo posto nella top 10 delle serie TV più viste in streaming negli Stati Uniti, primo K-drama a raggiungere questo traguardo secondo i dati della società di analisi dello streaming FlixPatrol. Il precedente record apparteneva all’altra serie Netflix Sweet Home, terza nella stessa classifica. Squid Game raggiunge il primo posto in Corea del Sud e in altri 94 Paesi nel mondo, superando nella classifica globale delle top 10 serie TV di Netflix, anche Sex Education. Nei primi 28 giorni di programmazione ha raggiunto 111 milioni di telespettatori, superando Bridgerton che ne aveva totalizzati 82 milioni. 

Tutto oro quello che luccica? In parte. Questi numeri provengono infatti direttamente da Netflix, senza verifiche da fonti esterne. Ma al netto della contabilità, la serie ha ricevuto ottime recensioni, con un punteggio del 91% su Rotten Tomatoes. Divenuto fenomeno pop globale, generati meme sui social e tendenze nella moda, innervato di nuovi termini i dizionari di tutto il mondo, Squid Game impone Netflix come regina dello streaming, con 209 milioni di abbonati su scala mondiale. A confermare che non di una breve serie auto-conclusiva si trattasse, ma di un progetto di lungo respiro, quasi un franchise ispirato a temi e ad un’estetica impattanti e ricorrenti, il CEO Ted Sarandos ha lanciato la prima stagione del suo spin-off survival game, Squid Game: The Challenge. Il voyeurismo pubblico ha di che godere nel reality che replica la forma della serie, coinvolgendo 456 concorrenti a competere in vari giochi per bambini ispirati a quelli della serie, per vincere 4,56 milioni di dollari – il più grande jackpot della storia della TV. 

“Squid Game: The Challenge” Reality Show – ph. courtesy Netflix
“Squid Game: The Challenge” Reality Show – ph. courtesy Netflix
“Squid Game: The Challenge” Reality Show – ph. courtesy Netflix
“Squid Game: The Challenge” Reality Show – ph. courtesy Netflix

Per quanto scritta bene, Squid Game non è Dostoevskij, ma è anche per questo che siamo disposti a lasciar correre le banalità che non perdoneremmo alla grande letteratura.

Il reality show è composto da 10 episodi, tutti girati nel Regno Unito. Materia della sfida sono giochi, alleanze e strategie, tutto concesso per arrivare al traguardo. La domanda è la solita: “Fino a che punto ci si potrà spingere per cercare di vincere sugli altri?” Quello che nella serie è pretesto spettacolare e avvincente per raccontare una crisi sistemica dei valori, riconoscibile in ogni angolo del mondo, nel reality è figura del capitalismo stesso che si auto-celebra e si riproduce senza soluzione di continuità. Sembra più un esperimento sociale che uno show, ma del resto è quello a cui è arrivata la televisione dell’esibizionismo orgoglioso della meschinità umana. 

Verso la seconda serie. E oltre

Nel finale della prima serie il vincitore numero 456 viene contattato un anno dopo dall’anziano numero 001, la mente dietro il gioco. Una specie di U.N.Owen da E poi non rimase nessuno. Che il gioco sia stato creato per noia, da un riccone privo di stimoli anche davanti alla morte incombente, suona facilone come il messaggio che i soldi non fanno la felicità. Per quanto scritta bene, Squid Game non è Dostoevskij, ma è anche per questo che siamo disposti a lasciar correre le banalità che non perdoneremmo alla grande letteratura. Nell’ultima scena di stagione vediamo Seong Gi Hun in viaggio per gli Stati Uniti da sua figlia, fermarsi davanti ad una scena familiare: due persone giocano con dei foglietti colorati, segno che il gioco non è finito. Componendo il numero dietro il biglietto, minaccia di farlo cessare per sempre. Dalle minacce alla realtà, si sa, il passo è lungo e se anche il protagonista della prima serie ci è parso determinato e onesto nelle intenzioni, nella realtà Netflix e il regista Hwang hanno fatto i conti con la realtà. Va bene denunciare le storture del capitalismo, ma è pur sempre il sistema in cui viviamo e quando siamo nei posti in prima fila, fa un po’ specie restare critici duri e puri senza partecipare delle “umane sorti e progressive”.

Se Hwang nella seconda e nella terza stagione, cui ha lavorato contemporaneamente nel corso dei circa tre anni dalla conclusione della prima, ci terrà incollati davanti allo schermo, facendoci vibrare le segrete corde dell’emozione primaria, allora (forse) gli si perdonerà che una storia così guizzante sia diventata un prodotto di massa, una moda pop. Che abbia generato tutti quei sotto-prodotti della società del consumo compulsivo, che nella sua originale motivazione avrebbe voluto denunciare. Come gli zombie di Romero, da comparse di serie B, hanno generato un contagio mediatico irreversibile e consacrato il regista per un solo film, così Squid Game è diventato lo Star Wars di Hwang, una gallina dalle uova d’oro a cui è difficile rinunciare, come per i concorrenti del gioco tornarsene alle loro miserabili vite. La dipendenza dai format dell’esibizionismo di massa è un tentacolo dal cui abbraccio è difficile sciogliersi. 

Nel frattempo, dal 15 dicembre, a Gwanghwamun Square a Seoul, dove troneggia la statua dell’ammiraglio eroe nazionale del XV secolo Yi Sun-Sin, è apparsa di nuovo Younghee, che di notte si illumina all’interno e con lo sguardo insondabile invita a fare di nuovo a saltare: “un, due, tre…”

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