fbpx
Close
Type at least 1 character to search
Torna su

Mettere a nudo le celebrity26 min read

Mettere a nudo le celebrity

L’evoluzione del rapporto tra spazio pubblico e privato nella “pornificazione” tecnologica tra leak, deepfake e AI

di Mariavittoria Salucci

Artwork di emo_emo_little_star

La John Baumgarth era una casa editrice di Chicago specializzata in calendari e poster di pin-ups che, nel 1949, chiese al fotografo Tom Kelley di scegliere e ritrarre delle modelle per il calendario dell’anno successivo. Tra i provini inviati c’era un’immagine intitolata «Golden Dreams» che mostrava una Marilyn Monroe nuda e ancora sconosciuta, su una coperta di velluto rosso. La foto di Monroe inizialmente non fu utilizzata né distribuita tramite posta, per paura di una denuncia per oscenità. Nel 1953, però, un giovane copywriter di nome Hugh Hefner, dimessosi da poco da Esquire, chiese alla Baumgarth di comprare i diritti (che ammontavano a 500$) per riprodurre l’immagine sul primo numero della sua nuova rivista, ‘Playboy’.

La copertina non riportava nemmeno la data, era in bianco e nero con alcuni dettagli rossi, ma spiccava la scritta «FIRST TIME in any magazine FULL COLOR the famous MARILYN MONROE NUDE» accompagnata da un’altra grafica che urlava «VIP ON SEX». Hefner non pubblicò soltanto la foto, ma la ingrandì a doppia pagina inserendola come pieghevole centrale; una scelta che rese la rivista uno strumento portatile di masturbazione tale da registrare una vendita di 54.000 copie alla prima uscita. «Tutta una generazione di americani è cresciuta pensando che le donne avessero una graffetta all’altezza della vita» scriveva ironicamente Steven Watts in ‘Mr. Playboy’ (2008).

«Tutta una generazione di americani è cresciuta pensando che le donne avessero una graffetta all’altezza della vita» scriveva ironicamente Steven Watts in ‘Mr. Playboy’ (2008).

Questo momento, per Paul B. Preciado, sancisce l’avvento della prima pornotopia dell’era di comunicazione di massa. Il concetto di «pornotopia» prende le mosse dalle «eterotopie» di Foucault, ovvero dei “luoghi altri” realmente esistenti, ma costituiti da più spazi al loro interno, tanto connessi quanto incompatibili – ne ha parlato anche Valentina Nappi nel TEDxBari. Per capirci, si tratta di luoghi in senso lato, in cui spesso le regole che governano lo spazio generico di una società sono ribaltate, rispecchiate o modificate: pensiamo alla sala di un cinema, dove uno spazio tridimensionale viene proiettato su uno bidimensionale, a un museo, dove il tempo è sospeso, o un cimitero, dove chi c’è non c’è nello stesso momento. Insomma, l’ecosistema creato da Playboy è una pornotopia in quanto stabilisce delle «relazioni singolari tra spazio, sessualità, piacere e tecnologia, alterando le convenzioni sessuali o di genere» e anche a livello sociale.

Il capitale sessuale delle VIP

La foto di Marilyn, infatti, si trasforma in una «informazione visuale meccanicamente riproducibile, capace di suscitare affetti corporali», definendo l’inizio della “pornografia moderna” che poi si è sviluppata con il web. Si tratta di una rivoluzione in termini tecnologici di produzione e distribuzione, che vede in Playboy un luogo di incontro tra cultura e pornografia, spazio pubblico e domestico. Il magazine metteva allo scoperto la dimensione carnale delle pratiche di consumo dei lettori, distribuendo la sessualità nello spazio, estendendo il desiderio sessuale per tutta la rivista – che comunque conteneva pezzi culturali, tra articoli di Wallace e interviste a Martin Luther King – e superando di fatto i confini dei regimi di visibilità privata e pubblica.

Dagli anni Cinquanta in poi la pornografia ha rinegoziato il suo rapporto con lo spazio privato (della rappresentazione e del consumo) e quello pubblico (della distribuzione), e l’ha fatto nell’intersezione di questi due, cioè con le celebrità, le star di cui il pubblico vuol conoscere la sfera privata. La pornografia moderna parte proprio da quel «VIP ON SEX» affiancato all’immagine di una nota icona cinematografica.

La pornografia moderna parte proprio da quel «VIP ON SEX» affiancato all’immagine di una nota icona cinematografica.

Il concetto di «star» nasce ben prima del cinema e dei social, incarnandosi in “dive” pubbliche e attrici teatrali, come Eleonora Duse, su cui comunque già circolavano molteplici pettegolezzi per indagarne i comportamenti sessuali. Ma è con i nuovi sistemi mediatici e tecnologici che si intensifica il gossip, la pornificazione delle loro immagini e l’interesse sulle informazioni di tipo sessuale; dalle voci sulle possibili apparizioni di Joan Crawford e Barbra Streisand in film a luci rosse, fino agli articoli contemporanei del sito di gossip TMZ (che già nel nome colloca fisicamente e simbolicamente il suo raggio d’azione nella Thirty-Mile Zone degli studi cinematografici di Los Angeles).

I personaggi pubblici vivono in un territorio di confine (a suo modo una eterotopia) in cui si dà per assodata l’estrema esposizione dei dettagli più intimi. Come se la mancanza di qualsiasi tipo di privacy fosse giustificata dall’onore e dall’onere della fama, perché in loro prende corpo lo spazio pubblico dei media e ci si aspetta che tutto diventi accessibile. Questo porta spesso a giustificare, anche da un punto di vista legale, i modi attraverso cui certe informazioni riservate sono diventate di pubblico dominio – soprattutto perché nelle pornotopie vigono altre convenzioni.

Nella trentina di categorie pornografiche disponibili sul sito del neonato Pornhub, verso la fine del 2007 già figurava quella delle «celebrity», che conteneva brevi montaggi in bassa definizione di scene esplicite provenienti dal cinema (come gli estratti di Angelina Jolie nei film ‘Gia’ del 1998, ‘Original Sin’ del 2001 e ‘Taking Lives’ del 2004) e dalla cultura pop (un seno sfuggente della cantante Alanis Morissette nel video di Thank you o la foto dell’attrice Tara Reid a cui era caduta una spallina alla festa del 35esimo compleanno di Sean Comb).

Il primo video caricato nella categoria, però, è il risultato dell’ossessione più radicale del pubblico per le celebrità, una mania che ha più volte fatto ricorso all’illegalità. Il video riporta infatti il contenuto della cassetta rubata del sex-tape di Pamela Anderson e Tommy Lee nel 1995. Il video leak era stato trafficato e rilasciato attraverso vari canali: cassette VHS comprate per strada e ordinate per 60$ online, foto e trascrizioni dettagliate su Penthouse e, infine, anche in streaming. Era impossibile interromperne la circolazione a causa dell’alta replicabilità, così le star furono costrette a cercare (almeno) un accordo monetario con le compagnie di distribuzione, vendendo i diritti.

Sui tubes (i siti di distribuzione pornografica che replicano la struttura di YouTube, come appunto Pornhub o YouPorn) ogni utente poteva, fino a pochi anni fa, caricare qualsiasi tipologia di video senza alcuna verifica dell’identità né dei diritti sui contenuti uploadati. La porn piracy, che costituiva l’80% di tutto il materiale presente su un sito come Pornhub, impediva alle case di produzione e ai creators di rimuovere e/o monetizzare quei contenuti, perché già resi disponibili al pubblico gratuitamente. Così, all’inizio del fenomeno, sui tubes comparvero a cascata video amatoriali di stolen porn delle celebrità, come ‘1 Night in Paris’ con Paris Hilton e Rick Salomon nel 2004 e quello di Kim Kardashian e Ray J nel 2007. I diritti di entrambi erano stati acquistati dalla Vivid Entertainment e, anche se l’avvocato di Kardashian aveva intentato una causa, non ci fu modo di bloccare la pubblicazione. Tanto è immediato caricare un contenuto su internet, quanto è inverosimilmente complesso rimuoverlo, perché già in upload da un altro utente su un’altra piattaforma. 

Questo accade anche a causa dell’estremo ritardo con cui arrivano gli appoggi legali rispetto all’adozione di massa delle tecnologie – come il Codice Rosso, che in Italia è stato adottato solo nel 2019 in contrasto alla condivisione di materiale non consensuale (volgarmente detto revenge porn). Quando parliamo di pornografia non possiamo riferirci solo alle immagini in sé, ma all’intero sistema di regolamentazione dello spazio pubblico in relazione alla rappresentazione della domesticità privata e del corpo intimo. In parole semplici bisogna considerare come e chi ha deciso dove devono stare certe immagini (e, come vedremo, è una questione che ha sempre penalizzato le sex worker). Una stessa scena può essere definita vagamente “erotica” quando viene proiettata al cinema (in conformità alle leggi sui minori) o pubblicata su Instagram (secondo le guidelines della piattaforma), e prettamente “pornografica” se è invece reperibile su un sito web per adulti o su un subreddit come r/Celebhub.

Nel Dizionario della pornografia (2006), sotto la voce «celebrità» Pierre Arnaud Jonard si chiede se il cinema classico e quello pornografico coabitino se le star li frequentano. Non è infatti solo una questione di contenuti più o meno espliciti, ma anche di quali personaggi sono coinvolti e dei luoghi in cui questi contenuti vengono ricevuti. Pensiamo al momento in cui Drew Barrymore fa una doccia di sangue nel film horror Doppelganger (1993) o a quando Monica Bellucci si spreme un limone sul petto in Malèna (2000) di Tornatore; nella cornice pornografica di Pornhub queste immagini non sono più rappresentazione cinematografica d’autore, ma acquisiscono un’altra connotazione di iperrealtà, perché il nuovo patto narrativo crea un rapporto attivo e carnale tra spettatore e rappresentazione. Significa banalmente che gli utenti in cuor loro sanno che quei video sono performanti, ma nell’atto della masturbazione accettano di non crederci.

Nei siti web pornografici, in quanto pornotopie, vige un’alterazione delle convenzioni sociali per cui, ad esempio, degli adulti acconsentono – anche per retaggi culturali – a chiamare una categoria «teen» più in relazione a un tipo di fisicità che a un’età effettiva di chi è rappresentato nel video. La sospensione delle regole è accettata (e politicamente incoraggiata) se alla base c’è il consenso. In quel territorio pubblico online è possibile eccitarsi per una doccia di sangue, mentre nel contesto di una rappresentazione horror (per quanto sia 18+) in un cinema di provincia sarebbe considerata una reazione deviante. Come notava Susan Sontag nel 1967, le fantasie condannate dalle norme psichiatriche finiscono dove inizia l’immaginazione pornografica, nei suoi paesaggi onirici, astorici e congelati in cui si collocano le performance sessuali.

Leggi anche:  Vita da freelance

Come notava Susan Sontag nel 1967, le fantasie condannate dalle norme psichiatriche finiscono dove inizia l’immaginazione pornografica, nei suoi paesaggi onirici, astorici e congelati in cui si collocano le performance sessuali.

Oggi sono sia i sistemi legislativi di ogni paese sia le piattaforme mediatiche globali che selezionano i materiali che possono viaggiare nel mainstream e quelli che devono essere nascosti dal discorso comune e relegati nelle pornotopie, dove cambiano le regole, i riferimenti e i contesti di fruizione. Esiste ovviamente un doppio standard, ben riconoscibile in particolare su Instagram, dove gli account di sex worker e pornostar vengono censurati con un’incidenza esponenzialmente maggiore rispetto ad account di modelle, influencer e celebrity che postano contenuti dello stesso calibro erotico. Questo accade perché il capitale sessuale delle VIP è più profittevole per le piattaforme e per le media company (i casi di Marilyn Monroe e Pamela Anderson lo dimostrano ampiamente) ed è anche tollerato dal punto di vista sociale. La società approva facilmente l’entrata di un personaggio pubblico in un contesto erotico, mentre ostracizza l’ingresso di un personaggio erotico in un contesto pubblico. Insomma Pornhub non può stare su Instagram, ma la Ignite di Dan Bilzerian sì.

Questo accade perché il capitale sessuale delle VIP è più profittevole per le piattaforme e per le media company (i casi di Marilyn Monroe e Pamela Anderson lo dimostrano ampiamente) ed è anche tollerato dal punto di vista sociale

Inoltre, lo sviluppo tecnologico del sistema mediatico ha permesso agli spettatori di ribaltare progressivamente il loro ruolo di consumatori passivi, diventando attivamente produttori e ri-mediatori di immagini. Ci sono stati utenti che hanno divulgato illegalmente nudes di attrici, e celebrità che, sotto ricatto (sextortion), hanno pubblicato i loro stessi nudes (come Bella Thorne, che l’ha potuto fare proprio in quanto celebrità); ma questa proliferazione di immagini esplicite dal 2017 si è concretizzata anche nei deepfakes.

artwork di @emo_emo_little_star

Deepnude

Il termine «deepfake» è stato preso dal nome di un utente di un forum reddit, chiamato appunto @DeepFakes, che condivideva contenuti pornografici in cui le facce delle sex worker erano sostituite con quelle di celebrità come Taylor Swift e Scarlett Johansson. Uno dei primi video mostrava l’attrice israeliana Gal Gadot inserita in un video porno a tema incesto. Il nome utente raccontava il suo “progetto” perché per realizzare questi video «fake», dichiaratamente non reali, utilizzava la tecnologia del «deep learning» che – molto sommariamente – consiste nell’allenare algoritmi di riconoscimento facciale fornendo il più alto numero di immagini della persona coinvolta; ed è ovvio che in quanto attrici ci sia un’ampia varietà di materiale facilmente reperibile.

Sono passati cinque anni, eppure le normative a riguardo ancora scarseggiano. La DARPA (Defense Advanced Research Projects Agency) nel 2018 aveva investito $68 miliardi per sviluppare un metodo forense di riconoscimento dei deepfake, ma ad oggi non esistono leggi specifiche sulla regolamentazione di questa pratica: in Europa l’AI Act sta cercando di stabilire dei requisiti minimi di trasparenza per la loro diffusione, ma considera i deepfake un “rischio limitato”; mentre lo Stato del Texas criminalizza la creazione e la diffusione di deepfakes con l’intento di nuocere (non tanto attrici, persone comuni o sex worker) i candidati politici. La maggior parte dei casi legali sono stati ricondotti al “revenge porn”, mentre le singole persone che hanno trovato propri video deepfake hanno dovuto far reclamo ai distributori stessi per “violazione del copyright” (un po’ come quando in Italia, fino al 1996, si considerava ancora lo stupro un crimine contro la morale pubblica e non contro la persona).

Rebecca Delfino, docente di diritto alla Loyola Marymount University di Los Angeles, da anni studia l’intersezione tra legge e deepfake, e spiega che «quando si vende qualcosa in modo commerciale e lo si commercializza in massa, si è soggetti a tutta una serie di richieste di risarcimento per il diritto d’autore, dall’appropriazione delle sembianze, alla diffamazione e alla falsa pubblicità». È come dire «my body, my (copy)right», ma con un ricorso legale limitato (per non parlare del tempo e delle risorse necessarie per perseguirlo) gran parte dell’onere di gestire la moltiplicazione dei porno deepfake ricade sulle piattaforme tecnologiche che li ospitano e li rendono accessibili. Come è successo recentemente a X, che ha bloccato le ricerche su Taylor Swift data la condivisione compulsiva di materiali pornografici non consensuali generati con AI.

Diverse attrici nel dicembre 2023 hanno dovuto inviare delle “lettere di diffida sulla commercializzazione” dopo l’uscita di un’inchiesta su Forbes, che raccontava come su Etsy (noto sito e-commerce dove si vendono prodotti artigianali, DIY e vintage) fossero presenti immagini pornografiche generate con AI di almeno 55 celebrità. Hany Farid, professore di Computer Science all’Università della California di Berkeley, ha riassunto il grado di capillarità della diffusione dicendo proprio «that’s how you know it’s gone mainstream, man, it shows up on Etsy».

Anche nel report del Parlamento Europeo, «Tackling deepfakes in European policy» (2021), si spiega come sia in atto una democratizzazione del deepfake, in quanto è sempre più semplice produrli, anche solo attraverso filtri già integrati sui social come TikTok, Instagram e Snapchat, o bot su Telegram. Quindi sta aumentando il numero di utenti “ordinari” che colpisce altri utenti non famosi, “grazie” alla quantità di informazioni presenti sui social e alle nuove possibilità tecnologiche. La società di ricerca Sensity AI stima che più del 90% di tutti i deepfakes disponibili online riguardino pornografia non consensuale. La stragrande maggioranza degli utenti targettizzati sono donne, e il problema è aggravato dal fatto che i sistemi di rilevamento dei deepfake sono orientati per lo più su corpi maschili (perché, come racconta il documentario Coded Bias, gli algoritmi sono stati progettati e allenati su quei set di dati).

Un sotto-fenomeno che negli ultimi mesi sta registrando un’impennata è quello del deepnude, che da noi è stato infelicemente chiamato «ritratto di nudo profondo». Consiste nel caricare fotografie di persone su app o siti che, attraverso l’AI, eliminano digitalmente gli abiti dalle foto e modificano le immagini in modo che i personaggi appaiano nudi. Preciado nel libro Pornotopia (2010) a un certo punto parla della «X-Ray Girl», un disegno fatto da Gil Elvgren che raffigurava una pin-up, coperta da un lenzuolo bianco attillato, che teneva in mano una radiografia dell’interno del suo torace. Lo prende come esempio dicendo che «non è solo rivelazione di qualcosa di nascosto, ma un processo di produzione dell’intimità attraverso tecniche di rappresentazione visuale»; una sorta di lontano parente del deepnude che oggi “sveste” le persone.

Per quanto Google, reddit, X, Discord o Etsy stiano cercando di rimuovere questi contenuti e servizi, il numero di «app nudify» e, in generale, di «synthetic media powered by AI» disponibili sul mercato è davvero alta. Le richieste di video di pornografia non consensuale di celebrità sono soddisfatte ampiamente sui forum, e migliaia di siti sono dedicati esclusivamente alla condivisione di queste tipologie di video, come MrDeepFakes, che propone video e foto NSFW di varie celebrity. Con l’adozione di massa dei servizi AI vengono prodotti contenuti sempre più realistici, al contrario dei primi «cheapfakes» (manipolazioni audiovisive di bassa qualità). Nel momento in cui gli utenti hanno a disposizione delle tecnologie open-source, codici gratuiti senza restrizioni per infinite possibilità di utilizzo, la moderazione dei contenuti diventa pressoché inconcludente. 

La Regola #34 di Internet

Come ribadisce la «Regola #34» di Internet: if it exists there is porn of it. Quando Meta ha reso pubblico il suo modello AI chiamato ‘LLaMA’, una delle prime applicazioni che ha trovato riscontro su larga scala è stata Allie, un chatbot creato per scopi sessuali. Da lì sono apparse diverse app di chatbot a sfondo erotico, con avatar più o meno realistici, come Replika, Virtual Girlfriend, Blush o Sentient AI Future. Si presentano così delle chat in cui è possibile fare sexting con dei bot personalizzabili, inviando e ricevendo anche foto e audio capaci di soddisfare qualsiasi fantasia. È il sequel del film ‘Her’ (2013) di Spike Jonze e il prequel dell’episodio Be Right Back (2013) di ‘Black Mirror’.

Il successo, in termini di coinvolgimento «umano», di questo impiego tecnologico è stato riestratto dalla pornotopia dopo qualche mese, quando si sono registrati casi di cloni deepfakes di influencer cinesi che fanno livestreaming 24/7, e sta entrando nel mainstream anche attraverso Meta stessa che, durante la conferenza “Connect” di fine settembre 2023, ha presentato le AI Experiences, ovvero dei chatbot tematici pensati per le sue piattaforme che utilizzano i volti di personaggi famosi per essere più relatable. Diverse celebrity, infatti, hanno venduto per milioni di dollari i diritti delle loro immagini, come Paris Hilton, la TikToker Charli D’Amelio, la tennista Naomi Osaka e Kendall Jenner. Da quest’ultima, ad esempio, è nata Billie, il chatbot che dà consigli da “sorella maggiore” e che, intanto, ha iniziato a postare sui suoi canali social. 

Distinguere i post Instagram di Billie da quelli di Kendall sarà possibile, forse, solo attraverso il bollino in basso a sinistra che riporta che l’immagine è stata generata da AI. Scrivo forse, perché sull’unico video attualmente disponibile in cui Billie parla, quel bollino non c’è. Ci sono, però, migliaia di commenti che urlano alla distopia citando anche qui vari episodi di ‘Black Mirror’, o articoli che raccontano del cortocircuito per cui il bot di Billie, quando deve rispondere a “quale sia la sua tequila preferita”, non consiglia la 818 di Kendall Jenner.

Nelle AI Experiences di Meta non è ancora chiaro quanto e se la personalità dei bot si sovrapponga a quella delle celebs. Ma in particolare non si può ancora definire il grado cautelare di approfondimento sugli effetti psicologici delle interazioni con questi bot; anche considerando che quest’anno un cittadino belga si è suicidato dopo che un chatbot ha rinforzato la sua ecoansia. Su questo piano Clona.AI è più avanzata. Si tratta di una nuova piattaforma pornotopica, sempre sviluppata con LLaMa2 e fondata dalla pornostar Riley Reid, che offre servizi di chatbot per il sexting. Su Clona attualmente si può interagire con il clone di Reid, quello di Lena The Plug e di Dan Dangler, tre lavoratrici dell’industria pornografica.

Il lavoro sessuale è anche un lavoro di cura e spesso alle sex worker viene richiesto uno spazio di connessione sul piano emotivo per parlare del più e del meno, e non per forza di sesso; Clona nasce più per questo, ma prende precauzioni su alcune pratiche sessuali come il sounding (la pratica di inserire sonde nell’uretra) o l’asfissia erotica, perciò il clone di Reid è stato allenato per evitare escalation troppo hardcore: «Sounding is something that can be exciting, but it’s crucial to prioritize safety and take things slow. As for erotic asphyxiation, it’s important to remember that it can be dangerous and should only be done with a trusted partner who is aware of the risks».

Il porno è sempre stata la prima industria in cui i piccoli e grandi progressi tecnologici hanno preso forma (come i pagamenti online, il miglioramento delle bande di trasmissione, lo streaming).

I confini di utilizzo di massa non sono stati ancora tracciati, ma nella storia esiste un corso e ricorso che lega il rapporto tra tecnologia, pornotopie e censura. Come racconta Samantha Cole in How Sex Changed the Internet and the Internet Changed Sex (2022), il porno è sempre stata la prima industria in cui i piccoli e grandi progressi tecnologici hanno preso forma (come i pagamenti online, il miglioramento delle bande di trasmissione, lo streaming), ma ha anche spinto l’adozione di massa di alcune tecnologie, dalla preferenza delle VHS al deepfake. Finché l’utilizzo pornografico della tecnologia è rimasto confinato in una pornotopia, il discorso pubblico non ha reagito. Quando, invece, l’utilizzo pornotopico ha sforato nello spazio collettivo (spesso grazie a personaggi pubblici) allora è stata messa in atto una regolamentazione legislativa ed economica di stampo morale, aka la censura.

Leggi anche:  Come indossare l’appartenenza sociale

Queste policy, se assunte a priori in maniera indiscriminata senza consultare chi lavora nell’industria per ottenere nuove prospettive e insight, finiscono solo per danneggiare i consumatori e, soprattutto, chi si occupa di sex work. Bisogna imparare a distinguere le sfere d’intervento in questi media sintetici che coinvolgono una dimensione tecnologica (chi offre la tecnologia di base, come il machine learning), una creativa (gli utenti che creano deepfake e chatbot), una dimensione che riguarda la circolazione (e quindi le piattaforme di diffusione) e, infine, la dimensione del pubblico (che riceve i contenuti e reagisce a seconda della propria media literacy). È inoltre necessario impedire che queste tecnologie prendano le forme più convenienti per le piattaforme, a scapito degli utenti. D’altronde, come ha raccontato Reid in un’intervista, «the reality is, AI is coming, and if it’s not Clona, it’s somebody else»; le celebrità hanno già venduto i loro diritti, sarà forse un prete a occuparsi di quelli di tutti gli altri?

L’esempio più immediato è OnlyFans. Nato nel 2016, ha subito assunto un carattere pornografico; ci si abbonava ai canali di vari e varie creator a scopo di intrattenimento sessuale utilizzando video, foto o chat, a pagamento. La piattaforma faceva parte delle pornotopie nascoste, ma durante i lockdown del 2020 è stata pian piano gentrificata dalle celebrità, tanto da diventare mainstream; se ne è parlato ovunque, da ‘La Zanzara’ al telegiornale. Se il territorio diventa pubblico allora dev’essere regolamentato, e così è successo: nel dicembre 2020 Instagram ha impedito di pubblicizzare gli account OnlyFans, nel 2021 VISA e Mastercard volevano sospendere i loro servizi di pagamento (come successo con la rete Mindgeek, oggi chiamata Aylo) e la piattaforma stava per vietare i contenuti espliciti.


Leggi anche:  Imparare a cucinare su TikTok

Dylarama è una newsletter settimanale gratuita, che esce ogni sabato e raccoglie una selezione di link, storie e notizie su un tema che ha a che fare con tecnologia, scienza, comunicazione, lavoro creativo e culturale.



DylaramaIscriviti alla newsletter

Dylarama è una newsletter settimanale gratuita, che esce ogni sabato e raccoglie una selezione di link, storie e notizie su un tema che ha a che fare con tecnologia, scienza, comunicazione, lavoro creativo e culturale.